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Dialogo interreligioso. Le domande da farsi nell’ultimo libro di Adrien Candiard “per essere in pace non bisogna essere tutti d’accordo”

Il dialogo interreligioso è un argomento che si fa sempre più pressante nella società contemporanea dove, parafrasando Papa Francesco che dell’argomento ha fatto uno dei baluardi del suo pontificato, i confini geografici e sociali vanno sempre più lasciando il passo a ponti che necessitano incontro e discussione. Parte proprio da questa riflessione l’ultimo lavoro di Adrien Candiard, domenicano francese, islamologo che vive al Cairo, in Egitto, dal titolo “Tolleranza? Meglio il dialogo – Il caso Andalusia e il confronto tra le fedi”


Il dialogo interreligioso è un argomento che si fa sempre più pressante nella società contemporanea dove, parafrasando Papa Francesco che dell’argomento ha fatto uno dei baluardi del suo pontificato, i confini geografici e sociali vanno sempre più lasciando il passo a ponti che necessitano incontro e discussione. Parte proprio da questa riflessione l’ultimo lavoro di Adrien Candiard, domenicano francese, islamologo che vive al Cairo, in Egitto, dal titolo “Tolleranza? Meglio il dialogo – Il caso Andalusia e il confronto tra le fedi” (ed. Lev 10 euro), presentato il 26 ottobre a Roma nella Sala Marconi di Palazzo Pio in un incontro al quale hanno partecipato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, e Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Libreria editrice vaticana. “Facciamo un errore pensando che per essere in pace bisogna essere tutti d’accordo, penso che questo sia un po’ totalitario. È interessante quando posso prendere sul serio la cosa che uno mi dice”, ha dichiarato Candiard durante la presentazione, spiegando che la parte interessante del dialogo arriva sulle tematiche sulle quali non si è d’accordo.

“C’è una differenziazione da fare tra identità religiosa e pensiero religioso”, ha proseguito lo scrittore francese sottolineando come non si possa ridurre la religione ad un fatto culturale, cioè alla sola identità, che ad esempio porta una persona nata in Italia ad avere più motivi di essere cattolica al confronto con una nata in Afghanistan: “Ci sono opinioni, credenze, dottrina, un pensiero. Per quanto riguarda le identità ci possiamo conoscere, fare festa assieme, questo è bello, gentile e tranquillo, però non possiamo dire a qualcuno: tu sei afghano e hai torto, ho ragione io che sono italiano. Questo non ha senso, quindi non entra in discussione”. Per questo motivo il dialogo assume un carattere interessante nel momento in cui si entra nel merito delle convinzioni. “Io penso che Dio è uno e trino, questa è una convinzione che va discussa. Capisco che un mussulmano non è d’accordo, ma non è un’offesa personale. Se lui mi rimprovera di essere francese non possiamo andare avanti ma se lui mi dice che il mio discorso sulla trinità non ha senso, è l’inizio di una possibile discussione, proprio perché parliamo di convinzioni, di opinioni, allora posso dare qualche argomento, posso spiegarmi”. Adrien Candiard ha posto l’accento sul rispetto che è alla base del dialogo costruttivo…


L'intero articolo di Marco Calvarese a questo link:


https://www.agensir.it/italia/2022/10/29/dialogo-interreligioso-le-domande-da-farsi-nellultimo-libro-di-adrien-candiard-per-essere-in-pace-non-bisogna-essere-tutti-daccordo/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2



Il Foglietto "La Resurrezione" del 30 ottobre

 



Domenica XXXI PA – Lc 19,1-10

Anche di fronte alla peggiore delle realtà umane, il Signore è là che continuamente bussa ed attende pazientemente che gli sia aperta la porta: la salvezza non è altro che l’amore con il quale Dio ci ama in Gesù Cristo che ci rende figli nonostante gli ostacoli che noi poniamo: la nostra statura (la misura dei nostri peccati), la società e i suoi impegni (la folla), le cose da fare.

 


Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fine dell’Anno Liturgico e i brani tratti dall’Evangelo di Luca di queste ultime domeniche ci aiutano a compiere una sintesi del cammino fatto in questi dodici mesi nei quali ci è stata presentata la figura e l’opera di Gesù, dal suo avvento e il suo irrompere nella storia dell’uomo, al dispiegarsi del suo messaggio, dalle esigenze per porsi alla sua sequela, all’annuncio della misericordia del Padre, dall’invito rimanere nel suo costante ascolto (la preghiera) per poter vivere costantemente secondo la sua volontà di amore per tutta la creazione, all’uscire dal nostro egocentrismo e farsi strumento della sua giustizia e della sua salvezza.

 

Ecco allora oggi il racconto dell’incontro di Gesù con Zaccheo, un pubblicano, un peccatore per eccellenza, disprezzato, paragonato e assimilato ai pagani, alle prostitute, ai ladri, ai malfattori e agli adulteri per i soprusi che costantemente gli veniva “naturale” fare essendovi autorizzato dal suo mestiere di esattore delle tasse per conto di un re imposto.

Però questo uomo ha il desiderio sincero (il suo nome in ebraico significa "puro", "innocente"), senza secondi fini, di “vedere” Gesù che passava per Gerico, la sua città. Ma era piccolo e la folla che si accalcava gli impediva di realizzarlo: non pensava a nulla di più anche se il termine “vedere” nella Scrittura sottende l’instaurarsi di un rapporto tra le due realtà che si incontrano. Corre allora avanti e, non facendo caso alla dignità che il suo rango che gli imponeva, si arrampica su di un sicomoro.

Qui l’Evangelo ci propone un capovolgimento inaspettato: non è Zaccheo che dall’alto dell’albero riesce a vedere Gesù ma, viceversa, è Gesù che vede Zaccheo e lo invita a scendere subito “perché oggi devo fermarmi a casa tua”.

Non è il nostro “fare” che attira l’attenzione di Dio. È il Signore che costantemente ha lo sguardo su di noi; non per spiarci, bensì per salvarci. Siamo abituati a pensare che è l’uomo alla ricerca di Dio e una certa spiritualità che viene da lontano, dall’inculturazione della fede con il neoplatonismo, ci spinge in questa direzione. La Scrittura però, fin dalle sue prime pagine, ci dice tutt’altro: è Dio che è costantemente in ricerca dell’uomo: scende in cerca di Adamo ed Eva, scende per rivelarsi a Mosè e liberare il suo popolo, cerca la pecora persa, veglia e scruta l’orizzonte per vedere il ritorno del figlio.

È un Dio che bussa alla nostra porta per chiedere ospitalità come ci racconta anche l’Apocalisse e, quel “io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20), viene detto alla chiesa di Laodicea della quale Dio, poco prima, aveva detto: “Poiché sei tiepida, non sei cioè né fredda né calda, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,16). Vale a dire che, anche di fronte alla peggiore delle realtà umane, il Signore è là che continuamente bussa ed attende pazientemente che gli sia aperta la porta.

A Gerico, peccatori o meno, la folla che accompagnava Gesù era molta ma, a lui, interessava solo la figura di un peccatore per eccellenza: Zaccheo. Se riesce a salvare lui significa che riuscirà a salvare tutti. In fin dei conti l’aveva detto fin dall’inizio che era venuto “non a chiamare i giusti, ma i peccatori per la conversione” e che “vi sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Nonostante questo la folla mormora perché “È andato al alloggiare da un uomo peccatore” mentre tutti si attendevano e, forse, facevano a gara per potersi gloriare di averlo avuto ospite.

Il frutto immediato dell’incontro tra i due e dell’ospitalità reciproca è il capovolgimento del comportamento di Zaccheo, che diventa oltremodo generoso al di là di ogni disposizione della Legge e in forte contrasto con il suo passato fraudolento. La sua è una promessa e, in base a questa, Gesù dichiara “Oggi la salvezza è avvenuta (e non entrata) in questa casa”. 

È questa la salvezza? Quanto ha promesso di fare Zaccheo? Certo, in questo caso la dimensione economica ne ha a che fare, ma non è tutto. Infatti poche domeniche fa c’era stato l’ammonimento di Gesù: “non potete servire a Dio e a mammona”: se si è ricchi non si aspetta più nulla e non si vede altro all’infuori della propria realtà di benestanti, non si scorge Lazzaro ai piedi della nostra tavola.

Non per nulla Gesù precisa: la salvezza è entrata nella casa di Zaccheo “perché anch’egli è figlio di Abramo”. Non dipende perciò dal nostro agire e dal nostro darsi da fare, bensì con il nostro “essere”. Non è però una questione etnica: l’essere o meno ebrei. Zaccheo lo era ma la salvezza “è avvenuta” nella sua casa e ha cambiato il suo modo di esistere in un preciso momento: quando ha accolto l’invito di Gesù di essere suo ospite e gli ha aperto la porta della sua abitazione, per condividere la sua realtà. 

La salvezza allora è Gesù, è nell’incontro con la sua persona che ciascuno di noi trova vita, la ragione della sua esistenza e siamo chiamati ad esserne testimoni: lo saremo nella misura nella quale saremo capaci di porci alla sua sequela, vivendo il suo modo d’essere lungo i sentieri che lo hanno portato sulla croce.

Zaccheo si è spogliato delle sue ricchezze perché ha scoperto che la ragione d’essere non stava nel moltiplicarle all’infinito, ma nello sguardo che Gesù aveva posto su di lui. L’accorgersi di questo gli ha permesso di vivere in anticipo il momento della salvezza che Dio riserva a tutta la sua creazione. 

La salvezza non è altro che l’amore con il quale Dio ci ama in Gesù Cristo che ci rende figli nonostante gli ostacoli che noi poniamo: la nostra statura (la misura dei nostri peccati), la società e i suoi impegni (la folla), le cose da fare.

Zaccheo oggi ci ha indicato la strada per superarli: rinunciare a sé stessi e aprire il nostro mondo agli altri, alzare gli occhi, vedere Lazzaro. Abbiamo però anche la certezza che Dio non cesserà di cercarci finché il Gesù non sarà riuscito, al prezzo della sua croce, a entrare in noi abilitandoci ad andare incontro agli altri riconoscendo in loro solo fratelli e sorelle.

 

(BiGio)

Mettersi nei panni di Zaccheo

È necessario decidere se questo è il racconto di un episodio a cui assisto o se entro in scena come Zaccheo, ne vesto i panni, ne assumo l’identità.


Tanto più si conosce qualcosa quanto più si fa tutt’uno con la cosa stessa. Conoscere infatti significa ridurre la distanza tra il soggetto e l’oggetto. Ciò è tanto più vero in un contesto biblico, dove conoscere indica una relazione intima, anima e corpo com’è tra coniugi. Così vuole funzionare la Parola, che non è scontato: tra noi moderni vige il metodo scientifico che distingue il conoscente dal conosciuto.   
Il brano di Zaccheo, per esempio, vale come racconto di un fatto che ha entusiasmato i presenti e il redattore, ma può lasciarci spettatori compiaciuti e nulla più. 
Il discorso cambia se sento di essere io Zaccheo, se sono io che, dimentico del mio fardello degradante, mi lascio andare alla curiosità e al desiderio di vedere alcunché di bene e di bello che viene su circondato dalla folla vociante, se sono io che corro avanti, invento un albero su cui salire e aspetto in posizione alta che passi quest’uomo prodigioso, che guarisce i malati, rincuora i poveri, benedice le anime afflitte, perdona i peccati. Quel che la mia condizione fisica e lo status di dannato sociale mi impediscono, con un po’ di iniziativa me lo sono aggiudicato.  
È un merito per me, lettore moderno, quello di immedesimarmi nel personaggio di Zaccheo e sentire le parole di Gesù che leggendo in me quel che non saprei sperare si rivolge proprio a me dicendo: “Che fai lassù? Scendi, vengo a casa tua”. Io non scendo, precipito giù, fisso gli occhi su di Lui che mi fissa e corro ancora, corro a casa per dare ordini e preparare l’accoglienza, inciampo sui ciottoli, non vado meglio con le parole che, nell’emozione si arrotolano una sull’altra e, senza sapere perché, sono già beato. Rinasco davvero e non so come, so che la mia condizione non mi è più di peso, nulla è cambiato, i segni verranno dopo, ma tutto è già cambiato: colui che ha nella parola e nel gesto una virtù risanatrice e benefica è ospite a casa mia, non ci posso credere!           
Sì. Lo so che poi alcuni, i soliti farisei, sedicenti uomini perbene, capi del tempio, per invidia verso quell’uomo buono, a causa mia cominciano a insultarlo. “È andato a casa di uno scomunicato, vergogna!”. Eh no, gli dico. Sarà anche vero che faccio un lavoro socialmente riprovevole, ma ora ecco: una metà dei miei ben la do ai poveri e restituisco quattro volte tanto a qualcuno che ho frodato. (Perché 4? I Romani davano facoltà al gestore delle imposte, in genere un ricco commerciante – una volta che questi aveva versato in anticipo il totale stabilito dal governatore – di pretendere dai singoli contribuenti fino a quattro volte l’imposta dovuta. Un latrocinio).     
Insomma correggo la situazione e il mio diventa un lavoro vero e proprio, poiché quel che è di Cesare gli va comunque dato, lo stato deve funzionare e le tasse vanno pagate.
 
Per chiudere: farsi contemporanei del Vangelo. La differenza è data dal grado di immedesimazione che scegliamo di avere. Io decido se questo è il racconto di un episodio a cui assisto o se entro in scena come Zaccheo, ne vesto i panni, ne assumo l’identità. Io sono Zaccheo appunto, con un segreto, intimo desiderio di vedere Gesù, io che con tutto il male che ho dentro mi prendo questo spasimo di gioia dimenticando i miei guai. È l’unico modo per incrociare il suo sguardo e sapermi guardato, riconosciuto più di quanto io mai immagini di riconoscermi e sentirmi dire: “La gioia che cerchi non è un momento fugace: è per sempre, se vuoi”. Come, Signore? “Conserva in te la mia parola, io sono là”.
Tra me e il Signore c’è solo il mezzo della mia mente. Essa di per sé è come una scimmia, dispersiva e riottosa ai comandi, se cedo per me è finita: scava dei solchi nei quali si allineano i pensieri tossici, viziati.      
Guarire la mente è tutto. Avere la mente in Dio era, è la funzione delle ‘giaculatorie’. Un tale alzandosi la mattina diceva: “Signore, oggi io e te sempre insieme!”. Così Gesù si fa presente a noi e noi a Lui e questa è la prima guarigione. Poi viene la conversione e la rinascita.

(Valerio Febei e Rita)

27 ottobre: XXI giornata del dialogo Cristiano-Islamico alla Cita

Ieri 27 Ottobre 2022 è stata la XXI giornata del dialogo Cristiano-Islamico con larichiesta unanime dei Musulmani e Cristiani:


DISARMIAMOCI!
IL nome di DIO in cui crediamo è PACE !
La Fraternità Islamico-Cristiana di Venezia ha espresso con forza un NO alla guerra, alla produzione e al commercio delle armi e un SI al ricorso alle trattative diplomatiche e al disarmo totale.
Aiutiamoci a radicare nelle nostre menti le parole, i gesti e le difese della pace, poiché le guerre iniziano proprio nella mente degli uomini.
Impegniamoci, Cristiani e Musulmani e non solo, per essere costruttori della cultura della pace in famiglia, a scuola, nella società e nel mondo intero.

Ricordiamoci:
Iddio chiama alla dimora della pace:

وَاللَّهُ يَدْعُو إِلَىٰ دَارِ السَّلَامِ

Poi ovviamente il tutto si è concluso con la condivisione di un bel piatto di "Macluba" Palestinese



Ecco “LabOratorium”: l’oratorio digitale di don Alberto Ravagnani

Il giovane prete influencer spiega il progetto: "Non faremo sussidi del catechismo, tranquilli. Si tratta di essere al passo coi tempi per comunicare ciò che è eterno"


Il primo oratorio digitale: è LabOratorium, il nuovo progetto ideato dal prete youtuber Don Alberto Ravagnani. LabOratorium nasce come Associazione di Promozione Sociale (APS) al servizio dei giovani che desiderano avere una voce nel mondo digitale. «Lavorare insieme con un obiettivo comune è un pretesto per costruire relazioni buone e ispirate al Vangelo», spiegano da LabOratorium. 

 

Chi ne fa parte

Oltre al fondatore, don Alberto Ravagnani, ne fanno parte, tra gli altri, Giulio Gaudiano, Francesco Lorenzi, Paolo De Nadai, don Luigi Maria Epicoco, fra Roberto Pasolini, Luca Bernabei. 

 

Gli obiettivi di LabOratorium

Il progetto di don Alberto offre ai giovani loro la possibilità di stare insieme per creare progetti di comunicazione che raccontino il volto bello della Chiesa alle nuove generazioni, in collaborazione con movimenti, parrocchie, istituzioni, ma anche per attività e progetti propri. La realizzazione di spazi e strumenti comuni nei quali promuovere la formazione dei ragazzi che vogliono imparare a comunicare. Una community che sia anche comunità in cui fare esperienza di legami significativi e di Dio.

 

Mai trascurare la dignità delle persone

E ancora, la prevenzione per un uso responsabile dei social e degli strumenti di comunicazione, affinché siano orientati alla valorizzazione della dignità delle persone, con un’attenzione speciale ai più giovani.

 

La formazione digitale di pastorali e diocesi

LabOratorium offre ai suoi membri, alle aziende che lo richiedono, a pastorali giovani e sociali, diocesi e istituti religiosi, possibilità di formazione professionale a supporto delle attività nel campo della comunicazione, del marketing e del business digitale.

Gli incontri, gli aggiornamenti, gli workshop avvengono sia online che offline, in un contesto di relazione ispirata al Vangelo, nella ricerca della Verità che è capace di renderci liberi e informata al magistero della Chiesa Cattolica sulla comunicazione e sulla società digitale.



L'intera presentazione di questa esperienza innovativa a questo link:


Il bar e la teologia

Per chi, come me, vede nella teologia una materia intrigante e sconosciuta, il libro di Marco Ronconi, Teologia da bar (Effatà; cf. SettimanaNewsqui) appare un vademecum per cercare di non essere respinti dalla augusta disciplina, mentre c’è l’occasione di avvicinarla, magari solo chiacchierando davanti a un caffè.

Non sarebbe stata la stessa cosa se il titolo fosse Teologia da chiesa, perché io non frequento la parrocchia. Va così da quando, giovanissimo chierichetto, scappai lasciando la mia lunga tonaca sull’altare dicendomi: “qui non ci tornerò mai più”. Cosa fosse accaduto non lo ricordo.



Oggi, tolte le occasionali visite turistiche o gli incontri pubblici in chiesa o luoghi di chiesa – a cui certo non rinuncio -, è ancora così. Ma non sarei sincero se non aggiungessi che, a volte, entro in qualche chiesa per intrattenermi con quel senso della vita che anima anche la mia stessa vita. Mi capita da anni: non solo nei momenti di paura o di smarrimento, bensì pure in quelli di “godimento”.

Grazie a Marco Ronconi ora scopro che posso partecipare a qualcosa che a che fare con la teologia anche al di fuori delle chiese, anche al bar: anche questo termine non usato in maniera provocatoria, se accostato alla teologia.Che sollievo leggere, ad esempio, di una certa sessuofobia, guardata senza simpatia alcuna, sebbene con rispetto e considerazione! Che sollievo trovare che il godimento sessuale non è un peccato, da nascondere, tacere, rimuovere e non è da differenziare da altri godimenti, quale quello dello spettacolo gratuito di un’aurora o della lettura di un bel libro, del quale dire che si può godere appunto, benché si possa preferire un altro termine: gioia, ad esempio. Così come è sempre un godimento stare bene con gli amici.

Questo esempio mi fa considerare che la chiesa, in cui occasionalmente ritorno, mi ha insegnato a costruire una “casa” per Dio, ove, rispettando le regole e le forme del linguaggio, umanamente imposte, è possibile incontrarlo.

Se fossi nato in terra di musulmani sarei andato in moschea, anche per mangiare, chiacchierare con gli amici o fare un sonnellino: le moschee, infatti, sono vissute come le case che Dio ha edificato per gli umani. Vuol dire, forse, che, se fossi “nato” musulmano, in moschea avrei potuto incontrare l’intrigante teologia che qui, invece, mendico nei caffè vicini a casa mia?

La domanda mi si impone perché Ronconi spiega che lui, studiando teologia, si è occupato d’anima senza essere psicologo, di strutture sociali senza essere sociologo, di ferite umane senza essere medico, di parole senza essere un letterato, di narrazioni senza essere uno storico, di futuro senza essere un economista.

Dunque, io stesso sono un aspirante studioso di teologia senza saperlo, visto che mi interessano tutte queste materie, ma non ho mai studiato sistematicamente alcuna delle scienze che di questi temi si occupa.

L'intera riflessione di Riccardo Cristiano a questo link:

http://www.settimananews.it/teologia/il-bar-e-la-teologia/?fbclid=IwAR1C7wmJRR8UFszef7klQ4BoZ-UQ1zMqJ7iJSUFsVJPFmhKMX6_D1NnwlFk#comments


Hollerich: la Chiesa deve cambiare, rischiamo di parlare a un uomo che non c’è più

Una interessantate intervista a Jean-Claude Hollerich, 64 anni, cardinale arcivescovo di Lussemburgo, è presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea e vicepresidente del Consiglio delle Conferenze dei vescovi d’Europa, nonché Relatore generale al Sinodo sulla Sinodalità.

Con l’apertura della fase continentale del Sinodo sulla Sinodalità accoglie di buon grado di conversare con l’«Osservatore Romano» sull’andamento della più diffusa consultazione della storia della Chiesa in Europa, e dei suoi contenuti.


Lo incontriamo nella chiesa parrocchiale di Roma di cui è titolare, mentre si intrattiene come un “buon parroco” con i bambini del corso per la prima comunione. «La chiesa non è questo edificio, spiega loro, chiesa significa assemblea. Chiesa siete voi. Perché, come dice Papa Francesco, senza i giovani non c’è chiesa, perché Dio è giovane». Poi ci viene incontro «sono proprio contento di essere titolare, non di una delle belle chiese del centro storico, ma di questa parrocchia di periferia; quando vengo qui ritrovo la gioia di fare il prete tra la gente».

Il mese scorso il cardinale Zuppi ci ha rilasciato una lunga intervista sul Sinodo della Chiesa italiana, nella quale, con molta onestà, non ha nascosto di aver registrato una partecipazione inferiore alle aspettative, in quantità e qualità. Qual è la visione che lei ha dell’andamento del Sinodo nel panorama europeo?

Sì, ho letto con molto interesse quell’intervista. Con altrettanta onestà mi sembra che le osservazioni di Zuppi possano valere anche per gli altri paesi europei, anche se con dei distinguo necessari tra paese e paese. Vedete, io credo che oggi in Europa siamo affetti da una patologia, che, cioè, non riusciamo a vedere con chiarezza quale sia la missione della Chiesa. Parliamo sempre delle strutture, il che non è un male certo, perché le strutture sono importanti e sicuramente devono essere ripensate. Ma non si parla a sufficienza della missione della Chiesa. Che è annunciare il Vangelo. Annunciare, e soprattutto testimoniare, la morte e risurrezione di Gesù il Cristo. Un testimoniare che il cristiano deve interpretare principalmente attraverso il suo impegno nel mondo per la salvaguardia del creato, per la giustizia, per la pace. L’insegnamento di Papa Francesco è tutto e nient’altro che l’esplicitazione del Vangelo. Non è difficile capirlo. Nel mondo secolarizzato di oggi l’annuncio diretto non sempre viene compreso, ma la nostra testimonianza sì. Veniamo osservati e valutati nel mondo per come viviamo il Vangelo. È un po’ come avviene per gli insegnanti a scuola: è importante certo quello che dicono, ma ancora più importante è ciò che comunicano di sé. Nel nostro caso quello che rileva è la coerenza con il Vangelo. Prendete ad esempio l’enciclica Laudato si’. Tanti l’hanno letta, anche tra i non credenti, anche tra chi non conosce il Vangelo. E tutti quelli che l’hanno letta ne hanno condiviso la valenza, l’importanza, l’urgenza. Ne ho avuto un diretto riscontro nei miei contatti quotidiani coi politici del parlamento e della commissione europei a Bruxelles. Tutti dunque hanno letto Laudato sì, e ne hanno ammirazione. E lo stesso è valso anche per Fratelli tutti. Cioè tutti riconoscono a Papa Francesco la paternità della proposta di un nuovo umanesimo. Che lui spesso propone in solitudine tra i grandi leader mondiali. Ma sta poi a noi saper spiegare che l’umanesimo di Francesco non è solo una proposta politica, ma è proclamazione del Vangelo. Chi è fuori della Chiesa certe volte capisce il Vangelo meglio di chi ci sta dentro. Papa Francesco ha dunque indicato questa modalità di annunciare il Vangelo, che parte dalla realtà, quella realtà che ci vede tutti creature e figli dello stesso Padre. Ma per rispondere alla vostra domanda iniziale: in tutti i paesi europei nei sinodi si è parlato molto di comunione, di partecipazione, ma assai poco di missione.


Sicuramente le difficoltà registrate nei sinodi dei vari paesi sono state influenzate da una certa difesa istintiva del proprio status da parte del clero e dall’altro lato da una persistente attitudine delegante dei laici.

Il concetto di sinodalità fu introdotto da Papa Paolo VI come esigenza di collegialità, di comunione tra i vescovi ...

L'intera intervista a questo link:

https://www.chiesa-cattolica.it/hollerich-la-chiesa-deve-cambiare-rischiamo-di-parlare-a-un-uomo-che-non-ce-piu-18281.html


"Cura, non bombe": la proposta di un appello da firmare

Il Comitato organizzatore della Marcia PerugiAssisi, il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani e la Tavola della pace propongo di firmare un appello per fermare le guerre e la militarizzazione, liberarsi della minaccia atomica prima che sia troppo tardi. La cura è la via della pace da percorrere assieme.

Cura, non bombe. Di questo abbiamo bisogno. Che senso ha continuare a buttare tanti soldi per le armi quando mancano per difenderci dai cambiamenti climatici, assicurare il diritto alla salute, investire sull’educazione dei giovani e dare un lavoro dignitoso a chi non ce l’ha?
La pandemia, il cambiamento climatico, la guerra e l’ingiustizia economica ci stanno impoverendo. Milioni di famiglie, donne e uomini, bambini, giovani e anziani stanno subendo un continuo peggioramento delle condizioni di vita. Ma, più in generale, nessuno si sente più realmente al sicuro. Cosa dobbiamo fare?

Per decenni abbiamo consumato risorse immense in armi ed eserciti. E anche oggi si pretende di aumentare ancora la spesa militare. Dicono che è necessario per la nostra sicurezza. Ma il risultato è che viviamo in un mondo sempre più povero e insicuro, pieno di guerre che diventano sempre più estese e allarmanti. Un mondo sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Per questo dobbiamo cambiare.

La vera sicurezza di cui ci dobbiamo preoccupare è la sicurezza delle persone che non riescono ad arrivare a fine mese, che sono costrette a sopravvivere nella più totale incertezza, in ambienti malsani, senza dignità, diritti né legge, in balia della paura e della violenza, dell’illegalità, di sfruttatori, criminali e mafie. E’ di loro che ci dobbiamo occupare, come stabilito dalla nostra Costituzione (art. 2 e 3), nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (art. 25), nell’Agenda 2030 e nel Rapporto dell’Unesco “Re-immaginare i nostri futuri insieme”.

Promuovere la sicurezza umana vuol dire assicurare ad ogni persona il diritto ad una vita dignitosa. Di cos’altro si devono preoccupare i governanti?

Mentre continua l’escalation della guerra in Ucraina e ogni giorno esplode una nuova emergenza sociale ed economica, dobbiamo preoccuparci di sviluppare rapidamente la nostra capacità di cura della comunità e di ogni persona, senza distinzioni di genere e di nazionalità. Per questo servono investimenti, politiche e governanti capaci di implementarle.

Dobbiamo aiutare chi non ce la fa, soccorrere chi è in difficoltà, proteggere chi è minacciato, nutrire chi è affamato e assetato, curare chi è ammalato, sostenere chi è fragile, ridurre le disuguaglianze, preservare i beni comuni, salvare la nostra umanità e il nostro pianeta. Per questo, dobbiamo rimettere al centro le comunità locali e finanziare e riqualificare i servizi pubblici e universali (i servizi sociali, sanitari, per l’educazione, la formazione, l’ambiente, la cultura …).

Serve una nuova cultura della cura che ci liberi dalla cultura dell’individualismo e della guerra, della competizione selvaggia, dello sfruttamento e dello scarto. Solo così potremo sperare di salvarci e di mettere al sicuro anche la nostra democrazia, le istituzioni democratiche e i valori universali che sono indispensabili per affrontare le sfide planetarie che incombono.

Fermiamo le guerre e la militarizzazione del mondo! Fermiamo la corsa al riarmo e i mercanti di morte! Liberiamoci della minaccia atomica prima che sia troppo tardi! Investiamo sulla politica della cura, non sulle armi! La cura è la via della pace. Percorriamola assieme.

PS. Più dura, più ci fa male. L’invasione russa dell’Ucraina è una catastrofe. La sua continuazione è intollerabile e insostenibile. Per questo, i governanti devono fermarla. Non alimentarla. Togliamo la parola alle armi e ridiamola alla politica. Ciascuno si assuma la responsabilità di fare la pace


Per firmare l'appello cliccare il seguente link:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSexBPsGKOr3T51zv8A4PtiktjOlAABdTCGa1jfIjajkVLF8Vg/viewform


oppure

📩 Scrivi a adesioni@perlapace.it




“Utama – Le terre dimenticate”, il grido disperato in difesa di un mondo che si estingue

È in sala nei cinema italiani dal 20 ottobre il film del regista boliviano Alejandro Loayza Grisi sul disastro ambientale e umano provocato dalla siccità sull’altopiano andino


In aymara, lingua ufficiale della BoliviaUtama significa “la nostra casa”, una casa che nel film di Alejandro Loayza Grisi è in un territorio vulnerabile, esposto ai cambiamenti climatici ma poco rappresentato e quasi dimenticato dalle nostre parti, a più di 3.500 metri sul livello del mare, nell’altopiano sudamericano. È qui che in Utama – Le terre dimenticate, al cinema in Italia distribuito da Officine Ubu dal 20 ottobre, vivono Sisa e Virginio, due anziani di una famiglia Quechua tra i pochi a non aver lasciato il raccolto e i pascoli dei lama per andare a vivere in città, dopo che una devastante siccità ha ridotto il terreno a una landa desolata.

«Gli sconfinati paesaggi, le riflessioni e i ritratti che mettono in risalto gli sguardi profondi dei personaggi sono i miei strumenti per raccontare una storia che interroga profondamente le questioni sociali, ambientali e umane in questi tempi di cambiamento», ha spiegato il regista.

Campi lunghissimi, panorami mozzafiato a cui l’eccellente fotografia (affidata all’argentina Barbara Alvarez) riesce a dare ragione e dialoghi asciuttissimi fanno di Utama – Le terre dimenticate un piccolo gioiello (che dopo il premio della Giuria al Sundance Film Festival 2022 è stato scelto per rappresentare la Bolivia agli Oscar 2023) fatto soprattutto di immagini di cui sarebbe un peccato non godere su grande schermo. «Utama è un ammonimento. Le persone anziane rappresentano una coscienza perduta e una saggezza che raramente viene ascoltata. I personaggi di Virginio e Sisa, con tutta la saggezza maturata negli anni, rappresentano una cultura che ha visto le sue giovani generazioni perdere la lingua e il loro sapere mentre si integravano con un mondo sempre più globalizzato. La cultura Quechua, e le sue opinioni su morte, vita e natura, sono qualcosa di molto noto a La Paz, ma che sta scomparendo», si legge nelle note di regia.



L'intera presentazione di Francesca Romana Buffetti di questo film da vedere a questo link:


https://www.sapereambiente.it/visioni/utama-le-terre-dimenticate-il-grido-disperato-in-difesa-di-un-mondo-in-via-destinzione/



Siria. Padre Jallouf (Idlib): “L’esito della guerra nelle mani di Russia e Turchia”

Seppur sparita dai radar dell'informazione, la guerra in Siria, scoppiata nel 2011, continua a fare morti. Di questi giorni la notizia di scontri tra milizie ribelli nella zona di Idlib per il controllo dell'area, unica rimasta in mano agli oppositori jihadisti del regime del presidente Assad. Nella zona vive una piccola comunità cristiana, con due frati della Custodia di Terra Santa, padre Hanna Jallouf e padre Luai Bsharat. Il Sir ha raccolto la testimonianza di padre Hanna

“Da qui sono passati tutti i gruppi di ribelli e terroristi, Isis, al-Nusra oggi Hayat Tahrir al-Sham. Viviamo così dal 2011 quando ha avuto inizio la guerra”. A parlare al Sir è il francescano Hanna Jallouf, parroco di Knaye, uno dei tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte (gli altri due sono Yacoubieh e Gidaideh) distante solo 50 km. da Idlib, capoluogo dell’omonimo Governatorato, ultimo bastione nelle mani dei ribelli che combattono contro il regime del presidente siriano Bashar al Assad.

Non pare sorpreso, il religioso, davanti alla notizia che l’esercito turco, nelle ultime ore, ha dispiegato mezzi e uomini nel nord-ovest della Siria, dopo un accordo raggiunto tra Ankara e la coalizione di milizie qaediste – guidate da Hay’at Tahrir ash Sham (Hts) – che nei giorni scorsi avevano conquistato gran parte del distretto di Afrin allontanando le fazioni più vicine alla Turchia, in particolare il Fronte di Liberazione Nazionale (Faylaq Al-Sham). Duri combattimenti che avevano provocato decine di morti tra due milizie che pure avevano combattuto insieme l’esercito regolare siriano. L’area è interessata da più di due anni da una tregua russo-turca per la spartizione del nord-ovest della Siria in due zone di influenza: una russo-governativa siriana a sud e una turca più a nord.

“Non è una sofferenza nuova”. “Non è una sofferenza nuova” dice padre Hanna che, con il confratello, padre Luai Bsharat, tengono unita la piccola comunità cristiana locale – poco più di 1.100 ‘anime’, tra latini, armeno-ortodossi e greco-ortodossi – intorno ai conventi di san Giuseppe e di Nostra Signora di Fatima. I due, infatti, sono gli unici religiosi rimasti nella zona, perché ricorda il frate, “quando è scoppiata la guerra tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono andati via o fuggiti. Molte chiese e luoghi di culto armeni e greco ortodossi sono stati distrutti o bruciati. Tra questi il nostro convento di Ghassanie”. Padre Hanna nel 2014 fu anche rapito dai qaedisti, insieme a 16 parrocchiani e rilasciato dopo qualche giorno. Ma ora non serve rivangare il passato, perché, rimarca, “la guerra e le sanzioni hanno prodotto, non solo morti e distruzione, ma anche tantissima povertà. I bisogni di oggi sono impellenti, manca praticamente tutto, acqua corrente, elettricità, medicine, i prezzi sono altissimi, ma dobbiamo continuare a vivere”.

L'intero articolo di Daniele Rocchi a questo link:

https://www.agensir.it/mondo/2022/10/21/siria-padre-jallouf-idlib-lesito-della-guerra-nelle-mani-di-russia-e-turchia/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2



Non se n'è quasi parlato ma il voto in Bosnia Erzegovina lascia il paese ancora senza vincitori e ancora più diviso tra spinte secessioniste, interessi geopolitici ed è alle nostre porte ...

Il 2 ottobre la Bosnia Erzegovina è andata al voto nel bel mezzo della peggior crisi politico-istituzionale della sua breve storia di paese indipendente. Il sistema ideato dagli Accordi di Dayton che posero fine alla guerra nel 1995 è considerato tra i più complicati al mondo ed è costantemente messo a dura prova dalle spinte secessioniste e segregazioniste delle correnti nazionaliste serba e croata. La corruzione dilagante, l’alta percentuale di disoccupazione e l’esodo di massa, soprattutto dei più giovani, tolgono linfa vitale alla società civile e alle forze politiche che si battono per una Bosnia Erzegovina unita, democratica e realmente multietnica.



I risultati hanno visto i partiti non nazionalisti ottenere la maggioranza alla presidenza nazionale, ma il loro parziale successo è stato oscurato dalla mossa dell’Alto Rappresentante che ha modificato la legge elettorale e la Costituzione dell’entità della Federazione di Bosnia Erzegovina poco dopo la chiusura dei seggi. Questo ha scatenato un’ulteriore divisione della società su base etnica e sottolineato le spaccature presenti all’interno della comunità internazionale.

In questo articolo vediamo come è diviso il paese dal punto di vista territoriale e politico-amministrativo, per cosa si è votato e perché queste elezioni sono importanti per il futuro del paese.

"In Bosnia ci sono più politici che abitanti"

La divisione territoriale e politico-amministrativa della Bosnia Erzegovina è scaturita dagli Accordi di pace di Dayton che nel 1995 posero fine alla guerra.

Il paese balcanico è diviso in due entità, la Federazione di Bosnia Erzegovina (FBiH) e la Republika Srpska (RS). Il distretto autonomo di Brčko, istituito nel 2000, completa il quadro territoriale. L’entità della FBiH detiene il 51% del territorio ed è a sua volta divisa in dieci cantoni, di cui sei a maggioranza bosgnacca (bosniaco-musulmana) e quattro a maggioranza croata. La RS, che gestisce il restante 49% del territorio, è a maggioranza serba.

La struttura politica della Bosnia Erzegovina si compone di quattro livelli. Al primo livello abbiamo lo Stato centrale guidato da una presidenza tripartita, i cui tre posti sono equamente assegnati a membri dei popoli costitutivi (bosgnacchi, serbi e croati) che ruotano ogni otto mesi durante un mandato quadriennale. Il secondo livello è quello delle sopracitate entità: entrambe possiedono una Costituzione e un governo propri. Il terzo livello corrisponde ai cantoni, anch’essi dotati di proprie istituzioni legislative, esecutive e giudiziarie. A ogni cantone appartengono alcune competenze esclusive, su tutte il corpo di polizia e il sistema educativo. Il resto delle responsabilità, tra cui i trasporti e i sistemi sanitario e di protezione sociale, sono condivise con le autorità dell'entità. Infine, al quarto livello (il terzo per la RS) troviamo le municipalità: sono 143, di cui 79 in FBiH e 64 in RS. 

Questo sistema cervellotico, che è un esempio di consociativismo in cui i tre principali gruppi etnici del paese si spartiscono la torta, ha prodotto 14 governi, 13 premier e ben 166 ministeri. I candidati alle ultime elezioni, per tutti i livelli amministrativi, erano 7.258. Non è un caso, dunque, che i cittadini bosniaco-erzegovesi scherzino sul fatto che nel paese ci sono più politici che abitanti.



L'intera analisi di Alia Alex Czmic a questo link:


https://www.valigiablu.it/bosnia-erzegovina-elezioni-2022/



I Giovani gli adulti e il gender

 Le teorie gender non esistono. Non, almeno, nella forma di spauracchio che coloro che le avversano temono. Esiste invece la ricerca di un’identità di genere oggi sempre più fluida: che per i giovani è costitutiva, primaria, ma che vedono in maniera molto diversa rispetto alle generazioni che li hanno preceduti.

È per questo che nelle scuole e nelle università è così importante che se ne parli (lo si fa già, del resto: la differenza è se ad interrogarsi sono anche le istituzioni, come necessario). E che si consentano percorsi di sperimentazione diversi, come gli alias, il cambiare nome e apparenza: perché è davvero un altro mondo quello che ragazzi e ragazze stanno attraversando, anche se noi, generazioni precedenti, non lo capiamo. Per molti di loro è la nuova normalità. Sono cambiati i costumi sessuali, ma anche i sentimenti e il modo di esprimerli, e le forme di espressività. Il semplice fatto che la distanza dal primo rapporto sessuale al momento del matrimonio o semplicemente di una convivenza, di un legame più stabile, sia aumentata così tanto, e si misuri ormai in lustri, nemmeno in anni, ha fatto sì che in mezzo si apra un campo e un periodo di sperimentazione, anche per tentativi ed errori, con un aumento dei partner e del tipo di rapporti: il cambiamento anche culturale che c’è già stato consente ai giovani di sperimentare e sperimentarsi come nessuna generazione precedente ha potuto fare. Sì, certo, è anche un fenomeno di moda, ed è normale.

Come per tutte le cose significative che ci riguardano: ma dietro ci sono domande autentiche, vita vissuta, sofferenze anche (basterebbe ascoltare coloro che si sono trovati in situazione di incertezza identitaria, magari abitando in un piccolo paese, non capiti dalla famiglia, dal contesto che avevano intorno, e solo grazie a internet hanno scoperto che la loro ricerca aveva un nome, che c’erano migliaia di giovani come loro, e questo li ha salvati). Se ne discute, si parla, si sperimenta, si assumono comportamenti diversi, e se ne capisce il costo, la difficoltà, l’impegno. La società complessivamente ci guadagna. Bisogna cominciare a pensare che a essere capaci di vivere l’esperienza dell’altro non ci si perde niente: ci si arricchisce solo, e ce n’è un enorme bisogno. I giovani in questo vogliono davvero essere diversi dalle generazioni che li hanno preceduti, e potranno vivere in un mondo diverso perché lo stanno già costruendo.

Non è lo sfizio di un progressismo ottuso, che viene accusato di non vedere i veri problemi della società, mentre questi sarebbero inutili e irrilevanti. Così come per l’accettazione della pluralità culturale, il multiculturalismo cui viene spesso accoppiato, l’attenzione al genere mostra che per le giovani generazioni, tanto la diversità etnica e razziale, quanto la differenza di genere, è sempre più irrilevante. È proprio un salto generazionale. Come i bambini che fin dal nido hanno come compagni bambini di altra religione, colore della pelle, etnia, e non lo vivono come problema, non si fanno problemi ad accettare queste diversità, almeno fino a quando non si mettono a ripetere pappagallescamente i pregiudizi appresi in famiglia, dai loro genitori, così è per l’identità di genere, e i comportamenti detti devianti, o non conformi. E questo processo, ormai innescato, è irreversibile: tanto vale tenerne conto.

Forse sta accadendo qualcosa di simile all’attenzione per l’ambiente e per la natura: la cecità ottusa non è la loro, è la nostra, che non ci siamo accorti di quanto eravamo parte di un tutto. Ecco, loro si accorgono di essere anche plurali, liquidi, più di quanto noi pretendiamo di essere (senza esserlo davvero), singolari e solidi, quando non tetragoni. In particolare nella fase della vita, sempre più lunga, in cui sono a scuola e all’università: in cui discutono, si fanno domande, si posizionano rispetto alla società, cambiano e la cambiano. Per questo è necessario non solo tenere conto della loro ricerca e della loro espressività, ma anche ascoltarli. Abbiamo qualcosa da imparare pure noi.

Non stupisce che a favore di una discussione aperta sul tema siano in primo luogo gli insegnanti e gli psicologi. I primi perché sono quelli incaricati dalla società di far funzionare il processo di socializzazione, che nelle famiglie funziona sempre meno: trasmettendo valori che si scoprono sempre meno condivisi. E i secondi perché una marea di questi ragazzi li hanno in cura, proprio perché non li ascoltiamo, e non ci rendiamo conto dei cambiamenti che hanno attivato. Così come non stupisce che un pezzo della politica e della società continui ad essere contro a qualunque discussione: proprio perché è lontana da questi mondi, proprio perché non li capisce.

(Stefano Allievi)

La preghiera di cristiani e mussulmani per la pace alla Cita

Come in tutta Italia anche alla Cita è stato fatto un piccolo ma significativo gesto pubblico per dire, insieme ai fratelli mussulmani della comunità bengalese, che si desidera la fine della guerra in Ucraina.


dopo la Messa ci si è uniti al centro del Quartiere con i fratelli bengalesi e, portando in mano dei lumini accesi, si è pregato assieme nelle proprie lingue

Chiedere la pace subito non è utopia, è credere ancora che l’uomo abbia qualche possibilità di redenzione rispetto al baratro.
Chiedere la pace assieme ai fratelli musulmani dà ancora più forza al messaggio.
Chiedere aiuto a Allah e al Dio in cui crediamo, dà più voce al grido che si leva da tantissime città d’Italia e d’Europa.
Il Sacro Corano narra la storia del primo omicidio nella storia umana, quello dei due figli di Adamo, nel quale Caino (Qabīl) uccise suo fratello Abele (Habīl). Essa si trova nella quinta sura del Corano, versetti 27-31.
A conclusione di questa storia, Iddio Altissimo dice che:”Chiunque uccide un uomo, è come se avesse ucciso l'umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l'umanità”.


dopo aver letto il comune Comunicato, riportato nel Foglietto la Risurrezione (vedi post precedente), si sono portati i lumini a comporre un cerchio al centro dell'assemblea



come conclusione si è letta la preghiera-appello di papa Francesco per la pace:










Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 23 ottobre