L'opera dello Spirito promesso da Gesù è "l'insegnare" (da non scambiare con l'indottrinamento) e il "ricordare", il fare memoria. Due verbi che ci chiedono dinamicità e non staticità.
Questa è l’ultima Domenica di Pasqua, nella prossima si farà memoria dell’Ascensione. Domenica scorsa la Liturgia ci ha proposto ciò che Gesù considera la sintesi dalla sua vita che ci consegna come un dono chiedendo diventi per noi un compito, quello di amarci l’un l’altro come lui ci ama.
In precedenza siano stati accompagnati a comprendere quali sono i frutti della morte e risurrezione di Gesù, le condizioni nelle quali si possa sviluppare nel cammino di sequela quel rapporto intimo tra noi e il Signore che ci lega a lui inscindibilmente, fino ad essere in lui una cosa sola con il Padre nel suo agire.
In questa VI Domenica di Pasqua si completa il commiato di Gesù con le ultime consegne. Tutto converge e si riassume nell’invito ad osservare la sua parola che significa fare della propria vita un dono d’amore a servizio degli altri. È una possibilità, un modo d’essere proposto all’umanità, non solo ai suoi seguaci e, guardandosi attorno, è facile verificare come e quanto questo sia vero, al di là di ogni previsione e sospetto.
A chi interpreta consapevolmente o meno l’amore gratuito del Padre non solo viene ricambiato ma Gesù assicura che con il Padre “verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.” Questa di Gesù non è una promessa per un futuro aldilà da venire, ma la risposta del Padre qui ed ora a quanti danno adesione concreta al suo modo d’essere.
All’inizio del suo Vangelo nel Prologo l’evangelista aveva scritto che Dio aveva posto la sua tenda fra noi. Ora Gesù non solo lo conferma ma approfondisce questa affermazione facendoci comprendere che, come al solito, il Padre non impone nulla, nemmeno la sua presenza. Sempre invece propone, offre alla nostra libertà una prospettiva, una possibilità che sta a noi accogliere o rifiutare. A chi ama come lui ci ama e orienta la propria vita per il bene degli altri, Gesù e il Padre prendono dimora presso di lui e questa persona diviene la loro tenda nell’umanità. Siamo noi le loro mani, il loro agire, la loro presenza tra gli uomini, hanno bisogno di noi, non possono esserci senza di noi. Quando hanno creato il mondo hanno scommesso su di noi, sulla nostra possibilità, sulla nostra capacità di interpretare e far trasparire il loro amore fa tutti, nell’intera realtà, nella nostra capacità di portare a compimento la creazione affidata alle nostre mani operose ma capaci anche di distruggere. Per questo Gesù dice che “Chi non mi ama, non osserva le mie parole”, chi non fa della propria vita un servizio d’amore per il bene degli altri, che pone al centro della loro vita il loro proprio bisogno personale e non quello dell’altro, non ha nulla a che vedere con lui e “la parola che voi ascoltate – dice Gesù - non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”. Tra loro due c’è perfetta unità, perfetta sintonia nel comunicare continuamente vita, nell’arricchire la vita di tutti.
Se siamo convinti che in ogni azione d’amore, di attenzione all’altro si esprime la misericordia infinita Dio e fa emergere che questo è quell’aver posto la sua tenda, la sua dimora non più solo “accanto” bensì nell’uomo (Gv 14,17), forse dovremmo rivedere quel nostro modo di dire che quando si muore si torna alla casa del Padre in cielo. Ma se siamo noi la sua “dimora” non è questa una contraddizione? Con la morte la vita non finisce, ma trova il suo compimento in Dio, in quel Signore della vita che si è fatto emergere nel bene compiuto e che, per questo, ha posto la sua tenda in noi (1Cor 3,10-15). Athenagoras I parlando della sua morte si chiedeva, affermandolo, perché avrebbe dovuto andare lontano dalle persone che aveva amato, dalla realtà che aveva vissuto con passione e abnegazione nel dono della sua vita per il bene degli altri. È un’altra modalità di essere presenti in questa realtà attraverso quel Signore al quale abbiamo dato spazio e possibilità di esprimersi attraverso di noi. Perché si dovrebbe andare in un indefinito “altrove”?
La pericope di questa Domenica è ricca di verbi di “movimento” (andare, tornare, venire, mandare …) a dirci che non ci si deve fermare, appiattire su di un qualcosa che si pensa immutabile, che c’è invece sempre molto da scoprire, accogliere, accompagnare, far diventare storia capace di creare nella “memoria” (il “ricordare”) le nostre radici, il nostro essere tralci innestati nella vite buona. È questa l’azione dello Spirito che il Signore ha promesso e inviato perché possiamo trovare sempre le risposte alle domande nostre e del nostro tempo che cambia in continuazione. Questo è il suo “insegnare” che non è “indottrinamento” ma la capacità di scoprire il dinamismo dell’Evangelo nella quotidianità. Gesù si accomiata abbandonandoci, ma chiedendoci di rimanere attenti all’ascolto della sua Parola che, di volta in volta, ci rammenterà e indicherà la strada della sua sequela.
(BiGio)