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Federico Faloppa: "In epoca di guerra, anche il linguaggio viene militarizzato"

Difficile trovare parole adeguate, di fronte alla guerra in corso e ai suoi costi umani. Ma la parola ha un potere straordinario: può uccidere o salvare vite, generare conflitti o risolverli. Ne parliamo con Federico Faloppa, cuneese classe 1972, che da vent’anni si occupa di costruzione dell’alterità attraverso la lingua, di hate speech e di manipolazione del discorso pubblico. Professore ordinario di Studi Italiani e Linguistica all’Università di Reading (UK), coordina la Rete Nazionale per il Contrasto ai Discorsi e ai Fenomeni d’odio e fa parte del Comitato di esperti per la lotta ai discorsi d’odio del Consiglio d’Europa. Recentemente ha pubblicato #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, dove analizza il fenomeno, offrendo importanti strumenti di contrasto.



«Scelte di carattere militare non possono non ‘militarizzare’ anche il linguaggio. Sulla lettura degli eventi non vi sono dubbi: vi è un aggressore, Putin e le sue forze armate, e vi è un aggredito, l’Ucraina e i suoi abitanti. Come sappiamo, le opinioni divergono però su come fare per tentare di fermare l’aggressore e per supportare quanto più possibile chi è stato aggredito. E su questo il dibattito si è polarizzato a tal punto che chiunque esprima perplessità sull’invio di armi all’Ucraina passa per un sostenitore di Putin, o per essere indifferente alla tragedia umana in corso, e chiunque invochi interventi militari sempre più decisi per sostenere la resistenza ucraina passa per chi vuole gettare benzina sul fuoco. (...) In una logica di guerra, l’informazione diventa propaganda: o contro qualcuno, o per sostenere graniticamente qualcosa. E quando questo accade l’incattivimento del dibattito è inevitabile». 

Cosa fare affinché la parola non venga strumentalizzata da parte dei poteri forti? 

«Ogni parola può essere manipolata, strumentalizzata. Ne è un esempio il discorso con cui Putin ha dichiarato guerra all’Ucraina, il 24 febbraio scorso: il modo in cui è costruita l’opposizione ‘noi’ vs ‘loro’, l’uso di avverbi per connotare negativamente le azioni degli altri, gli argomenti fallaci per leggere deterministicamente la storia russa degli ultimi trent’anni… Ma assistiamo a strumentalizzazioni da parte di chiunque abbia il potere di influenzare l’opinione pubblica, di imporre una certa agenda, di far passare come oggettive posizioni che non lo sono. Penso ad esempio, da noi, ai molti editoriali delle ultime settimane in cui – con grande dispiego di argomenti fantoccio – si presentano i pacifisti o come sostenitori di Putin o, nel migliore dei casi, come residui ideologici incapaci di comprendere il mondo. In una logica di guerra, su tutti i contenuti occorrerebbe esercitare un occhio critico e consapevole: anche soltanto per tornare a immaginare un lessico con cui si possano di nuovo prevenire e risolvere i conflitti, non soltanto interiorizzarne l’ineluttabilità».

L'intervistatrice Anna Cavallera ha poi proseguito ponendo le seguenti domande:

- In quali termini ‘guerra’ e ‘diritti umani’ rappresentano due sfere semantiche difficilmente complementari?

- Esistono ‘guerre di aggressione etiche’ o giuste, capaci di agire in un quadro di diritto internazionale?

- E le ‘guerre umanitarie’?

- Quali conseguenze sul linguaggio? 

- E poi c’è la parola che non si può dire: quella che viene censurata.

- Come resistere?

L'intera intervista a questo link:

https://torino.repubblica.it/cronaca/2022/03/21/news/federico_faloppa_in_epoca_di_guerra_anche_il_linguaggio_viene_militarizzato-342313299/


Ma, a me, chi mi ama?

«Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai», così si è aperto il periodo dell’anno in cui ci troviamo, la Quaresima, i quaranta giorni che culminano nella Pasqua, la Resurrezione. Credenti o meno, in questo cammino c’è la verità di come la vita avanza: morti e resurrezioni continue. 


È infatti grazie alle prime tombe che nel Paleolitico compare qualcosa di «nuovo». L’archeologia e l’antropologia quando scoprono un animale che restituisce la polvere alla polvere, componendola «con cura» (inumare, da in più humus, terra, significa infatti in-terrare), sono costrette a dire «qui c’è l’uomo», un animale per il quale la polvere non è solo polvere. Proust lo dice così in Alla ricerca del tempo perduto: «I miei ricordi, i miei difetti, il mio carattere non si rassegnavano all’idea di non esistere più e non volevano saperne, per me, né del nulla, né di un’eternità da cui rimanessero esclusi». Sono nulla o vita eterna già adesso? Questa domanda ci raggiunge in momenti drammatici, quando, spogliati dalle certezze delle abitudini quotidiane e dalle maschere dei ruoli che ci rendono riconoscibili agli altri, siamo nudi di fronte al destino. Non dimenticherò mai il momento in cui ho toccato questa dolorosa nudità in una persona: un pianto disperato al telefono, nel cuore della notte, mi portò a rivestirmi e a uscire, per abbracciare un corpo che, scosso dai singhiozzi, ripeteva: «Ma a me chi mi ama?». La polvere ha paura di essere solo polvere. Ma è anche altro?


L'intera riflessione di Alessandro D'Avenia a questo link:

https://www.profduepuntozero.it/2022/03/29/ultimo-banco-115-ma-a-me-chi-mi-ama/



Pace, la terza via necessaria. A colloquio con Giorgio Beretta

La guerra in Ucraina, il business delle armi, i pericoli della disinformazione nelle parole di Giorgio Beretta, analista dell’ Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) e di Rete italiana pace disarmo (Ripd): “I segnali ci sono sempre stati, bastava vederli”.


«Innanzitutto né gli Stati Uniti né la Russia hanno mai abbandonato la dottrina delle “zone di influenza” secondo la quale ciascuno considera sotto il proprio controllo una porzione di mondo, in particolare dell’Europa, secondo la spartizione degli accordi di Yalta. I segnali si sono intensificati soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino con l’avvento di diversi conflitti regionali già all’interno dell’Europa (ex Jugoslavia, Bosnia, Kossovo…) e poi in diverse parti del mondo tra cui Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Yemen, ecc. Paesi che sono stati utilizzati come “teatri di guerra” per combattimenti per procura, utilizzando di volta in volta forze militari di governi alleati o amici o milizie locali sostenute con denaro e armi».

Cosa manca all’Europa per scongiurare nuove aggressioni?

Ciò di cui l’Europa necessita non sono nuovi armamenti, ma di capacità diplomatiche e soprattutto di un nuovo modello di difesa, indipendente dalla Nato – che andrebbe al più presto convertita in una forza di polizia internazionale a disposizione delle Nazioni Unite –, commisurato sulle effettive esigenze di difesa e di sicurezza dei Paesi europei: un modello di difesa che includa a pieno titolo la difesa civile non armata e nonviolenta, corpi civili di pace, di diplomazia popolare internazionale …


L'intera intervista a cura di Michele D'Amico a questo link:

https://www.sapereambiente.it/guerra-in-ucraina/pace-la-terza-via-necessaria-a-colloquio-con-giorgio-beretta/


Ucraina, cattolici e ortodossi in preghiera per la pace a Varsavia

Incontro tra il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e l’Arcivescovo Gądecki, Presidente della Conferenza Episcopale Polacca

Oggi a Varsavia il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e l’Arcivescovo Gądecki, Presidente della Conferenza Episcopale Polacca, hanno pregato insieme per la pace incontrando i rifugiati ucraini in fuga dalla guerra.

“La nostra esperienza di questi due giorni è straziante, perchè è difficile guardare i volti delle persone sofferenti, incontrare le persone che hanno perso le proprie case, i propri cari, incontrare le donne, i bambini e gli anziani che hanno perduto i più prossimi, tutti i loro averi ad eccezione dei loro ricordi. E semplicemente non c'è possibilità di immaginare quale grande devastazione abbia provocato questa orribile invasione nel popolo ucraino e nel mondo intero", ha detto il Patriarca che si è complimentato con la Polonia per quanto fatto sul fronte dell’accoglienza: "Tutto il mondo -h a sottolineato - ha un enorme debito di gratitudine nei vostri confronti"


https://www.acistampa.com/story/ucraina-cattolici-e-ortodossi-in-preghiera-per-la-pace-a-varsavia-19475?fbclid=IwAR1x6qPlmF1Xt_eVXNV2HXmacnpZ_o5DEHK5H8bGI9eYd-wUtS5MDy5Xa8I



Custodiamo passi di pace

Visto che anche tu non potrai andare in Ucraina , accompagna i miei amici di Pax Christi Riccardo e Mimma che ci andranno con la carovana!

Articolo 19, gruppo di persone laiche e  religiose (cristiani, musulmani, buddisti, induisti) di Venezia, ti chiede di dedicare 10 minuti il 1 aprile (giorno in cui una carovana di associazioni si recheranno in Ucraina) preghiere, pensieri o letture che ci renderanno partecipi del viaggio.

L'intento è di creare una maratona di preghiera, di meditazione, di pensiero (ognuno secondo la propria sensibilità), durante tutta la durata del viaggio del gruppo "Stop The War Now" (www.stopthewarnow.eu) che partirà dall'Italia venerdì 1 aprile, affinché cessino i combattimenti, siano protette le popolazioni minacciate dalla guerra e si accompagnino e proteggano anche coloro che si recano a portare aiuti.

Aprite il link  https://docs.google.com/spreadsheets/d/1pxr9IHRSCtSTtjr2iI7N89PTXP89e0HU8vzuTuHi7Ik/edit?usp=sharing e scegliete i 10 minuti che vorreste dedicare a questa iniziativa, mettendo il vostro nome nello spazio corrispondente.


Nandino con il Gruppo Articolo 19

Ucraina, etica della responsabilità e nonviolenza: ecco cosa fare di fronte alla crisi

 Non mi considero un nonviolento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra

Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace


Nonostante le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo siano al lavoro 365 giorni all’anno con campagne informative e politiche, i “pacifisti” non sono mai stati chiamati tanto in causa nel dibattito pubblico come in questo momento. Ma quasi mai vengono invitati a presentare le loro posizioni: i diversi commentatori ne parlano facendo riferimento ad un’entità astratta, come una massa indistinta sventolante bandiere arcobaleno, della quale sanno poco o nulla per quanto riguarda i riferimenti culturali, le analisi, le ricerche, le azioni, le proposte. Chi vuol parlare di “pacifismo”– per contestare nel merito le posizioni dei pacifisti – dovrebbe almeno conoscere definizioni e questioni, elaborate da decenni di cultura e pratica della nonviolenza,sviluppate e applicate nell’ambito dalla peace research internazionale che ne fondano le proposte. A cominciare dalla conoscenza delle distinzioni semantiche di base, dei principi etici di riferimento, delle norme giuridiche che li recepiscono. Ecco allora alcuni elementi di base.

Conflitti e guerra
Mentre nel contesto anglofono conflict e war fanno riferimento ad ambiti di significato differenti, in italiano le parole “conflitto” e “guerra” vengono usate in modo interscambiabile. (...)

Forza e violenza
Anche i concetti di violenza e forza – che subiscono anch’essi in una confusione semantica – fanno riferimento a due cornici di significato ben distinte. (...)

Pacifismo e nonviolenza
Questo ci porta già all’interno della disambiguazione di senso tra pacifismo e nonviolenza, parole anch’esse usate spesso come sinonimi. In realtà ci sono almeno due differenze da mettere in evidenza. (...)

Utopia e realismo
Inoltre, le posizioni “pacifiste” vengono accusate di “utopia” mentre la presa d’atto della necessità di guerre e armamenti viene indicata come “realismo”. Eppure lo studio della storia dimostra il contrario. (...)

Etica della responsabilità nella situazione nucleare
Il realismo della nonviolenza affonda le sue radici nella classica distinzione di Max Weber tra ”etica dell’intenzione” e ”etica della responsabilità”. (...)

L’agire nonviolento e la “neutralità attiva”
E’ all’interno di questo orizzonte di senso – etico, politico e giuridico – che agiscono in maniera propositiva e pro-attiva le organizzazioni impegnate per la pace, il disarmoe la nonviolenza oggi riunite nel network Rete Italiana Pace e Disarmo (...)

A questo punto, che fare?
Intanto le cose da non fare. Consideriamo l’invio di armi in Ucraina, da parte dei governi occidentali e in specie di quello italiano, una scelta inaccettabile sul piano etico, sbagliata sul piano politico ed al limite della legalità sul piano giuridico. 
Che fare, dunque? A questo punto, due cose fondamentali. La prima, sostenereattivamente tutti coloro che – all’interno dei due fronti contrapposti – si muovono con l’etica della responsabilità e la forza della nonviolenza: gli obiettori di coscienza, i disertori, i resistenti alla guerra e i dissidenti alla logica bellica i quali stanno pagando in prima persona e a caro prezzo le loro azioni. Dando voce e forza ai costruttori di pace russi e ucraini che chiedono ai rispettivi governi di deporre le armi e di sedersi al tavolo delle trattative. La seconda: imparare da questi errori e intraprendere già da oggi la strada del disarmo e della nonviolenza anziché una nuovafolle corsa agli armamenti, come invece è stato proposto da un ordine del giorno votato ad ampia maggioranza il 16 marzo scorso in Parlamento. Per dare una chance al futuro, prima che sia troppo tardi.


L'intero interessante intervento di di Pasquale Pugliese, filosofo del Movimento Nonviolento; Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Pace Disarmo a questo link:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/03/23/ucraina-etica-della-responsabilita-e-nonviolenza-ecco-cosa-fare-di-fronte-alla-crisi/6535147/


Aborto: scende la richiesta di una legge più restrittiva

"Bisogna rivedere la legge sull'aborto per limitare i casi in cui è lecito": con questa affermazione è d'accordo, oggi, un nordestino su tre. Secondo le analisi di Demos per Il Gazzettino, questo è il punto più basso di adesione all'idea di mettere mano in senso restrittivo alla legge 194 del 1978 che regola l'interruzione volontaria di gravidanza.


 

Infatti, guardando alla serie storica dell'Osservatorio sul Nord Est, vediamo che, quello di oggi, è il valore minimo registrato negli ultimi 15 anni. Nel 2007, era il 44% dei rispondenti di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e della provincia di Trento a ritenere necessaria una revisione della legge sull'aborto attualmente in vigore. Questa percentuale si mantiene sostanzialmente stabile in tutto il decennio successivo: la quota varia tra il 42 e il 46% tra il 2008 e il 2011; raggiunge la sua punta massima nel 2013 (48%); si attesta stabilmente al 44% tra il 2014 e il 2017; approda al 40% nel 2018, e scende ulteriormente oggi, arrivando a coinvolgere il 33% dei nordestini.

 

Vediamo come cambia l'orientamento nei diversi settori sociali. Tra uomini (33%) e donne (34%) non sembra esserci differenza, ma è guardando insieme al genere anche l'età che sembrano emergere maggiori elementi di riflessione. Tra le più giovani, l'idea che la 194 debba essere rivista in senso limitativo non va oltre il 7%, ma tra i coetanei lo stesso orientamento raggiunge il 25%. 

 

In Italia si ricorre sempre meno all'interruzione di gravidanza. Siamo il paese con la percentuale più bassa al mondo. La Russia il primo posto con 33 aborti ogni 1000 donne seguiti da Bulgaria e Svezia poi più staccati Gran Bretagna Romania. In Italia nel 2020 sì sono praticate 73.000 zero 27 interruzioni 5,5 aborti per 1000 donne. I motivi sono diversi: i consultori hanno migliorato l'offerta l'assistenza il supporto e, in parallelo, si è registrato un aumento del ricorso alla pillola del giorno dopo ed altre pratiche contraccettive.

In genere le nuove generazioni, i millennials, sembrano aver portato sino in fondo la rivoluzione dell'intimità, così come definita dai demografi Dalla Zuanna e Vignoli in un'indagine svolta recentemente su 9000 studenti universitari. La ricerca del piacere sessuale fuori dentro la vita di coppia non è più vista in funzione della procreazione. La morale cattolica aveva già da tempo perso terreno anche fra quanti oggi sono adulti e magari vanno a messa, seppur saltuariamente. Quello che appare significativo è che il tema dell'aborto non divide più di tanto le coscienze. La vita di coppia è un fatto intimo e privato e non c'è più autorità esterna che possa dire cosa fare o non fare. Vivere la sessualità è diventato così un valore relativamente autonomo rispetto alla decisione se fare o non fare figli.

 

(Natascia Porcellato - Enzo Pace su Il Gazzettino)



Il Papa e la vera sfida alla guerra

La consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria è il gesto di papa Francesco contro il pensiero cristiano di tipo messianico e apocalittico, che parlano di una lotta finale tra il Bene e il Male, nell’imminenza della fine del mondo. Bergoglio ha scelto di definire questa guerra sacrilega compiendo un rito che possa raggiungere cuore e menti delle persone


Il sei marzo trascorso il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Sua Beatitudine Kirill, nella sua omelia davanti ai fedeli ha detto che “ciò che sta accadendo oggi nell’ambito delle relazioni internazionali non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Stiamo parlando della salvezza umana, su dove finirà l’umanità, da che parte di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Creatore, a destra o a sinistra… Tutto quanto sopra indica che siamo entrati in una lotta che non ha un senso fisico, ma un significato metafisico”.

A sua avviso da una parte c’è la Russia, depositaria dei valori tradizionali e di uno Stato cristiano che segue la legge di Dio, dall’altra l’Occidente, che governa gran parte del mondo

Francesco in questo vede un rischio di un pensiero cristiano di tipo messianico, quello che vede in un determinato Stato una sorta di Regno di Cristo già realizzato in terra, e di un pensiero cristiano apocalittico, quello che parla di una lotta finale tra il Bene e il Male, nell’imminenza della fine del mondo.

In questa lotta si chiede ai fedeli di fare di tutto per sconfiggere il Male e far favorire così il più rapido ritorno del Messia, il suo trionfo finale.

Ecco l’urgenza del papa, e anche la sua scelta di definire questa guerra sacrilega senza mai nominare nessuno. Il sacrilegio bellico, scatenato da Mosca, infatti non si sconfigge con un rito da esorcisti, ma raggiungendo il cuore e le menti delle persone.

Chiede il papa a Maria? “Attraverso di te si riversi sulla Terra la divina Misericordia”. La divina Misericordia davanti alla devastazione, ai ponti distrutti (i ponti, il segno più caro a Francesco), gli asili bombardati, il proprio figlio, o il proprio genitore preso in ostaggio, milioni di fratelli in fuga, giovani spaventati mandati al fronte, donne abusate, madri straziate, mariti attoniti… Ecco il punto: “Fa di noi degli artigiani di comunione. Per me vuol dire che abbiamo una comunione di destino, non un destino fratricida.

Il pensiero apocalittico però è più forte ancora, perché crede di mettere nel nostro far guerra la possibilità di avvicinare la fine del mondo, che porterà alla vittoria finale di Dio. Insomma come spesso gli accade Francesco ha capito la vera sfida: se non viene capito il rischio è evidente.


L'intera analisi di Riccardo Cristiano a questo link:

https://formiche.net/2022/03/papa-francesco-consacrazione-guerra/

La barbarie regna tra di noi, qui, in Italia

Verrebbe voglia di restare muti di fronte a questa guerra combattuta, narrata, discussa soprattutto attraverso menzogne. 
Chi non crede al destino bellico si ribella, fa resistenza e non confida in una unità dell’Europa trovata soltanto nella decisione di aumentare le spese per gli armamenti. 

Siamo passati dall’essere attaccati dal contagio virale della pandemia all’essere inondati da un’estensione virale di menzogne che ritenevamo impensabile. 

La guerra si è estesa ben oltre i confini russo-ucraini, è presente e attestata tra di noi come scontro, barbarie che rende impossibile ogni ascolto e ogni confronto, come antagonismo teologico-politico che vede il Male solo da una parte e il Bene solo dall’altra. Quando scoppia una guerra – qualsiasi guerra – la prima vittima non è la verità, ma il pensiero perché la guerra è aliena dalla ragione. 

Quando poi una guerra avviene perché una nazione vuole guidare il mondo, convinta che le spetti per destino o per vocazione storica, allora si rinnova l’esito disastroso della torre di Babele, il progetto del potere totalitario e universale che genera violenza e confusione tra le lingue incapaci di comunicare tra loro. 

La guerra è già una sciagura, ma genera guerra anche tra le parti non belligeranti prive della consapevolezza del futuro che stanno preparando. Non si tratterà solo della ricostruzione di ciò che è stato devastato, ma di un cammino di riconciliazione molto più lungo, perché la memoria conserva sempre cicatrici che stentano a rimarginarsi. Chi ci guadagna da una tale guerra? 

Non quelli che la combattono, ma i produttori di armi, tra i quali sono ben presenti quelli che combattono questa guerra per procura, non direttamente, ma attraverso le armi fornite ai belligeranti e mandando mercenari. Chi non crede al destino bellico si ribella, fa resistenza e non confida in una unità dell’Europa trovata soltanto nella decisione di aumentare le spese per gli armamenti. 

Questa mia lettura non è equidistanza, perché l’aggressore resta un aggressore, ma non è possibile che in un Paese come il nostro, che si vanta di essere una democrazia matura, emerga tanta intolleranza e purtroppo anche disprezzo verso chi non si sente in coscienza di appiattirsi sul pensiero dominante dei poteri occidentali. 

Proprio mentre il nostro governo decideva un aumento delle spese per gli armamenti, Papa Francesco ha avuto la parresìa di dire: “Io mi vergogno quando un gruppo di Stati si impegna a spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi come risposta a quel che sta succedendo. È pazzia!”. 

Queste parole del Papa le si censurano, oppure le si sopportano con sufficienza; ma se le dicono altri in sintonia con lui vengono giudicati ingenui o sono fatti oggetto di “lapidazioni” verbali, come è successo per alcuni interventi pacati di uomini e donne di cultura. Parlare sembra inutile, perché ogni voce che dichiari che la guerra è “aliena dalla ragione”, essendo voce sottile e mite, è disprezzata, e ogni analisi del conflitto che tenti di interrogarsi sulle cause e le responsabilità è soffocata dalla retorica belligerante. 

La barbarie regna tra di noi qui, nella nostra convivenza, e certo non delinea un orizzonte di pace per il futuro.

(Enzo Bianchi)

La IV Domenica di Quaresima abbiamo pregato così ....

 ... con le preghiere che sono state inviate via WhatsApp e appese ad arricchire il nostro albero di Pasqua che sta fiorendo ...


Introduzione

Questa domenica – quarta di quaresima – è il centro del cammino verso la Pasqua. 40 giorni per allineare il nostro cuore a quello di Gesù. E’ la domenica della gioia.

Tutte le letture che la liturgia oggi ci consegna sono attraversate dalla gioia:

nella prima lettura dal libro di Giosuè ci viene ricordata la gioia che provarono i figli di Israele che celebrano la prima Pasqua, il passaggio dalla schiavitù alla liberazione, mangiando i prodotti della terra appena entrati nella terra promessa:

la seconda lettura dalla seconda lettera di Paolo ai Corinzi è un messaggio che esprime la gioia di accogliere da Dio il dono della riconciliazione che ci rende creature nuove

il Vangelo ci presenta la parabola del Padre Misericordioso, la gioia del Padre che ha ritrovato il figlio che era morto e ora gli fa festa.

Al centro della parabola ci sta il Padre, mediante il quale Gesù ci trasmette l’immagine di come egli pensi Dio, e di come vuole che noi lo pensiamo.

Dio è padre misericordioso , ma proprio per questo vuole che siamo fratelli misericordiosi tra noi.

Il Padre della parabola ci svela il cuore di Dio, che ci ama oltre ogni misura, aspetta sempre la nostra conversione ogni volta che sbagliamo, attende il nostro ritorno quando ci allontaniamo da Lui pensando di poterne fare a meno; è sempre pronto ad aprirci le sue braccia qualunque cosa sia successa.

Come il Padre del Vangelo, anche Dio continua a considerarci Figli, quando ci siamo smarriti e ci viene incontro con tenerezza quando ritorneremo a Lui.


Intenzioni penitenziali 

 

Troppe persone non hanno potuto amare Gesù per esperienze di costrizione invece che di libera condivisione. Perdonaci Signore se non abbiamo mostrato il tuo vero volto.

Signore pietà

 

Come Comunità facciamo già molto per chi è in difficoltà ma è ancora poco rispetto alle necessità. Noi poi deleghiamo facilmente agli altri e rimaniamo spettatori senza coinvolgerci per pigrizia, incapacità, poca volontà. Perdonaci Signore ed aiutaci ad uscire dalle nostre sicurezze.

Cristo pietà

 

Signore, tu continui ad attenderci anche se non riusciamo a rimanerti fedeli, ad ascoltare la tua Parola, non smettere di farci sentire il tuo sguardo sulla nostra vita e sulla realtà che viviamo. Perdonaci Signore se frequentemente ci allontaniamo da te

Signore pietà


Preghiere dei fedeli

 

Signore, rendici consapevoli e capaci, di ascoltare. Spesso senza volere, creiamo muri anche con le nostre parole, ristrette nel linguaggio tradizionale della chiesa, talvolta incomprensibile, se non addirittura insopportabile, perché si sente ferito, nella propria storia personale, da esperienze di esclusione anziché di inclusione.

Signore, rendici consapevoli e capaci, di ascoltare e parlare nei linguaggi dei nostri interlocutori.

Noi ti preghiamo

 

 

Questo tempo attuale con la pandemia e la guerra ha bisogno di attenzione e consapevolezza, il nostro benessere se non è condiviso con chi soffre, inaridisce. 

Signore fa che ci fermiamo e troviamo la nostra strada

Noi ti preghiamo

 

Signore misericordioso, tu ci abbracci sempre, tutti. Ti chiediamo di aiutarci a fare un’impalcatura: di accoglienza, condivisione e speranza affinché diventiamo costruttori di pace! Fa che smettiamo di essere egoisti, individualisti e ciechi. Trasforma la nostra vita in gioia, altruismo e comunione col prossimo.

Noi ti preghiamo

 

 

La guerra continua e le armi continuano a fare morti e distruzione: Stanziamo ancora soldi per acquistarne ancora di più. Aiutaci ad avere uno sguardo accogliente e di pace, capace poi di ricostruire senza rancori.

Noi ti preghiamo



Questa immagine di Francesco Piobbici (Lampedusa 2016) era posta a fianco dell'altare



Il foglietto "La Resurrezione" di domenica 27 marzo

 


Insopportabile ...

Non è una foto recente, però è attinente al nostro oggi e, in ogni caso, questa immagine di Ferdinando Scianna è insopportabile come chi benedice le armi


 

IV di Quaresima – Lc 15,1-3.11-32

Due fratelli, una richiesta di indipendenza e un padre che supplica 


Il tema che questa Quaresima ci propone, ha iniziato ad affacciarsi con chiarezza domenica scorsa. Innanzitutto avvertendoci che è necessario osservare con attenzione a quanto ci accade attorno, osare la fatica di viverlo e il rischio di interpretarlo, perché Dio ci chiedere di vivere “in questo mondo”, non fuori da esso (Tt 2,12), cercando i germogli di Risurrezione e del suo Regno che ha seminato ovunque, anche nelle situazioni più difficili e tragiche.  
Siamo stati posti di fronte alla narrazione della pazienza del Signore che non vuole morte ma conversione e, per raggiungere questo suo obiettivo, giunge a sottomettersi ai nostri tempi. Alla logica della scure e del taglio prospettato dal Battista, Gesù ha opposto la logica del lavoro, della pazienza e dell’attesa. Il lavoro del contadino attorno al fico sterile appare come una terapia, un’opera di guarigione. Il fico era vivo, ma in realtà era morto perché non produceva nulla. Il Signore va in cerca e salva ciò che era perduto (come Lc 19,10: Zaccheo) o è nella condizione del figlio minore della parabola di oggi che, dice il padre, “era morto, ed è tornato in vita”.

Quel figlio più giovane che gli aveva chiesto la parte di “averi” che gli spetta. Il termine greco usato (ousìa) letteralmente significa “essenza” oppure “sostanza”, il figlio chiede cioè di poter “essere”, di avere una sua vita. È una richiesta di indipendenza alla quale, in una qualche misura, tutti abbiamo aspirato e che chiediamo ai giovani di far propria. In sé stessa è una richiesta legittima e, infatti, il padre non obietta nulla ma procede a dividere equamente a metà tra i due figli quanto possiede, spingendo così anche il maggiore ad assumersi la responsabilità di avere una sua vita. Il Padre dà loro quanto serve per vivere (il termine greco usato per i “beni” dati ai figli è bìos, cioè la “vita”) e poter, in autonomia, scegliere in piena libertà. In fin dei conti i figli sono come delle frecce che vanno lanciate per poter svolgere il loro compito (Ps 127).

 

Il figlio minore se ne va e “disperde” tutto quello che prima aveva “raccolto” perché sceglie di vivere in modo “dissoluto” scivolando fuori da quanto il padre gli aveva consegnato (insegnato): un modo di vivere all’interno di un progetto di vita di un popolo, di una Alleanza al servizio del Signore. Quell’essersi posto al servizio di un pagano in mezzo ai maiali significa l’essersi allontanato dal mondo ebraico, rinunciando di appartenervi.

Scopre e sperimenta la solitudine in mezzo a un mondo avverso e lo assale la fame, forse non solo di pane, ma anche di ciò che esce dalla bocca di Dio. Un detto rabbinico dice: “Gli israeliti, quando hanno bisogno di carrube, fanno conversione”. È quanto accade al giovane che “ritorna in sé”, capisce e prende coscienza della distanza esistente tra la sua situazione e il progetto del padre: la possibilità (per ambedue i fratelli) di vivere in “pienezza”.

Inizia allora il ritorno verso la casa del padre “alzandosi”, cioè rimettendosi diritto in piedi mentre prima era accasciato, ripiegato su sé stesso. Il verbo usato, è quello della resurrezione: è una nuova nascita che lo fa scorgere dal padre quando era ancora lontano, proveniente da quella terra dove si era reso “straniero”.

 

Il figlio maggiore non ha abbandonato la casa familiare, ma la sua reazione al rientro del fratello rivela che tra lui e il padre esiste una distanza diversa ma altrettanto forte da quella realizzata dal fratello. Anche lui sogna una “libertà” fuori da casa, senza il padre. Al pari del fratello ha sempre avuto la disponibilità di realizzarla ma non ne ha mai avuto il coraggio. È sempre rimasto in casa in un atteggiamento di passiva sudditanza per paura della libertà donatagli; per questo, invidia il fratello e la sua reazione è quasi violenta. 

Anche la sua realtà, la sua situazione non è conforme al progetto del padre che desidera che i figli siano responsabili della loro vita in autonomia. Rientrerà anche lui in casa a festeggiare? Non lo sappiamo. La sua realtà forse è peggiore di quella del fratello perché ha smarrito la gioia, non sa più fare festa e, soprattutto non riesce a rallegrarsi dell’amore del padre nel quale certamente crede, ma che limita entro i confini del suo personale senso di giustizia esclusivamente retributivo.

 

Il padre è figura centrale. Corre incontro al figlio che sta rientrando, non gli fa terminare il discorso che si era preparato e si affretta a ristabilirlo in tutti i suoi diritti: l’anello, la veste non banalmente la più bella, ma quella (di) “prima” perché qui viene richiamata quella insanguinata di Giuseppe venduto dai fratelli che Giacobbe aveva custodito con affetto …, coinvolgendo i servi nella riabilitazione del figlio e fare festa. Nei suoi confronti non fa nessun rimprovero, nessuna domanda, non chiede nessun risarcimento. Solo la gioia del ritrovamento e usa il linguaggio della resurrezione “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. 

 

La festa inizia e qui il padre si comporta in modo inatteso: esce dalla sala a supplicare il figlio maggiore di entrare. Questo suo gesto di affetto corrisponde alla corsa che aveva fatto quando aveva da lontano visto il ritorno dell’altro figlio: continua ad amarli entrambi nello stesso modo. È necessario che entri anche lui a fare festa ricomponendo l’unità della comunione che era rimasta ferita.

 

È questo che cerca di far capire Gesù ai suoi interlocutori: peccatori e pubblicani gli si avvicinano per ascoltarlo; farisei e scribi – rispettivamente i credenti e i religiosi di quel tempo - mormorano perché Gesù accoglie i primi e siede a mensa con loro. Dalla parabola siamo guidati a discernere il nostro modo di stare davanti a Dio, la nostra sintonia con il volto del Padre che Gesù è venuto a rivelarci e che non ha la scure in mano pronto ad usarla. Ogni falsa religiosità è messa con le spalle al muro e ci obbliga a prendere posizione: rimanere chiusi nella nostra immagine di Dio o aprirci al liberante volto di misericordia del Padre che ci supplica, di considerarci figli e non servi, di entrare nella sua gioia perché anche la nostra sia piena.

 

(BiGio)

La parabola dei due figli con, in controluce, una provocazione: se il figlio che se ne va per il mondo fosse la Chiesa?

La parabola la conosciamo: il figlio minore chiede di poter avere una vita autonoma e il Padre accoglie la richiesta cercando di spingere anche l’altro figlio all’indipendenza. Il racconto ruota attorno a tre termini: memoriaoblio e perdono.




È la memoria che fa rientrare in sé stesso il ragazzo disponendolo alla teshuwà, facendolo rialzare e dandogli la forza di incamminarsi verso la casa del padre. Sono le circostanze che suscitano la sua memoria dalla quale nasce la possibilità di concepire e poi realizzare il ritorno.

Se non ci fosse stata quella carestia, quelle circostanze, forse non avrebbe mai nemmeno ipotizzato di ritornare. Gli eventi sfuggono al nostro controllo, ma non dallo sguardo di Dio. In questo caso fanno ritrovare quel figlio a corto in quelle risorse che riteneva incalcolabili e illimitate.

Nella sua storia, Israele ha fatto più volte esperienza di trovarsi coinvolto in eventi storici non voluti. Uno per tutti: la salita al trono di Ciro che gli aveva donato la possibilità di ritornare dall’esilio alla sua terra.

Si può allora forse essere autorizzati a leggere in questo testo di Luca, anche qualcosa che è capitato nella storia della Chiesa. 

Dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme, fiorirono due movimenti figli della medesima tradizione: il rabbinismo sinagogale giudaico e il cristianesimo. Quest’ultimo, grazie all’eredità ricevuta dalla ricchissima tradizione spirituale e religiosa del II Tempio, giunse al punto di ritenere di aver sostituito Israele, fomentando un durissimo antisemitismo ancora oggi duro da estirpare completamente e che sussiste strisciante: non parliamo forse spesso all’imperfetto degli ebrei?

Ma un evento del ‘900, la shoàh, e la scoperta della Chiesa della sua incapacità di fare fronte a questa tragedia, l’ha portata a rientrata in sé stessa

Da qui è cresciuta la coscienza che nei secoli smarrito perso nell’oblio tante delle ricchezze contenute nella linfa vitale delle sue radici. Ha iniziato così un percorso che l’ha portata alla Dichiarazione Conciliare “Nostra Aetate”, frutto di una conversione lenta ma progressiva, che ha fatto toccare la soglia del mistero del progetto di Dio rivelato e attuato continuamente nei figli di Abramo, ai quali loro (noi), i Goin si erano, come aveva spiegato l’apostolo Paolo,  soltanto aggiunti grazie all’innesto nell’ulivo buono.

 

Certo, nella parabola poi c’è anche oblio del fratello maggiore che lo porta alla negazione stessa della fraternità per lo spreco dell’eredità fatto dal fratello uscito di casa.

 

C’è anche un ulteriore oblio, quello della paternità da parte di ambedue i fratelli. Uno considera infatti il padre una specie di banca mentre, l’altro, lo riduce a un padrone colpevole di non aver punito il reprobo e non aver premiato lui per la “fedeltà”.

La tragedia dei figli si trasforma così in tragedia del padre che avrebbe potuto ragionare solo con la mente e non anche con il cuore come poi, invece, ha fatto perdonando ad ambedue.

 

Potremmo a questo punto dire che l’oblio della fraternità e della paternità è stato all’origine dell’incomprensione reciproca tra la Sinagoga e la Chiesa costringendoci, in qualche modo, ad ignorarci reciprocamente per lunghissimi secoli. Una situazione che ha trasformato i fratelli in estranei e il padre in padrone, con la conseguente perdita dei sentimenti fondamentali della paternità-figliolanza-fraternità.

 

È quello che accade nella parabola ai due i fratelli: arrivano infatti alla conclusione comune di sentirsi semplicemente dei servi. Il figlio minore formula dentro di sé la sua condizione pensando di doverla dichiarare con umiltà al padre. Il figlio maggiore rivela questa stessa convinzione gettandola come un’accusa gravissima in faccia il padre.

 

La risposta del padre mostra che invece lui si lascia guidare gratuitamente, liberamente, solo dall’amore, senza misure o restrizioni e, in modo assolutamente personale, perdonando e colmando le deficienze di ambedue i figli. Desidera che ambedue vivano riscoprendosi fratelli e suoi figli

 

È quanto sta avvenendo in questi nostri anni tra ebraismo e cristianesimo i quali, più che fratelli, sono figli gemelli, nati contemporaneamente dal Giudaismo del secondo Tempio, che si erano persi giungendo anche a una lotta fratricida. Ma, ora, si stanno ritrovando nella festa senza fine dell’amore dell’unico Padre.

 

(BiGio)

 

Il lungo respiro dell’amore. Il figlio l’ha abbandonato, ma lui non lo abbandona

Il figlio che si era sciolto dai legami paterni, si trova poi legato a uno straniero che non è padre, ma padrone. Il rientrare in se stesso del giovane nasce dalla presa di coscienza dell'amore del padre restato fedele e mai venuto meno anche quando lui l'ha misconosciuto.


L’annuncio dell’amore fedele di Dio che diviene perdono è al cuore del messaggio del vangelo di questa domenica. Amore fedele di Dio significato dall’agire del padre protagonista della parabola che costituisce la pericope evangelica odierna (Lc 15,1-32). Un agire, o forse, un non-agire, che appare scandaloso e che non può non interpellarci. Il padre, di fronte al figlio che pretende di avere la parte di patrimonio che gli spetta, non si oppone, ma obbedisce. E quando il figlio, “dopo non molti giorni” (Lc 15,13) decide di andarsene, non gli si oppone e non gli dice nulla. Il padre appare senza parola e senza iniziativa: è un padre che non impone la legge del padre. Non fa un solo gesto per impedire quella spartizione anticipata dei beni che era sconsigliata dal Siracide: “Al figlio […] non dare potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze perché poi non ti penta e debba richiederle. […] È meglio che i figli chiedano a te piuttosto che tu debba volgere lo sguardo alle loro mani. In tutte le tue opere mantieni la tua autorità e quando finiranno i tuoi giorni al momento della morte assegna la tua eredità” (Sir 33,20-24). Questo padre sembra rinunciare alla sua autorità. Da lui nemmeno una parola per indurre il figlio a cambiare idea o per consigliarlo una volta che ha deciso di andarsene. Segno di debolezza? Di incapacità di comunicazione con i figli? Il non detto del testo consente diverse interpretazioni, ma il senso delle parabole che Gesù sta narrando, che evocano l’atteggiamento di Dio verso l’uomo, suggeriscono che questo silenzio e questa inazione siano voluti e facciano parte dell’agire di amore di questo padre che rinvia al Dio Padre esplicitamente richiamato al termine delle due prime parabole in Lc 15,7 e 10. Questo padre ha il coraggio e la forza di non fare niente. Anche una volta che il figlio minore se n’è andato, non lo va a cercare come il pastore che si mette in cerca della pecora smarrita, ma resta a casa, facendo un atto di fiducia radicale e restando in attesa. E che il suo restare a casa non sia segno di rassegnazione o di disinteresse, lo mostra il fatto che quando il figlio intraprenderà la via del ritorno, lo intravvederà ancora lontano e gli correrà incontro. A dire di un’attesa sempre vigile, di un desiderio mai scemato, di un amore mai venuto meno. A dire di un padre che ha avuto la forza di lasciare che la soggettività del giovane si manifestasse, anche in un modo che certamente gli provocava angoscia e dolore. Il silenzio del padre non è dunque segno di debolezza ma di forza nei confronti di se stesso. Ha saputo non cedere alla tentazione di incatenare il figlio alla casa per non dover soffrire lui stesso. Il padre ha accettato che l’allontanamento fosse la via per il figlio di nascere a se stesso, di incontrare se stesso. Non a caso il momento di svolta dell’itinerario del giovane sarà il “rientrare in se stesso” (Lc 15,17). Dunque, di questo aveva bisogno il figlio: di trovare lo spazio e le condizioni per prendere contatto con se stesso, per fare di se stesso la casa in cui entrare prima di poter rientrare nella casa paterna. Con sofferta intelligenza dunque, il padre non ha compiuto gesti autoritari per fermarlo, pur sapendo i rischi che il giovane avrebbe corso andando in un paese lontano. Ha accettato di vedersi sconfessato come padre e ha deciso di non attivare le funzioni di autorità e di parola, di legge e di interdetto proprie della figura paterna. Ha capito che il problema non era quello di proteggere se stesso dalla angoscia che gli avrebbe provocato l’allontanamento del figlio, ma di dare spazio al figlio, anche al suo errare e al suo errore. Ha avuto la forza di non pensarsi onnipotente e infallibile, di non ritenere di sapere lui quale fosse il bene del figlio e di imporglielo. La compassione del padre inizia già qui, nel sentire l’unicità del figlio e nel percepire la sofferenza del figlio stesso dietro alla decisione che aveva preso. La compassione del padre esploderà emotivamente al ritorno del figlio: allora le viscere paterne si spaccano (esplanchnísthe: Lc 15,20), ed ecco la corsa, l’abbraccio, il bacio, la veste migliore, l’anello, il vitello grasso, la festa. Ma questo momento non è che l’epifania di una sofferenza con e per il figlio, di un com-patire che egli ha assunto accettando la soggettività del figlio. Si è fatto servo del figlio. Gli ha dato spazio ritraendosi. Ha agito efficacemente scegliendo di non agire.


L'intera riflessione di Luciano Manicardi a questo link: