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Domenica XVIII TO - Lc 12,13-21

La parabola del ricco insensato non verte sull’opposizione tra beni terrestri illusori e beni celesti che durano per l’eternità, né polemizza contro la ricerca di un tesoro. La questione che pone è il “per chi” si costituisce un tesoro.
Non per sé stesso ma per Dio viene suggerito. Ma cosa significa? 


Domenica scorsa, nel trasmettere la sua preghiera, Gesù aveva sottolineato come sia importante chiedere che ogni giorno ci sia dato il pane che ci è necessario. Non solo quello per sfamarci, ma anche quello che ci è di nutrimento soprannaturale: la sua Parola.  

L’accento cade su quel “ogni giorno quello che basta”. È un chiaro invito ad una sobrietà nella vita e nel possesso dei beni necessari, nel non accaparrarsi e accumulare quello che è a disposizione di tutti per essere condiviso.

La folla lo ascolta, certo, ma capita anche a noi di sentire senza riuscire a comprendere bene ogni passaggio di un discorso e, a volte, nel dibattito, vengono poste delle domande che non sono centrate sui temi posti dal relatore. Rispondono piuttosto ad interessi particolari di uno del pubblico che, pur partendo da un particolare che l’ha colpito, ha continuato a rimuginare su un qualcosa che lo investe personalmente. È quello che accade nell’Evangelo di oggi a Gesù.

 

Riconoscendone l’autorevolezza e sapendo che i Rabbi erano autorizzati a fare in questi casi da giudice, uno della folla gli chiede di “imporre” a suo fratello di dividere l’eredità ricevuta. La legislazione ebraica richiedeva di preferire la gestione comune tipica delle società nomadi o con famiglie di tipo patriarcale, ma prevedeva in subordine anche la spartizione in parti uguali. Se facciamo memoria, è quanto accade senza problemi nella cosiddetta parabola del figliol prodigo.

 

Gesù rifiuta il ruolo richiestogli ed intravede che sotto c’è un modo per lui non condivisibile di porsi di fronte alle ricchezze. Nella domanda di divisione dell’eredità non ci sta solo il desiderio di indipendenza, ma la brama e l’ambizione di possesso.

Coglie allora l’occasione per approfondire, andando alla radice del problema e, così, anche evitando di accrescere il conflitto fraterno dando ragione ad uno o all’altro.

Si rivolge allora più generalmente a “loro”, cioè tutta la folla radunata attorno a lui, attualizzando i versetti del Siracide (11,18-19): 

 

C’è chi si arricchisce tra privazioni e risparmi,

ma questa è la sua parte di ricompensa

mentre dice: ‘Ho trovato riposo,

ora mi ciberò dei miei beni’.

Non sa quanto tempo ancora trascorrerà:

lascerà tutto ad altri e morirà”.

 

Certo, i beni materiali, denaro e proprietà, quale che sia la loro abbondanza, non possono assicurare la vita, ma la parabola del ricco insensato non verte sull’opposizione tra beni terrestri illusori e beni celesti che durano per l’eternità, né polemizza contro la ricerca di un tesoro. La questione che pone è il “per chi” sì costituisce un tesoro.

Il ricco, ispirato dalla logica del profitto, ha accumulato per sé e pensa solo ad accrescere i propri beni. Non ha altro partner che sé stesso, la propria personale realtà con la quale si intrattiene come se fosse un suo alter ego e vi dialoga come davanti ad uno specchio. Non tiene conto della possibilità che “questa stessa notte verranno richiedere la tua vita, per chi sarà allora ciò che hai preparato?”.

Il plurale “verranno” corrisponde a un “qualcuno” di imprecisato. Gesù non può alludere a Dio, come potrebbe far pensare la forma passiva utilizzata dalla traduzione CEI (“ti sarà richiesta la tua vita”) e come forse pensiamo noi nella logica di un Dio spia, sempre pronto a farci pagare il male e gli errori che commettiamo. Si deve piuttosto pensare agli angeli della morte: Dio non interrompe mai brutalmente e cinicamente la vita di nessun uomo; no, semplicemente questa è giunta al suo termine. 

Certo, il bilancio è catastrofico: in una notte e perde tutto ma, ancora più drammatico – e qui sta il nocciolo di quanto Gesù desidera indicare -, è il fatto che ha sbagliato il luogo dove accumulare le sue ricchezze.

Ha “accumulato tesori per sé” anziché cercare di “essere ricco per Dio”. Viene così denunciato l’egocentrismo di quell’uomo: per lui, tutto si riassume e gira attorno a sé stesso, non ha altri orizzonti, non vede nulla oltre ai suoi interessi per cui, con la sua morte, finisce anche il tutto quello che lui è ed ha. Il suo orizzonte, suo cerchio si è chiuso per sempre senza lasciare traccia.

 

Avrebbe invece dovuto farsi ricco per Dio. Ma cosa significa? 

I Padri della Chiesa non mancheranno di ricordare che vi sono molti modi di affrontare la ricchezza, fra essi, quello di ricordarsi dei poveri: le benedizioni di Dio infatti sono elargite per essere condivise e, questo, ci riporta all’esperienza della manna nel deserto durante l’Esodo alla quale fa riferimento la richiesta del Padre Nostro in quel dacci il pane che ci basta ogni giorno.

 

La lettera di Giacomo (5,1-4) insiste: “E ora a voi, ricchi: piangete gridate per le sciagure che cadranno su di voi! La vostra ricchezza e marcia, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro il vostro oro e il vostro argento sono arrugginiti, la loro ruggine si alzerà come testimoni contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori negli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi trattenuto dei lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida, e le grida dei mietitori sono giunti alle orecchie del Signore”.

 

Dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” dirà Gesù più avanti, invitando a spostare il proprio cuore, il proprio baricentro: non nei forzieri dove i soldi si accumulano e arrugginiscono, ma negli altri uomini, nei sofferenti, facendosi attenti ai loro bisogni anche inespressi e allora, non solo i soldi, ma la propria realtà sarà posta in Dio. Così si diventa “ricchi per Dio” e si scopre che, in fin dei conti, il tesoro inesauribile è Dio stesso.

 

(BiGio)

Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni

La ricchezza, usandoci e isolandoci, ci sfigura in una entità senza relazioni umane
Accumulare per sé, invece di assicurarci il domani, ci fa perdere l’oggi

Il superfluo (Raffaele Gatta)

Oggi Gesù ci narra la parabola dell’uomo ricco che continua ad accumulare beni per illustrare ciò che ha appena detto: “Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. 

Da un lato queste parole di Gesù sono quanto di più contrario ci sia alla nostra mentalità, poiché l’illusione riproposta, o sottintesa, di continuo è che la vita di ognuno/a dipenda dai soldi, da quanti più ne ha e avrà. E che dunque darsi al guadagno di soldi e di beni sia l’unica garanzia di vita, il farmaco insuperabile contro l’angoscia dell’irrilevanza e dell’insuccesso. 

Ma dall’altro lato la nostra esperienza intima non è lontana dalla parola di Gesù: chi infatti non sa, nel profondo del suo cuore, che non dai suoi beni superflui ha ricevuto forza vitale per la sua vita e aiuto contro il venir meno del senso, ma dalle relazioni umane di amore gratuito? 

Eppure, deprivati di silenzio, anche di quello necessario per conoscere noi stessi, nell’illusione di soffocare la mancanza e l’inquietudine, ci lasciamo espropriare di quel desiderio che è solo nostro, e cediamo alla cupidigia che pure ci abita, accumulando beni invece di condividerli in relazioni di fraternità, fonte di vita e di gioia per noi.

Nella parabola la ricchezza di quest’uomo lo ha reso suddito dei suoi beni. Egli rimanda i suoi desideri e la gioia ancora una volta, svelando l’illusione della ricchezza: non noi la possediamo ma lei ci possiede e ci comanda

Perché, invece, non distribuire ai suoi operai ciò che non ci stava nei magazzini già colmi, per una gioia condivisa e non più rimandata? 

Nelle parole che l’uomo ricco rivolge a sé stesso scopriamo che il perché è l’intimo deserto della sua illusione, l’angosciosa assenza di chiunque altro oltre a lui. La ricchezza, usandolo e isolandolo, lo ha sfigurato in una entità senza relazioni umane; ha spento in lui la coscienza degli altri, il bisogno e la responsabilità che ha di loro, e viceversa; e la memoria che non c’è gioia senza altri accanto a sé cui essere grati della loro presenza.

Ed è proprio sulla piaga di questa dolorosa mancanza che Dio mette il dito chiedendogli: “Chi disporrà di tutto questo?”. E questa è la domanda cruciale che è rivolta anche a noi: nella ricerca del nostro bene personale, sappiamo che ci darà vita e gioia solo il bene e i beni condivisi con altri e altre? 

Arricchire in Dio significa, almeno, il contrario di arricchire solo per sé. Perché Dio, l’Altro per eccellenza, nella Bibbia rappresenta per ciascuno/a anche la presenza e il diritto degli altri/e. La terra e i suoi beni infatti sono di Dio, e cioè non sono miei né nostri, e li riceviamo come benedizione sul nostro lavoro per goderne nella condivisione. E solo quando sono condivisi i beni ci procurano il dono più grande: amiche e amici per oggi e per sempre. Mentre accumulare per sé, invece di assicurarci il domani, ci fa perdere l’oggi, l’unico spazio per ricevere e dare vita condividendo ciò che siamo e abbiamo. 

Infatti i tanti beni di quell’uomo non solo non lo difendono dalla morte, ma nascondendogliela, gli fanno perdere la preziosità dell’oggi e rimandare sempre la vita e la gioia.

(Sr Maria di Bose)

Nuova chiarezza da “Desiderio desideravi”: 10 proposizioni sulla riforma necessaria, ma non sufficiente

Da tempo era necessario che una voce autorevole dicesse una parola chiara a proposito di un equivoco che il secolo XX ha creato intorno alla “questione liturgica”. Ciò che leggiamo in DD corrisponde bene a quanto era desiderabile ascoltare da alcuni decenni. Provo a presentarne qui la logica un una serie di 10 proposizioni, perché appaia a tutto tondo non solo il merito del testo, ma anche le conseguenze teologiche e pastorali delle sue affermazioni

1. La questione liturgica è sorta all’inizio del XIX secolo, quasi 200 anni fa. Da allora, nelle parole profetiche di A. Rosmini in Italia e di P. Guéranger in Francia si è manifestata la consapevolezza che la liturgia conosceva una crisi profonda, dalla quale occorreva uscire con nuove evidenze, nuove forme di vita, nuove pratiche. La crisi è riconosciuta negli anni 30 dell’800: non è quindi il frutto né del Vaticano II né del 68!

2. La nascita ufficiale del Movimento Liturgico è avvenuta, ai primi del XX secolo, proprio con questo duplice intento: la riscoperta della tradizione liturgica e il reinserimento della liturgia come “fonte” di vita cristiana e della esperienza spirituale. Fondamentale è stata la I guerra mondiale, che apriva una domanda nuova di interesse e di studio verso le pratiche rituali.

3. Almeno fino agli anni 50 del ‘900 la “formazione liturgica” è stata il centro della attenzione, rispetto ad un ruolo della “riforma”, in partenza piuttosto secondario, che però ha preso vigore in modo forte con le decisioni di Pio XII successive alla II guerra mondiale. Da allora la riflessione sulla “riforma” ha preso il sopravvento, grazie al Vaticano II e al lungo e dettagliato lavoro post-conciliare.

4. Questo passaggio, che potremmo definire “dal primato della formazione al primato della riforma”, è stato necessario e direi quasi fisiologico. Ma altrettanto naturalmente è accaduto che, dopo circa 40 anni di lavoro quasi totalmente volto alla realizzazione dei nuovi riti, nel periodo dal 1948 al 1988, tornasse a galla la questione più antica, ossia quella della formazione. Proprio su questa soglia finale del 1988 si sono collocati tre eventi simbolici di una trasformazione imprevedibile: la commemorazione dei 25 anni di SC (Vigesimus quintus annus), il primo rito inculturato (Messale romano per le diocesi dello Zaire) e lo scisma lefebvriano.


Le sintetiche 10 proposizioni di Andrea Grillo continuano a questo link:

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/nuova-chiarezza-da-desiderio-desideravi-10-proposizioni-sulla-riforma-necessaria-ma-non-sufficiente/



Non solo Ucraina: Mosca anticipa Biden in Africa

Il ministro degli Esteri russo Lavrov in tour in Egitto, Congo, Etiopia e Uganda. E agli africani offre la versione russa: “La crisi del grano non è colpa di Mosca”



La ‘campagna africana’ di Lavrov è un’iniziativa diplomatica estremamente rilevante ai fini del conflitto: finora infatti numerosi paesi del continente si sono mantenuti ‘equidistanti’ tra Russia e Occidente, di cui non hanno condiviso le sanzioni, mentre molti non hanno votato la risoluzione Onu di condanna per l’invasione dell’Ucraina. Ciononostante l’Africa è particolarmente colpita dall’inflazione alimentare determinata dal conflitto, come pure dall'aumento dei prezzi di gas e petrolio. Ed è in questo clima che oggi la Tunisia – teatro nei giorni scorsi di disordini e proteste – vota un referendum costituzionale che costituisce uno spartiacque nel suo travagliato percorso democratico. 

il ministro degli esteri russo ha invece elogiato i paesi africani per le loro posizioni “indipendenti” riguardo al conflitto. E ha aggiunto: “Vi sosterremo a completare il processo di decolonizzazione”. Ma è chiaro che in gran parte del continente c'è una forte riluttanza a prendere posizione sulla guerra e, soprattutto, tra i due blocchi che si fronteggiano: Russia e Occidente. Dall'invasione dell'Ucraina a febbraio, i governi africani e del Medio Oriente si sono trovati in mezzo a due fuochi. Spinti dall'Occidente a condannare l'invasione, molti governi cercano anche di preservare legami con la Russia che in alcuni casi è il primo esportatore di armi e con cui molte economie hanno rapporti consolidati.

Europa e soprattutto Stati Uniti non stanno a guardare. Dal 25 al 28 luglio, il presidente francese Emmanuel Macron sarà in visita in Camerun, Benin e Guinea-Bissau, mentre il presidente americano Joe Biden ha annunciato un vertice con i leader africani a Washington dal 13 al 15 dicembre.


L'intera analisi dell'ISPI a questo link:


Non solo Ucraina. Attenzione anche agli altri scenari come quello africano. Di cosa si parlerà al super vertice annunciato da Biden

Biden chiama a sé i leader africani e annuncia un vertice tra gli Stati Uniti e tutte le nazioni del continente programmato per dicembre. L’obiettivo, come per il Medio Oriente, è contenere la crescita di influenza di Cina e Russia


Il presidente Joe Biden ha annunciato oggi che gli Stati Uniti riuniranno i leader di tutto il continente africano per un importante vertice che si terrà a dicembre, a Washington. Obiettivo discutere insieme sulle “sfide più urgenti”, che per l’Africa sono la sicurezza alimentare, i cambiamenti climatici, il quadro securitario in diverse regioni del continente, le connessioni infrastrutturali (non ultime quelle energetiche).

L’incontro che Biden ospiterà tra il 13 e il 15 dicembre sembra orientato a dare un significato politico, oltre che economico e commerciale, all’impegno americano in Africa. Un continente dove gli Stati Uniti assistono a dinamiche competitive innescate dai rivali strategici, su tutti la Cina, ma anche la Russia, e al dinamizzarsi di interessi di partner come la Turchia e i Paesi del Golfo, nonché i Paesi europei.

Uno dei punti cardine degli sforzi diplomatici di Biden è stato finora quello di promuovere le democrazie occidentali come contrappeso alla Cina, ma il vertice Usa-Africa non riguarda solo Pechino. “Non stiamo chiedendo ai nostri partner africani di scegliere”, dice quel  funzionario alla Reuters: “Crediamo che gli Stati Uniti offrano un modello migliore, ma non chiediamo ai nostri partner africani di scegliere”. Il rischio di finire invischiati in questo scontro bipolare è una delle grandi preoccupazioni in diversi Paesi africani — tanto quanto in quelli dell’Indo Pacifico, o del Medio Oriente.


L'intero articolo di Ferruccio Michelin a questo link:

https://formiche.net/2022/07/biden-vertice-usa-africa/



Turchia, perché tutti si schierano contro l’operazione curda

Erdogan cerca di portare avanti le sue iniziative in Kurdistan. Per il presidente turco un’operazione militare al nord della Siria può essere utile pensando alle elezioni



La Turchia ha da tempo in mente una nuova operazione militare contro i miliziani curdi, soprattutto in Siria. Quanto successo non è chiaro, anche perché potrebbe essere esposto al fumo della propaganda. Recep Tayyp Erdogan, il presidente turco che sente pesare la crisi economica sulle elezioni che ci saranno tra qualche mese, cerca consensi su un’attività militare che invece indispone tutti, più o meno. Quanto accaduto in Iraq potrebbe essere anche un false flag per giustificare step successivi. Ma siamo chiaramente nel campo delle speculazioni.

Nei giorni scorsi, Israele ha fatto pressioni sugli Stati Uniti affinché bloccassero la Turchia da nuove operazioni contro i curdi in Siria. Il consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, Eyal Hulata, ne avrebbe parlato direttamente con l’omologo statunitense, Jake Sullivan, durante il recente viaggio dell’amministrazione Biden in Medio Oriente. Qualcosa di simile potrebbe essere uscito durante la visita (domenica scorsa) del comandante del CentCom, Michael Kurilla, in Israele.

Tel Aviv teme che l’iniziativa turca alteri determinati equilibri interni alla Siria (un dossier che sta riacquisendo centralità), finendo per favorire l’Iran. Gli israeliani considerano partner i curdi siriani – che sono stati i partner americani durante la guerra al Califfato, poi abbandonati dall’amministrazione Trump. La loro presenza e controllo in un territorio della Siria settentrionale impedisce che gli iraniani (ossia le forze miliziane sciite collegate e mobilitate nel quadrante siriano da Teheran nell’ultimo decennio), vi attecchiscano.


L'intero articolo di Emanuele Rossi sulla situazione a questo link:

https://formiche.net/2022/07/erdogan-turchia-kurdistan/


Salvini, le madonne in tv e l’uso dei simboli in politica. Una acuta lettura non scontata e al di là dell'ovvio

Cosa c’entra Maria con il no agli immigrati? La coreografia del leader della Lega proposta dagli schermi del TG1 indica il “programma valoriale” che intende comunicare agli italiani

Quel vasto “madonneto” che si vedeva alle spalle di Salvini è stato da alcuni irriso, io invece credo che vada preso sul serio. C’è una possibile visione da teologia politica, che non so se sia davvero quella  in cui si crede, ma mi sembra sia quella che si propone. Nei momenti di difficoltà la fede è importante non certo per tutti ma sicuramente per molti: ma quale fede? È una fede da “Dio, patria famiglia”, da “noi contro loro”, è una fede in divinità guerriere? È una fede da cristianità unita contro gli infedeli e chi propone i diritti dell’uomo e non quelli di Dio? È la fede in una legge morale eterna, immodificabile, in uno Stato che al singolo non riconosce la sua libertà di impresa e di coscienza? L’economia è libera o è posta nelle mani di chi sa la differenza tra Bene e Male?

Personalmente non apprezzo l’uso di simboli religiosi in politica, ma so che quei simboli non possono essere letti in un modo solo. La teologia cattolica prevalente, non solo quella proposta da Francesco, è l’opposto di quella qui sommariamente descritta. Ma il dissidio cattolico è ormai diffuso in tutto il mondo e si approfondisce anziché ridursi in modo da far parlare a molti di incomunicabilità cattolica tra cattolici conciliari e anti conciliari. L’Italia non è in un altro mondo. Prendere questi temi sottogamba in un momento politico di smarrimento così evidente non mi sembra la cosa più opportuna.


L'intero articolo di Riccardo Cristiano a questo link:

https://formiche.net/2022/07/salvini-madonne-tv/


Iran, l’arresto di Panahi e il cinema che spaventa i regimi. Il suo nuovo film sarà comunque alla Biennale del Cinema

Il pluripremiato regista è stato incarcerato nuovamente, come già accaduto molte volte negli ultimi decenni. Prima di lui altri colleghi e colleghe. La prova della forza pervasiva del cinema iraniano. Che, seppur in clandestinità, terrorizza il regime del paese mediorientale.

Il nuovo film di Panahi "No Bears" sarà presente alla Mostra del Cinema di Venezia che inizierà il 31 agosto.


È il terzo in meno di una settimana, ma il suo nome è probabilmente quello più conosciuto a livello internazionale. Jafar Panahi è il terzo regista arrestato a Teheran nel giro di pochissimi giorni, dopo i colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa Al-Ahmad, nei confronti dei quali Panahi aveva espresso solidarietà sui social, condannando l’aggressione che i due film maker avrebbero subito nelle loro case, così come la sistematica violazione dei diritti umani e civili nel paese mediorientale.
Il regista è stato da sempre considerato scomodo, semplicemente perché i suoi film, sospesi tra realismo asciutto, scarno e al tempo stesso intrisi di struggente poesia, hanno raccontato al mondo la vita degli iraniani dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, la sofferenza della borghesia colta e quella delle classi popolari, unite dalla stessa oppressione, che il più delle volte si riversa soprattutto sulle donne e sui bambini, entrambi protagonisti prediletti da Panahi. E sono infatti storie di bambini sia l’esordio Il palloncino bianco che il successivo Lo specchio, che il Morandini definisce «Una deliziosa variazione su due temi di base del cinema iraniano: i bambini e il cinema nel cinema».


L'intero articolo di presentazione del regista e della sua opera di Valentina Gentile a questo link:




"La caduta di Draghi penalizza i poveri ora la politica la smetta con gli inganni"

Mai come in questo tempo la politica deve mettere al primo posto gli ultimi, i poveri, la gente che soffre. Predicare e praticare la solidarietà. E «aspirare alla compattezza», per ricucire il tessuto sociale e rilanciare il Paese verso un futuro florido e armonioso. Due mesi dopo essere stato nominato da papa Francesco presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), il cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi lancia il suo appello accorato affinché non si sottovaluti lo snodo drammatico a cui è giunta la storia d'Italia.


L' intervista a Matteo Maria Zuppi, a cura di Domenico Agasso a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202207/220724zuppiagasso.pdf


Una riflessione che pone una testimonianza

In questo momento dove chi doveva pensare a noi ha pensato bene di toglierci energia, speranza, in particolare alle fasce più deboli, le famiglie, le imprese... facendo cadere il governo... Ci è stata nuovamente calpestata la credibilità come popolo.

Spero che gli italiani il 25 settembre si ricordino di come sono andate le cose e chi ha guardato con sguardo corto i suoi interessi particolari e non quelli del paese. Non so cosa succederà ma l'unica arma democratica è votare e perché no, per chi ha una fede, pregare per la nostra Italia perché emergano uomini e donne veri Politici che abbiano a cuore il bene comune per davvero. 

La Politica è e rimane la più alta forma di servizio, Caritas al prossimo... Non serve attaccare tante Madonne alle pareti e farsi vedere in Tv, ma partire dal cuore. Il Vangelo lo si conosce nel segreto della propria stanza e poi vivendolo con umiltà e spirito di abnegazione e non brandendolo nelle piazze. Scusate lo sfogo, non sono certo uno che vive il Vangelo appieno, figuriamoci, ma sono profondamente amareggiato e deluso dalla sfacciataggine, brutalità, indifferenza, mediocrità e stupidità di molti che ci devono rappresentare nelle istituzioni.

 

Giorgio La Pira grande politico e sindaco di Firenze, in una lettera a Fanfani ha scritto quanto segue:

 

Anzitutto: vedi caro Amintore; io non sono un “sindaco”; come non sono stato un “deputato” o un “sottosegretario”: non ho mai voluto essere né sindaco, né deputato, né sottosegretario, né ministro (ricordi l’offerta di De Gasperi?). ... la mia vocazione è una sola, strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell’Evangelo… mi sarete testimoni (eritis mihi testes) la mia vocazione, la sola, è tutta qui!”

 

Proprio questa sua vocazione di testimone dell’Evangelo è sempre stata la grande direttrice delle sue azioni. 


Non conta se nell’impegno politico, non importa se come sindaco, deputato, avvocato, medico, operaio, prete o postino. Conta che in ogni cosa che “faccio” non devo mai dimenticare ciò che “sono”. Nessuno di noi, al di là del proprio impegno sociale, è esentato dall’operare per il bene comune!

 

(Il diacono dell'UPS50)

Oggi, 25 luglio la Giornata Mondiale dei Nonni. Il Papa: dai loro la rivoluzione della tenerezza

Nel Mesaggio per la Giornata dei nonni e degli anziani l'invito del Papa a diventare maestri di pace. Serve una conversione che smilitarizzi i cuori.

La vecchiaia può far paura, a chi vi si avvicina, a chi la vive, a chi ne viene a contatto. Parte da questa riflessione il Papa nel Messaggio per la II Giornata mondiale dei nonni e degli anziani, oggi il 25 luglio sul tema “Nella vecchiaia daranno ancora frutti” (Sal 92,15). E il passaggio del Salmo sembra quasi un paradoss se lo confrontiamo con la cultura odierna. 

Almeno quella, “dello scarto”, che considera l’età avanzata «una sorta di malattia con la quale è meglio evitare ogni tipo di contatto: i vecchi non ci riguardano – si pensa – ed è opportuno che stiano il più lontano possibile, magari insieme tra loro, in strutture che se ne prendano cura e ci preservino dal farci carico dei loro affanni», In realtà, come insegna la Scrittura, una lunga vita è «una benedizione e i vecchi non sono reietti dai quali prendere le distanze, bensì segni viventi della benevolenza di Dio che elargisce la vita in abbondanza». Tuttavia la vecchiaia non è facile da comprendere, ci si arriva comunque non preparati, e anche le società più evolute offrono piani di assistenza ma non progetti di esistenza. 

E anche il cuore di chi la vive fatica a guardare avanti. «La fine dell’attività lavorativa e i figli ormai autonomi – scrive il Papa – fanno venir meno i motivi per i quali abbiamo speso molte delle nostre energie. La consapevolezza che le forze declinano o l’insorgere di una malattia possono mettere in crisi le nostre certezze. Il mondo – con i suoi tempi veloci, rispetto ai quali fatichiamo a tenere il passo – sembra non lasciarci alternative e ci porta a interiorizzare l’idea dello scarto». Una prospettiva rifiutata dalla Scrittura che invece invita a continuare a sperare. «Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, il Signore ci darà ancora vita e non lascerà che siamo sopraffatti dal male», Di qui l’invito a condurre una vita spirituale attiva. E, insieme, a curare le relazioni con gli altri: «anzitutto la famiglia, i figli, i nipoti, ai quali offrire il nostro affetto pieno di premure; come pure le persone povere e sofferenti, alle quali farsi prossimi con l’aiuto concreto e con la preghiera». 

Perché – osserva Francesco –«la vecchiaia non è un tempo inutile in cui farci da parte tirando i remi in barca, ma una stagione in cui portare ancora frutti» nel segno di quella rivoluzione delle tenerezza di cui il Papa invita gli anziani a diventare protagonisti. Tanto più oggi in un tempo segnato «prima dalla tempesta inaspettata e furiosa della pandemia, poi da una guerra che ferisce la pace e lo sviluppo su scala mondiale». E non è casuale – avverte il Papa – «che la guerra sia tornata in Europa nel momento in cui la generazione che l’ha vissuta nel secolo scorso sta scomparendo». 

Di fronte a tutto questo, «noi anziani, abbiamo una grande responsabilità: insegnare alle donne e gli uomini del nostro tempo a vedere gli altri con lo stesso sguardo comprensivo e tenero che rivolgiamo ai nostri nipoti». Possiamo cioè – spiega Il Pontefice – «essere maestri di un modo di vivere pacifico e attento ai più deboli». Perché di fronte al conflitto e alle altre forme diffuse di violenza che minacciano la famiglia umana e la nostra casa comune «abbiamo bisogno di un cambiamento profondo, di una conversione, che smilitarizzi i cuori, permettendo a ciascuno di riconoscere nell'altro un fratello».

Uno dei frutti infatti che i vecchi sono chiamati a portare è quello di custodire il mondo. E allora «custodiamo nel nostro cuore – come faceva San Giuseppe, padre tenero e premuroso – i piccoli dell’Ucraina, dell’Afghanistan, del Sud Sudan...». Le nonne e i nonni, gli anziani e le anziane sono cioè chiamati a «essere artefici della rivoluzione della tenerezza!», Facciamolo – conclude il Papa – «imparando a utilizzare sempre di più e sempre meglio lo strumento più prezioso che abbiamo, e che è il più appropriato alla nostra età: la preghiera». La nostra invocazione fiduciosa può fare molto: può accompagnare il grido di dolore di chi soffre e può contribuire a cambiare i cuori. Possiamo essere la “corale” permanente di un grande santuario spirituale – conclude Francesco – dove la preghiera di supplica e il canto di lode sostengono la comunità che lavora e lotta nel campo della vita».

(Riccardo Maccioni)

Il testo del messaggio a questo link:

https://www.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2019/documents/papa-francesco-e-la-rivoluzione-della-tenerezza.html



Giornata nonni e anziani. Erri De Luca: “Non sono supplenza, ma l’albero di trasmissione di storie, conoscenze, mestieri”

“Si sta in un tempo di longevi, maggioranza della popolazione, che adatta la società alle sue esigenze, dalla pubblicità a ogni tipo di carica dirigente. I vecchi sono al potere se agiati, allo scarto e all’ospizio se poveri o ammalati”, osserva lo scrittore


La seconda Giornata mondiale dei nonni e degli anziani, che ha per tema “Nella vecchiaia daranno ancora frutti”, ma, nella nostra società, qual è la considerazione che hanno realmente i vecchi? Sulla terza età e i suoi problemi, abbiamo raccolto il parere dello scrittore Erri De Luca.

(Foto: Giffoni Film Festival)

Secondo lei, si permette ai vecchi, quando sono in condizioni fisiche e mentali per farlo, di dare ancora frutti?

I vecchi: a che età si è tali? Degli uomini di quarant’anni si chiamano tra loro ragazzi, a sessanta uno nega sfacciatamente di essere anziano. Si sta in un tempo di longevi, maggioranza della popolazione, che adatta la società alle sue esigenze, dalla pubblicità a ogni tipo di carica dirigente. Gli anziani, i vecchi sono al potere se agiati, allo scarto e all’ospizio se poveri o ammalati. Servono da nonni per tenere i nipotini, sostenere le famiglie con le loro pensioni. Sulle spiagge in questo periodo si vedono anziani che fanno attività sportiva, così come mi capita di trovarli in parete. Nel giro di un secolo in Italia si è raddoppiata l’età media della popolazione.


L'intera intervista a cura di Gigliola Alfaro a questo link:

https://www.agensir.it/italia/2022/07/23/giornata-nonni-e-anziani-erri-de-luca-non-sono-supplenza-ma-lalbero-di-trasmissione-di-storie-conoscenze-mestieri/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2



Francesco e la rivoluzione della tenerezza

Gesù, appena nato, si è specchiato nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza.


Prendersi cura 

La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Chiediamo questa grazia: di vivere l'anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri”, scrive oggi papa Francesco su Twitter. L’attenzione ai poveri richiede anche un diverso atteggiamento pastorale. “Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza“, sosteneva il rivoluzionario argentino Ernesto Che Guevara. Il suo connazionale Jorge Mario Bergoglio, nell’omelia della messa di  inaugurazione del pontificato del 19 marzo 2013, ha esortato i fedeli a “non avere paura della tenerezza” perché “il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza”. Infatti la tenerezza non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Un concetto fondamentale per il pontificato della misericordia. L’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, ribadisce il 20 novembre 2014 Francesco nel messaggio in occasione della XIX seduta pubblica delle Accademie. All’indomani del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Bergoglio ha affidato il cammino della Chiesa alla materna e premurosa intercessione di Maria, perché ogni volta che guardiamo alla Madonna torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto: in lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti. Perciò questa dinamica di giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione. Un mese dopo, la notte di Natale del 2014, Francesco ha sottolineato, durante la celebrazione nella basilica di San Pietro: “La vita va affrontata con bontà, con mansuetudine, quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo, la risposta del cristiano non può essere diversa da quella che Dio dà alla piccolezza umana”. Con la stessa intensità il 29 marzo 2015, nell’omelia della domenica delle Palme, il Papa ha lanciato un accorato appello ai giovani: “Lasciatevi riempire dalla tenerezza del Padre, per diffonderla intorno a voi”. 
Svolta pastoraleåÈ uno dei cardinali più vicini a Francesco ad illustrarne la svolta pastorale. Due decenni di ministero episcopale in due arcidiocesi dell’Italia centrale, preceduti da un lungo servizio nella Curia romana: il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito  di Ancona-Osimo, ha presieduto uno dei circoli minori al Sinodo dei vescovi sulla famiglia. I pastori sono chiamati a stare nella storia e aiutare le persone a santificare la quotidianità. La miseria è indegnità, la povertà è uno stile di vita. La verità è come l’acqua, la strada la trova. Non sono gli uomini che cambiano l’umanità, ma Dio. La Chiesa deve crescere nella dimensione della collegialità, nell’assunzione comune e responsabile del bene di tutti. Senza mai dimenticare la differenza tra povertà e miseria. “Nei Vangeli si dice “beati i poveri”, non “beati i miseri””, spiega a In terris il cardinale Menichelli. “Per rivolgersi alle coscienze serve sensibilità e disponibilità al dialogo. La Chiesa è per il mondo e per l’umanità e l’umanità ha tante facce. Gesù ci ha donato la verità e la misericordia. Il nostro impegno come Chiesa è mettere insieme verità e misericordia perché laddove non ci riusciamo rischiamo di dividere la persona di Cristo. Ogni Chiesa locale ha la sua storia e ogni storia è significativa per la bellezza di quella universale». L’imperativo è “non abbandonare mai nessuno“. Il Papa, secondo Menichelli, indica la necessità di una Chiesa traboccante di compassione d’amore, che sappia distinguere il peccato dal peccatore: il nostro patrimonio è la maternità spirituale nei confronti dell’umanità nella convinzione che la bellezza della Chiesa non è negli addobbi ma nell’amore per Cristo e nell’impegno di liberare tutti dalla “inequità” di cui Francesco parla nella Evangelii Gaudium.

Capacità di ascolto

Occorre suscitare l’impazienza della carità. nelle varie sessioni del Sinodo dei vescovi il pontefice ha colpito anche per la capacità di ascoltare. C’è bisogno, infatti, di maggior comprensione. Secondo Menichelli, vescovi e sacerdoti devono comprendere le problematiche e le fatiche che la famiglia e le persone sopportano a vari livelli. In un mondo così complesso, la Chiesa non può incasellare tutto in certi termini o certi concetti precisi che vescovi e sacerdoti si sono abituati a usare. Oggi molta realtà sfugge. Occorre unire l’educazione alla compassione. Ogni persona è un dono di Dio e ha qualcosa da offrire all’altro. Un appello ad accompagnare e a educare perché ogni persona capisca il messaggio del Vangelo che non è contro nessuno ma a favore di tutti nel senso che può aiutare ciascuno a capirsi e a vivere in relazione con gli altri. Non senza resistenze. Attaccano Francesco per colpire il Concilio, secondo il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero. Dalla povertà messa al centro del pontificato all’interpretazione del primato petrino in termini di servizio, in nome del tradizionalismo settori cattolici conservatori avversano la Chiesa della misericordia e l’opera riformatrice di Jorge Mario Bergoglio. 

(Giacomo Galeazzi)

Domenica XVII TO – Lc 11,1-13

Dire "Àbba" ci rimanda al nostro Battesimo

 

Dopo averci presentato cosa sia la sequela e la missione, il racconto di due incontri di Gesù hanno offerto a Luca l’occasione di chiarire ciò che sta al centro della vita cristiana: l’amore come compassione che è un fare, una prassi, non un sentimento. L’altro versante di questa medaglia è l’amare Dio con tutta la nostra persona. Per poterlo fare, è però necessario non avere un cuore dilaniato dalle troppe tensioni come quello di Marta, bensì unificato come quello di Maria. L’averlo però è un dono che va accolto e chiesto nella preghiera. Così oggi Luca ci presenta Gesù che prega e, in seguito rispondendo alla domanda degli apostoli, li rende partecipi del suo modo di pregare.


Sul Padre Nostro si sono scritte librerie intere e, leggendolo all’incontrario, è anche possibile rintracciare il percorso dell’Esodo. In estrema sintesi: “Liberaci dal male” cioè dalle nostre schiavitù; “Non abbandonarci nella tentazione” di tornare indietro, di rimpiangere, di fronte alle difficoltà della libertà, la situazione di una vita fatta di certezze pur nella fatica dell’oppressione; “Rimetti a noi i nostri debito come noi…”  aiutaci a superare l’amarezza contro chi ha schiacciato facendo fare una vita umiliante; “Dacci oggi il nostro pane” è il ricordo dell’invocazione che li ha portati a vivere della manna che era necessario raccogliere solo quanta ne bastava per ogni giorno, evitando accaparramenti e accumuli che impediscano ad altri di averne a sufficienza; per poi continuare poi con l’ingresso nella Terra Promessa, regno del Padre da realizzare “Sia fatta la tua volontà”; perché questo è “santificare il suo nome”: fare in modo che sulla terra sia fatta la sua volontà così come è in cielo.

    

Ma viene poco sottolineato come sia una preghiera “ebraica” non solo perché ricca di richiami alla Scrittura e alla liturgia anche odierna del Popolo del Signore (vedi il post precedente: https://parrocchiarisurrezione.blogspot.com/2022/07/il-padre-nostro-con-le-radici-nella.html), ma anche perché vi si distingue già bene la struttura tripartita delle Diciotto Benedizioni che gli ebrei recitano tre volte ogni giorno e che è al centro della loro liturgia quotidiana. All’epoca di Gesù la struttura era già stata codificata ed ogni maestro la riempiva con le sue invocazioni come è ben dimostrato nel fondamentale studio di Milena Beux Jäger.

Solo così si può comprendere il senso della domanda dei suoi discepoli. In fin dei conti erano dei pii ebrei che frequentavano le Sinagoghe ed il Tempio. Conoscevano certamente la preghiera del loro Popolo, rispettavano i tempi della preghiera alla mattina, a metà giornata, alla sera; benedicevano e rendevano grazie per i loro pasti come già avveniva allora. 

Anche oggi le “scuole di preghiera” e i “modi di pregare” sono diversi e differenziati e ciascuno di noi può averne una sua propria rispettosa della sua spiritualità. La “Preghiera di Taizè” è diversa da quella che si matura frequentando gli Evo; gli accenti della Comunità Focolarina è diversa da quella di Comunione e Liberazione. Anche nella celebrazione della Liturgia delle Ore che unifica la preghiera della Chiesa, ci sono modalità diverse: una cosa è pregarla in gregoriano, un’altra con le melodie di Bose.

Dunque non c’è da stupirsi se all’epoca di Gesù ogni Maestro proponeva ai discepoli il “suo” modo di pregare, per aiutarli a rapportarsi con Dio, affiancandolo a quello liturgico consueto. L’Evangelo ci presenta molte volte che Gesù si appartava a “pregare”. Allora quella richiesta fatta ai Maestri, quindi anche a Gesù, non era e non è tanto lo spiegare come fare, bensì la domanda di poter imparare il loro modo di rapportarsi con Dio In questo modo i discepoli potevano a lora volta entrare e partecipare della preghiera, nel dialogo fatto di ascolto, di verifica e di domanda che il loro maestro intratteneva con Dio.

La preghiera di Gesù, allora, non è dunque solo una formula da ripetere più o meno coscientemente, è la preghiera che Gesù stesso rivolge al Padre e, il dirla, è entrare nel dialogo ricco di amore tra Lui e il Padre, è entrare nella vita di Dio, nella comunione divina; è per eccellenza il marchio del nostro essere diventati figli nel Figlio.

 

Lo si capisce meglio seguendo Luca che non introduce la preghiera di Gesù con l’ebraico “Abinu” (Padre Nostro come in Matteo e così come tutt’ora introducono gli ebrei quando si rivolgono a Dio), bensì con l’aramaico “Àbba”, papà nella lingua corrente all’epoca di Gesù (l’ebraico era diventata la lingua colta della liturgia, come da noi una volta il latino). Ora questo termine è divenuto di uso comune nell’ebraico anche dagli adulti per l’intimità e la confidenza che sollecita ed instaura.

È solo una mia personalissima suggestione che vale quanto vale, ma le due Bēth  di Àbba affiancate che compongono questo lemma, possono far pensare di essere loro a far nascere al loro interno quel dialogo unico di piena fiducia e sintonia fra quell’ “io” e quel “tu” di un figlio che condivide tutto con il proprio padre nel rispetto dei ruoli.

 

Ma chi è questo Àbba al quale si rivolge Gesù e ci invita anche noi a fare altrettanto? Certo, è Dio, ma rimanda innanzitutto all’origine per richiamare da dove si viene. Non certo alla Creazione o alla generazione: non si è “figli” del Padre in virtù di questo, bensì a causa dell’elezione che, per noi cristiani, è stata manifestata nel battesimo. Nella preghiera, dunque, siamo invitati a rivolgerci a Colui che ci ha generato mediante lo Spirito Santo. In questo senso nostra “madre” sono le acque battesimali nelle quali Dio ci ha generati.

Rimandare all’elezione significa di riandare all’amore di questo Padre e alle sue benedizioni, (vedi Dt 7,7-15) come anche la sua compassione, alle sue “viscere di misericordia” da madre (vedi Is 63,7-15; Os 11,8). Quindi nessuna possibilità di identificare Dio con un unico genere. 

Facendo riferimento alla figura paterna, si pensa anche alla sua autorità, che si deve però intendere nel senso etimologico di “colui o ciò che fa crescere” (dal latino augere, “accrescere”). Il Padre è in questo senso colui che veglia sulla crescita del figlio, lo protegge e, come tendendosi dietro a lui, gli dà qualche pacca sulle spalle per incoraggiarlo o per fargli scegliere la giusta strada. Proprio per tutto questo il cristiano può rivolgersi a Dio, al seguito di Gesù, come Àbba, con tutte le dimensioni di tenerezza, di confidenza e di fiducia che la parola “papà” può comportare.


Ma mi raccomando, Àbba con l’accento sulla prima “a”, altrimenti è un avverbio di tempo che significa “prossimo” di un qualcosa che sta per arrivare.

 

(BiGio)

 

 

 

Il Padre Nostro con le radici nella preghiera di Israele

Gesù insegna ai suoi discepoli a pregare utilizzando formule liturgiche che appartengono alla tradizione del suo popolo.


Lo schema seguente cerca di mostrare alcuni fra i parallelismi più significativi, tra i quali quelli con il Qaddish, la preghiera per la santificazione del Nome impronunciabile di Dio (JHWH) per rispettarne la trascendenza. Tutte le formule liturgiche ebraiche indicate sono tutt’ora in uso:


 

“Perché Tu sei nostro Padre…”   “Convertici, Padre nostro, alla Tua Torah“.

Is 63,16 cf. Dt 32,6     Amidah (preghiera delle 18 benedizioni)

 

“Tu sei il Signore nostro Dio che sei in cielo e in terra“.

Tefillah (preghiera)
del mattino

Che sei nei cieli  

Sia magnificato e santificato il Suo sacro Nome“.   “Rimani con noi, sia magnificato e santificato il Tuo Nome in terra come viene santificato nel più alto dei cieli“.

Qaddish (santificazione del Nome divino)     Qedushah (Sezione del Qaddish)  

Sia santificato il Tuo Nome  

Possa stabilire il Suo Regno durante la vostra vita e durante i vostri giorni…”.

Qaddish

Venga il Tuo regno  

“…Come però è la Sua volontà in cielo, così sia fatta“.   “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto…”. “Che la Tua volontà sia di guarirmima se la mia morte è stabilita da Te la accetterò con amore dalle Tue mani”.

1Mac 3,60       Gb 1,21   Preghiera in punto di
morte  

Sia fatta la Tua volontà, come in
cielo così in terra
  

“Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario“.   “O Dio nostro che stai nei cieli, dacci pane secondo la necessità dei nostri bambini”.

Pro 30,8         Selichot (Preghiere penitenziali)

Dacci oggi il nostro pane quotidiano  

Perdona l’offesa al tuo prossimo, e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”.   “Se tu perdoni al tuo vicinol’Unico (Dio) perdonerà te, ma se tu non perdoni il vicino, nessuno avrà pietà di te”.

Sir 28,2        Midrash Tanchuma (commento rabbinico alla Genesi)  

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Non abbandonarmi al potere del peccato, né al potere della colpa, né al potere della tentazione, né al potere della vergogna”.  

Talmud Babilonese, Berakhot 60B  

E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male  

 

Tratto da: Gesù e il “compimento” della Torah, di Elena Lea Bartolini De Angeli