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Domenica XXVI PA - Mt 21,28-32

L’immagine è quella di un Padre che ti affianca, ti si fa vicino con il massimo della tenerezza e ti propone di andare a curare la vigna dalla cui uva verrà tratto il vino che è il simbolo della festa e della gioia. L’invito, l’obiettivo e l’accento non sono posti tanto sul rispetto di un ordine che comporta lavoro con le correlative fatiche, ma sulla proposta di collaborare ad una azione capace di produrre nella vigna, raffigurante il popolo, festa e gioia.
 

I rapporti interpersonali e quelli all’interno delle Comunità chiedono di mettersi al servizio dell’altro per fare un tratto di strada assieme proponendogli così, nel fare esperienze in comune, la possibilità di accorgersi degli errori commessi e porvi rimedio. Si riuscirà in questo modo a condividere la misericordia del Padre che, per esprimersi pienamente, dovrà superare i legacci posti dalle nostre resistenze. La scorsa settimana con la parabola del compenso dato ai contadini assoldati per andare a lavorare nella vigna, Gesù ha iniziato a demolire la “religione dei meriti” che pensa di poter gestire il rapporto con il Padre come in un commercio.

La pericope di oggi inizia con una domanda: “Che ve ne pare”. Le domande che Gesù pone ai suoi interlocutori ci chiamano sempre in causa direttamente e non ci lasciano scappatoie. Quelle di oggi non sono rivolte solo ai “gestori del sacro” ma a tutti coloro che hanno fatto della religione (non della fede!) il loro baluardo di sicurezza. Avere regole certe portano a vivere tranquillamente protetti da ogni soffio di vento, ma rendono impermeabili all’evolversi della storia, incapaci di leggerla e di riuscire ad individuare in essa quei germogli di salvezza o, nel linguaggio del Concilio Vaticano II, i “segni dei tempi” seminati dal Signore dei quali siamo chiamati a prenderci cura, farli crescere e dei quali saremo chiamati a render conto.

Il suo racconto prosegue con un uomo che “aveva due figli; rivoltosi al primo disse …” il verbo usato in greco ha una sfumatura che nella traduzione italiana sfugge e sottolinea che questo padre “si avvicinò al primo figlio”. L’atteggiamento non è dunque quello del padrone che dà un ordine dall’alto al quale bisogna obbedire pena qualche castigo o il non ottenere la classica carota in premio per aver fatto quanto richiesto. Inoltre non viene adoperato uno dei due termini greci consueti per dire “figlio”, ma un terzo che viene dal verbo che significa dare alla luce, partorire. Quindi l’immagine è quella di un Padre che ti affianca, ti si fa vicino con il massimo della tenerezza e ti propone di andare a curare la vigna dalla cui uva verrà tratto il vino che è il simbolo della festa e della gioia. L’invito, l’obiettivo e l’accento non sono posti tanto sul rispetto di un ordine che comporta lavoro con le correlative fatiche, ma sulla proposta di collaborare ad una azione capace di produrre nella vigna, raffigurante il popolo, festa e gioia. La risposta che ottiene è un “” ma che non trova riscontro nella realtà al contrario di quanto accade con il secondo figlio che inizialmente mette davanti le sue voglie, ma poi ci ripensa e dà corso alla richiesta del Padre.

Gesù ora chiede ai suoi interlocutori, oggi noi, di esprimersi e la risposta non può che essere una: è il secondo figlio che ha fatto la volontà del Padre alla quale segue un avvertimento solenne: state attenti perché gli ultimi vi passeranno davanti, anzi vi sostituiranno nel Regno di Dio prendendo i primi posti, quelli che ora pensate di occupare voi. State attenti perché vi sentite sicuri, però Dio può con la sua misericordia convertire gli ultimi mentre non può nulla contro il castello di certezze che vi siete costruiti attorno. Quelli che voi pensate siano già persi per la loro realtà di peccatori, possono pentirsi mentre, chi si pensa a posto per le sue pratiche religiose, difficilmente riconosceranno le loro incongruenze.

È chiaro che, nel rapporto con il Padre e la sua proposta, il secondo figlio ha compiuto un cammino: dal rifiuto al porsi sulla traccia del suo essere e, di conseguenza agire nella sua sequela. È quel percorso che viene continuamente e incessantemente proposto anche a ciascuno di noi: accorgersi che il Signore si fa vicino e ci invita ad uscire dai nostri gusci per iniziare a porre attenzione ai bisogni degli altri, anche quelli inespressi, per portare gioia.

Gusci che possono essere quelle “Stanze a specchio” di Facebook o altro social, quando usate da leoni da tastiera circondati solo da “simili a loro” e con facilità “bannare” chi non lo è, costruendosi così una roccaforte sulla sabbia dei media. Essere interconnessi in questo modo può essere scambiato con un “sì” al mondo ma in realtà è un pensarsi al centro che esclude gli altri. È il contrario del percorso del secondo figlio ed è molto più simile a quello fatto dal primo che potrebbe portarci a sentirci dire: “Mi onori con le labbra ma il tuo cuore è lontano da me” (Is 29,13-14; Mc 7,6).

 

Questa parabola ci chiede anche un cambiamento nell’immagine di Dio: dal padrone che dà ordini, al Padre preoccupato che ciascuni lavori alla sua vigna ed abbia così da vivere. Un Padre che suggerisce, invita, indica, lascia liberi di interpretare e fare, mentre si continua a sentire e a percepire la fede con le sue espressioni religiose come una serie di regole da rispettare, obblighi da fare inchinandosi come i servi. Nemmeno il Decalogo (e non i Comandamenti!) sono leggi a cui obbedire, ma indicazioni di obiettivi da raggiungere in un percorso lungo quanto la nostra vita, fatto rimanendo ancorati nell’amore e nella misericordia del Padre che ci circonda e accompagna sempre con un abbraccio avvolgente che offre vita.


(BiGio)

Due figli, non due fratelli, forse gemelli? ...

Proviamo a scavare nel non detto della parabola. Due aspetti del racconto taciuti da Matteo possono aiutarci a leggere la vicenda con gli occhi di Gesù

“Un uomo aveva due figli…”. E il nostro pensiero va subito a un’altra parabola, quella del figlio minore – che se ne va da casa e poi vi fa ritorno – e del figlio maggiore, che è sempre stato nella casa senza mai entrare nel cuore del padre. Qui come là i due non vengono definiti come fratelli, bensì come figli dell’unico padre: sarà lui a ricordare al maggiore di essere fratello del minore; tra loro i due fratelli non parlano mai, né qui né là. Qui come là, uno dei due figli è capace di ricredersi, di mutare avviso, di rientrare in sé stesso e così di entrare nella festa preparata dal padre, di passare avanti nel regno preparato per i peccatori che si convertono. Qui, a differenza dell’altra parabola, è il padre che parla per primo a ciascuno dei due e ci immette nel clima della parabola che Gesù ha narrato nel capitolo precedente di Matteo: c’è un lavoro da svolgere nella vigna e c’è il padre-signore che cerca persone da mandare a lavorare nella vigna.

Ma proviamo a scavare nel non detto della parabola, così netta e provocante nella sua essenzialità e nella sua applicazione alla precedenza di pubblicani e prostitute rispetto a noi. Due aspetti del racconto taciuti da Matteo possono aiutarci a leggere la vicenda con gli occhi di Gesù stesso e non con quello dei suoi interlocutori immediati: i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo. L’evangelista non dice se ciascuno dei fratelli era presente o meno all’invito rivolto dal padre all’altro fratello: hanno ascoltato la voce del padre che chiedeva la stessa obbedienza a entrambi? La risposta di ciascuno – soprattutto quella affermativa del secondo – è stata condizionata dalla risposta dell’altro? Oppure la richiesta di andare a lavorare nella vigna è stata rivolta in privato, magari a ore diverse del giorno, magari alla prima e all’undicesima ora? In altri termini: la nostra risposta alla chiamata del Signore, il nostro tener fede alla parola data, il nostro ricrederci sui rifiuti di obbedienza in che misura è determinato dal parlare e dall’agire di colui che è figlio dello stesso padre e che io non voglio chiamare fratello, sorella né trattarlo come tale? E quanto la nostra risposta è stata condizionata dal calcolo del peso e della fatica della giornata e del compenso pattuito, sperato o preteso?

Dei due figli del padre, inoltre, l’evangelista non ci dice chi era il maggiore e chi il minore. Erano forse gemelli? Magari perfino monozigoti, identici nell’aspetto, ma così diversi nell’abitare il proprio cuore e nell’agire secondo coscienza? In tal caso solo il cuore del padre, solo il suo sguardo di amore avrebbe saputo discernere che il figlio al lavoro nella vigna era in realtà il primo, quello all’inizio disobbediente, e non il secondo, sicuro di sé ma inconsistente rispetto alla parola data. E qui emerge lo sguardo del Signore, il discernimento dello Spirito sulle nostre povere vite di pubblicani e prostitute che pensiamo di essere o vogliamo essere capi dei sacerdoti e anziani del popolo. È il calore dello sguardo del Signore sulle nostre miserie che ci svela la nostra vera identità, ci fa ricredere dalle nostre certezze e vedere la realtà per quella che è, che ci riconduce sulla via della giustizia tracciata dal Battista. È l’amore del padre che ci restituisce ogni giorno la nostra qualità di figli, che ci fa vedere l’altro come fratello, sorella da amare e basta, mentre assieme a lui, a lei lavoriamo nella vigna dell’unico Padre.

(fr Guido di Bose)



Nicea: 1700 anni di fede condivisa

Nel 325 d.C. a Nicea si tenne il primo evento ecumenico della storia della cristianità, da cui scaturì una professione di fede condivisa che da 1700 anni rappresenta per i cristiani un elemento in cui identificarsi e trovare unità. La Facoltà teologica del Triveneto propone un convegno sul tema, con approfondimento storico-teologico di Emanuela Prinzivalli e affondi su autori e territori di area aquileiese. Intervista a Chiara Curzel.

Alle soglie di un nuovo periodo storico che nel mondo greco-romano, dopo la grande persecuzione, inaugurò il tempo della cristianità, la Chiesa di Aquileia, Chiesa-madre del Nord-Est, ebbe un ruolo importante: polmone tra Roma e l’Oriente, fu un territorio sul quale visioni di Chiese diverse trovarono tensioni e scontri, ma fu anche ponte di dialogo nella catena di trasmissione della fede che si aprì, 1700 anni fa, con il Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, da cui scaturì una professione di fede condivisa.

In avvicinamento all’anniversario (325-2025), la Facoltà teologica del Triveneto organizza il convegno “Nicea andata e ritorno. Traiettorie di un Concilio” (Treviso, 14 ottobre 2023), che accosterà alcune tematiche relative alla comunicazione e ricezione del simbolo niceno, con una particolare attenzione agli autori e ai territori di area aquileiese.

La relazione di apertura sarà tenuta da Emanuela Prinzivalli (Università La Sapienza, Pontificio Istituto Patristico Augustinanum, Roma), che fornirà l’inquadramento storico-teologico del Primo Concilio di Nicea; seguiranno gli interventi dei docenti dell’area patristica della Facoltà, che hanno curato la parte scientifica del convegno e illustreranno, in particolare, le “traiettorie” nell’area territoriale aquileiese di questo percorso (qui).

Chiara Curzel, docente di Patrologia e Patristica all’Istituto superiore di Scienze religiose “Romano Guardini” di Trento e coordinatrice dell’area patristica dei docenti della Facoltà ce ne parla a questo link:

http://www.settimananews.it/teologia/nicea-1700-anni-fede-condivisa/





«Contro l'odio liberare i figli dalla paura»

L'attore Alessandro Bergonzoni sul cattivismo imperante: basta con la ci/viltà sui social

Odiatori, nella vita come nella Rete. L’ondata di cattivismo che sta infestando il dibattito pubblico rischia di sovvertire millenni di etica, con i samaritani del 2000 disprezzati, accusati di salvare vite e occuparsi dei fragili, come fosse una colpa anziché ciò che ci fa uomini. Rigurgiti odierni di “aporofobia” (disgusto verso i poveri), fenomeno mai visto prima... «Ho finito le guance. Ho già porto anche l’altra, non ne ho più»: Alessandro Bergonzoni, scrittore e attore, o per meglio dire pensattore, ne è certo, «ormai è uno stato di isteria, una malattia effettiva e affettiva. Rabbia e paura ci hanno drogato, ci hanno alterato quasi chimicamente, fino alla patologia. L’odio nasce da un cortocircuito, avvenuto per poter scaricare una rabbia che è stata preparata accuratamente». 

Credevamo di avere gli anticorpi contro tutto questo, che gli errori del passato ci avessero resi irrimediabilmente migliori. Invece assistiamo al trionfo della ci/viltà, l’anonimato è la forza con cui si esprime oggi chi odia: ti insulto tanto io non so chi sei e tu non sai chi sono io. È la ci/viltà dei social, dei media, la viltà da dietro un vetro. Come ha scritto Zamagni su Avvenire, il potere ha paura dei solidali ...


L'interessante riflessione continua a questo link:

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/oggi-il-potere-malato-e-teme-gli-spiriti-liberi





Raccontare la parrocchia. Non è una struttura caduca…, se è capace di riformarsi e adattarsi continuamente

Ottanta persone (preti, laici, laiche, vescovi) si sono ritrovate sul tema “Parrocchie e ministeri” a Pergine Valsugana (Trento, 23-26 agosto) per concludere un lavoro triennale sul tema della parrocchia. Sostenute dall’ISSR di Verona, dalla Facoltà teologica di Padova e dai vescovi del Triveneto, con la collaborazione di un analogo gruppo pugliese e tosco-emiliano, hanno elaborato un metodo che unisce competenze accademiche e pastorali con il racconto del vissuto credente delle comunità parrocchiali.


L’impegno, già affinato in precedenza sul tema del “secondo annuncio”, non ha preteso di proporre un modello parrocchiale sostitutivo a quello tridentino, ma di focalizzare quelle pratiche e quelle scelte che vanno in direzione di un cambiamento di cui tutti avvertono l’urgenza. 
Elaborato e letto da M.T. Martinelli, R. Covi, A. Pozzobon, G. Laiti e E. Biemmi, la sintesi qui presentata evidenzia quegli elementi che possono avviare o confermare forme generative capaci di futuro.  
Il progetto “Progetto Parrocchia Triveneto” ha accolto un’importante sfida che sta interpellando, oltre a noi, diverse realtà accademiche, centri di formazione, singole diocesi. La domanda che fa da sfondo, provocatoria e sicuramente portatrice di non poche preoccupazioni, può essere così formulata: “quale sarà il futuro della parrocchia dentro contesti tanto mutati”?

Ci ha mosso la passione per il vangelo e l’amore per la parrocchia, oggi così fragile, così esposta allo smarrimento e alle contraddizioni, ma nella quale continuiamo a nutrire profonda fiducia. Quindi ci ha mosso l’amore e, se si ama, non ci si sottrae, né si può accettare indifferenza o rassegnazione. 

L’amore spinge ed è foriero di possibili cambiamenti e conversioni, spazio di nuovi inizi. Quando si ama ci si crede, si investe sulla fiducia. Non nostalgia per ripristinare le forme del passato ma, mantenendo memoria delle nostre radici, un prendere sul serio il tempo che abitiamo nel desiderio di entrare con gentilezza e speranza nel campo dei germogli nuovi.

Non si è cercata una soluzione che può andar bene per tutti (semmai esistesse), ma della capacità di tradurre lo stile evangelico in una modalità formativa, che aiuti a diventare maggiormente comunità discepole e, per questo, missionarie. 

Per utilizzare un’immagine efficace, questo modo di procedere ci rende registi, non fotografi: il fotografo blocca l’immagine, il regista ne accompagna lo sviluppo. Dio è regista, non fotografo (Castellucci). 

1 - La prima parte  presenta perché è nato il "Progetto Parrocchia"e quale metodo di lavoro si è dato; a questo link

http://www.settimananews.it/parrocchia/raccontare-la-parrocchia-1/


2 - La seconda parte della relazione finale descrive alcuni “blocchi” incontrati sulla strada del necessario cambiamento e ne individua le cause; a questo link:


http://www.settimananews.it/parrocchia/raccontare-la-parrocchia-2/?fbclid=IwAR1D_uIE8dlpnUVna_sXWe0syMJJCJXrm3bd3Re4BAJ1PIQoPMf2YdXB714


3 - La terza parte elenca le 8 parrocchie coinvolte e, dal loro raccontarsi, fa affiorare alcuni segni che possono ridare vita alle comunità parrocchiali partendo da Evangeli Gaudium n. 28 «La parrocchia non è una struttura caduca…, se è capace di riformarsi e adattarsi continuamente».  A questo link:

http://www.settimananews.it/parrocchia/raccontare-la-parrocchia-3/


Il ruolo del segretario di Pio XII

L’intervista di Massimo Franco all’archivista vaticano Giovanni Coco, su «la Lettura» ancora in edicola, ha attirato l’attenzione della stampa internazionale. Testate come il «New York Times», il «Guardian», il «Wall Street Journal» hanno riferito in particolare del documento più importante scoperto da Coco 


La lettera, datata 14 dicembre 1942, in cui il gesuita tedesco Lothar König informava il segretario personale del pontefice Pio XII, Robert Leiber, circa i crimini che si andavano compiendo presso Rava Rus’ka, cioè nel campo di sterminio di Bełzec, dove quotidianamente venivano eliminati, si legge nella missiva, «6.000 uomini, soprattutto polacchi ed ebrei».

Tutti sottolineano come il documento, così esplicito circa gli orrori della «soluzione finale», contraddica la tesi secondo cui Papa Eugenio Pacelli evitò di condannare la Shoah perché non disponeva di notizie certe sul genocidio. «Abbiamo trovato la lettera — osserva Coco il giorno dopo — fra le carte della segreteria personale del Papa. Non possiamo avere la certezza matematica che Pio XII la conoscesse, ma sarebbe molto strano il contrario. Leiber in quel periodo era il terminale delle informazioni che giungevano dalla Germania sulla persecuzione della Chiesa cattolica: il suo compito era appunto riferire al pontefice di quanto accadeva sotto il Terzo Reich. E sappiamo che a volte Pio XII, perfettamente a suo agio con la lingua tedesca, non si limitava a esaminare le relazioni del suo segretario, ma leggeva personalmente i documenti inviati a Leiber. Purtroppo noi abbiamo reperito solo questa lettera di König, ma da quello che scrive dobbiamo dedurne che la sua corrispondenza con la Santa Sede fosse intensa».

L'articolo di Antonio Carioti continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202309/230918carioti.pdf

Pio XII, il Papa che “sapeva”

Su L'Osservatore Romano, note su una ricostruzione storica circa l'operato di Pacelli durante la Shoah

La Lettura, il settimanale culturale del Corriere della Sera ha pubblicato un’interessante intervista con Giovanni Coco, officiale dell’archivio apostolico Vaticano, il quale ha presentato un documento inedito sui campi di sterminio a est. Si tratta di una lettera del 14 dicembre 1942, inviata dal gesuita tedesco Lothar König al confratello Robert Leiber, segretario personale di Pio XII . In allegato la lettera contiene una statistica sui sacerdoti detenuti in campi di concentramento, e menziona i lager di Auschwitz e di Dachau, accennando al tragico destino degli ebrei. «Le ultime informazioni su “Rawa Russka” con l’altoforno delle SS , dove ogni giorno venivano uccise fino a 6.000 persone, soprattutto polacchi ed ebrei, le ho ritrovate ulteriormente confermate da altre fonti». 
Coco ha giudicato enorme il valore di questa lettera, a suo dire «un caso unico, perché rappresenta la sola testimonianza di una corrispondenza che doveva essere nutrita e prolungata nel tempo» ...

La complessa vicenda viene ricostruita da ML Napolitano a questo link:

https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2023-09/pio-xii-napolitano-archivi-osservatore-romano.html?fbclid=IwAR179a-iAdWQ5AiV6euk3KMqYe7jzgi0HOPIYbYArjlLZYT33CMKx5sYsas





Il riconoscimento dei genitori nella maternità surrogata: cosa dice la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Mentre prosegue il percorso parlamentare della proposta di legge per rendere “reato universale” la gestazione per altri (GPA), sul tema della maternità surrogata è intervenuta un’importante sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Corte EDU, n. 239 del 31 agosto 2023). 

La Corte ha condannato l’Italia per il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione tra il padre biologico e una bambina nata nel 2019 in Ucraina tramite GPA. La pronuncia si segnala in quanto pone un argine a un’interpretazione eccessivamente restrittiva - fino al punto di divenire lesiva dei diritti del minore – data da uffici dell’anagrafe e tribunali nazionali alla giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di maternità surrogata.

Di cosa si parla in questo articolo di Vitalba Azzolini: 

I fatti 


A questo link:


Domenica e lunedì per gli ebrei è Yom Kippur: morte e resurrezione per celebrare la vita

Si è soliti tradurre il nome della solennità di Kippur come “giorno del perdono”. Bello, non sbagliato ma neppure del tutto esatto. Selichà è il termine più usato per indicare il perdono e lo sanno bene quanti, sin dall’inizio del mese di Elul che precede Tishrì e i mo’adim, recitano le selichot ossia gli inni e le preghiere che esprimono pentimento e volontà di tornare, di fare teshuvà, sulle vie del Signore. Kippur/kapparà in ebraico esprime piuttosto l’idea dell’espiazione o della compensazione per una trasgressione o una mancanza. Viene da una radice che indica il ‘coprire’ e il ‘lavar via’

Secondo Wayqrà/Levitico 16, il rito templare compiuto dal sommo sacerdote trasferiva i peccati del popolo su un capro espiatorio, che veniva letteralmente ‘coperto’ dei peccati di Israele, e poi mandato nel deserto; in tal modo le colpe erano come lavate via, allontanate e rimosse. Altri sacrifici nel Tempio portavano lo stesso nome, kapparà.

Giusto chiedersi: qual è la differenza tra perdono ed espiazione? Il perdono giunge come l’atto conclusivo di un lungo processo: coscienza di aver peccato, confessione e proposito di non trasgredire più e soprattutto riparazione del danno commesso. L’espiazione è la fase centrale di quel processo – che i maestri chiamano nell’insieme teshuvà – ovvero l’agire che lo riassume e ne garantisce l’autenticità. Il perdono è ciò che chiediamo quando offendiamo o che elargiamo quando siamo parte offesa, ma in un certo senso “dipende” da chi ci perdona o, sul lato opposto, da chi deve chiedercelo (perdonare chi non vuole essere perdonato è un nonsense). Al contrario l’espiazione è sempre nelle nostre mani, come il processo della teshuvà, e dipende soltanto da noi. Per chi lo riceve, il perdono è qualcosa di passivo ed è essenzialmente morale o spirituale; l’espiazione è un agire attivamente che coinvolge tutta la persona, a livello morale o spirituale come a livello materiale, perché deve “coprire il danno”, compensare la trasgressione. A Yom Kippur il processo di teshuvà giunge al suo apice, si completa e si compie – attraverso sentimenti, parole e gesti simbolici come l’astenersi da ogni legittimo piacere della vita – e in tal modo ci purifichiamo. Esternando l’espiazione siamo pronti a ricevere il perdono. Chi pecca (o più laicamente, chi sbaglia) e crede di poter essere perdonato senza espiare, senza fare qualcosa per compensare il male commesso e rigenerarsi, inganna e illude se stesso.

La presentazione di questa festività ebraica a cura di Massimo Giuliani continua a questo link:


 

Domenica XXV PA - Mt 20,1-6

Il Padrone non è preoccupato di avere molti operai, ma che ciascuno abbia di che vivere nella gioia e nella gratuità. Con questa parabola Gesù vuole demolire una volta per tutte la “religione dei meriti” che cerca di applicare alla fede i criteri economici di Mammona.

 

Il percorso nel quale la Liturgia ci sta conducendo a fare in queste domeniche sta sviluppando il tema dei rapporti interpersonali e all’interno delle Comunità, su come gestire gli inevitabili conflitti e sul fatto che se non si riesce ad uscire dalla ristretta visione della giustizia umana per abbracciare e condividere con tutti la misericordia del Padre, quest’ultima dovrà superare le difficoltà di trovarsi “legata” dalle nostre resistenze e, il nostro volto non rifletterà il suo cuore.

 

Oggi l’invito è a fare un ulteriore passo nella comprensione di quale sia il modo di agire del Padre, perciò di chi egli realmente sia al di là di ogni stereotipo, quale sia il suo progetto per la vita per gli uomini e la realtà che sono chiamati a realizzare cioè il “regno dei cieli”. La liturgia dell’anno A non ci propone nessuna delle due moltiplicazioni dei pani che Matteo narra, una in terra di Israele e l’altra in terra pagana ma, uno dei significati di entrambe, è che la condivisione rende ricchezza e offre il necessario a tutti. A un primo livello interpretativo la parabola di oggi si inserisce in questo tema ed il Padrone che a più riprese (5 volte) nell’arco della giornata assolda lavoratori per il lavoro nella sua vigna, alla fine tratta allo stesso modo dal primo all’ultimo tutti quelli che ha trovato, anche chi ha lavorato una sola ora. Da notare è la sottolineatura che, coloro che man mano a diverse ore del giorno vengono inviati a lavorare, non erano dei fannulloni ma pur essendo disponibili, nessuno li aveva chiamati al lavoro. Emerge allora non tanto che la vigna aveva bisogno di molti operai, ma che il Padrone era preoccupato perché, chi non fosse stato chiamato al lavoro, quel giorno sarebbe rimasto senza paga: non avrebbe quindi avuto di che comprare da mangiare per lui e l’intera sua famiglia.

Alla fine della giornata dà a tutti la paga contrattata con quelli della prima chiamata, anche a chi ha lavorato forse anche meno di un’oretta. 

Qui avviene un cambio di paradigma: dalla giustizia umana a quella di Dio che guarda in base ai bisogni delle persone, non ai loro meriti. Infatti il Padrone viene contestato (anche da noi?) e risponde piuttosto rudemente: “Amico io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene” e non semplicemente con l’edulcorato “va” delle nostre traduzioni. Anche quell’”amico” è un appellativo con una doppia possibile comprensione. Matteo lo mette sulla bocca di Gesù solo qui, quando si rivolge al commensale senza la veste nunziale e nell’orto del Getsemani  a Giuda che lo sta tradendo e continua: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” che letteralmente si traduce con “Oppure il tuo occhio è maligno?”. Conclude la parabola in modo simile chiusura del capitolo precedente (Mt 19,30): “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”. 

L'avranno capito i suoi discepoli? La madre dei figli di Zebedèo subito dopo si troverà a chiedere i primi posti, i più importanti per i propri figli. E noi che cosa ci troviamo a chiedere? Nel nostro lavoro sicuramente giustizia e retribuzioni corrispondenti alle competenze e capacità; la soppressione di situazioni di caporalato e bieco sfruttamento con salari ben al di sotto della soglia vitale ed è corretto ma la parabola vuole dirci altre cose.

Innanzitutto la vigna è immagine del popolo; piantata dal Signore con grande cura, della quale è orgoglioso e dalla quale si aspetta un frutto buono e abbondante (Is 5,1-2).

Dal prodotto della vigna si estrae il vino che rallegra il cuore (Ps 104) e il Siracide (31,27) si chiede “che vita è quella dove manca il vino? Fin dall’inizio è stato creato per la gioia”. Il vino non è certo indispensabile per la vita come l’acqua, ma simbolo della festa, della gioia, della gratuità. 

Ecco quello che desidera produrre il Padrone della vigna della parabola e ci tiene che il suo frutto sia abbondante e dia molta gioia. Questo è il motivo per il quale chiama gli uomini a lavorare nella vigna, nel creato. Questa dovrebbe essere l’immagine di una vita nella fede senza quegli spessi panni di pesanti fardelli imposti che fruttano tristezza al posto della gioia, della gratuità, della giustizia alla quale ci chiama il suo regno già nel nostro oggi. Il portare il peso di quelle zavorre imposte ci porta a pensare che in cambio alla fine ci sarà una giusta ricompensa. Quando ragioniamo in questo modo di fatto continuiamo a porre al centro il nostro io e cerchiamo di costringere Dio alla nostra visione di giustizia retributiva, dimenticando che la condizioni posta da Gesù a chi lo vuole seguire, è dimenticare sé stessi e pensare solo a donare gioia ai fratelli.

 

Con questa parabola Gesù vuole allora demolire la “religione dei meriti”. Chi ha avuto il dono della fede fin dalla fanciullezza avrà la medesima ricompensa di chi vi sarà giunto in un’altra fase della vita, anche nella vecchiaia. Il dono della fede rimane sempre attivo, sta all’uomo accoglierlo nella sua vita quando sarà in grado di accorgersene, quando le condizioni della sua ricerca lo renderanno possibile.

 

Il compito di “chiudere” questa parabola spetta a noi nel senso che è un invito costante a tener presente che la giustizia di Dio non è la nostra e che “come il cielo è lontano dalla terra, le sue vie non sono le nostre vie” (Is 55. 8), quindi ci è chiesto di rimanere aperti e capaci di accogliere la sua novità che non potrà non sorprenderci e sorprenderci ancora e ancora con la sua misericordia e capacità di amore altro ogni limite.

 

(BiGio)

Andate anche voi

Più che sulla vigna, l'attenzione del proprietario è focalizzata sulla preoccupazione per le persone. Colpisce il triste e doloroso lamento dei lavoratori invitati all'ultima ora del giorno: "Nessuno ci ha presi a giornata.


Il funzionamento di qualsiasi gruppo o istituzione richiede che i suoi membri assumano compiti diversi per la realizzazione del bene comune. Questo, specialmente nell’ambito della chiesa, non dovrebbe creare differenti gradi di dignità e di privilegio, ma rafforzare l'uguaglianza, nella diversità dei tempi e dei servizi che ogni persona è chiamata a svolgere. Dio stesso, nell'insegnamento di Gesù, rivela un amore generoso e gratuito, che non si limita alla giustizia e va oltre i meriti di ciascuno.

Nel linguaggio simbolico della parabola, la vigna è l'umanità. A questa vigna sono invitati a lavorare alcuni giornalieri contrattati "all’alba" per "un denaro al giorno".
In diverse ore del giorno il proprietario della vigna esce per invitare altri nuovi lavoratori: "Andate anche voi nella vigna". Più che sulla vigna, l'attenzione del proprietario è focalizzata sulla preoccupazione per le persone: "Ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati"; "Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?". Colpisce il triste e doloroso lamento dei lavoratori invitati all'ultima ora del giorno: "Nessuno ci ha presi a giornata". E vanno a lavorare per il resto della giornata senza contrattare nessun salario.
La paga alla fine della giornata, uguale per tutti, rispetta e compie la giustizia degli accordi iniziali: "Non hai forse concordato con me per un denaro?". Ma non tiene conto della diversità dei lavoratori, alcuni dei quali hanno lavorato molte più ore di altri. Ed ecco l'insegnamento della parabola.
L'invito a lavorare per fare dell'umanità la famiglia felice dei figli e delle figlie di Dio è gratuito. Non mira a una ricompensa per i meriti. Spendere la propria vita al servizio degli altri, lavorando nella vigna del mondo, non dà diritto a privilegi o separazioni, ma realizza quello che ciascuno è chiamato a fare, seguendo chi l'ha fatto per primo, Gesù. La chiamata è gratuita, ed anche la risposta, e la stessa paga per tutti, indipendentemente dalle ore, dalla quantità di lavoro e dai compiti svolti per la comunità.
Questo può suscitare il malcontento e il fastidio di alcuni, che si sentono più meritevoli di altri, e pretendono un riconoscimento diverso: "Abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo".
È difficile per noi pensare a questa uguaglianza radicale, perché molte volte nella stessa comunità ripetiamo i criteri della società, in cui il mercato è l'unica legge che governa: io cerco con tutti i mezzi di ottenere il più possibile, dando da parte mia il meno che posso. I criteri di Dio, invece, sono sconcertanti. Egli dà quello che è giusto, e molto di più, gratuitamente. È "ingiusto", da un punto di vista umano. La logica di Dio non è la logica degli uomini: “Tu sei invidioso perché io sono buono?". Ciò che Dio vuole è solo la felicità dell'uomo.
Potremmo essere tentati di abusare di un tale Dio, perché sappiamo che ci "paga" al di là dei nostri meriti, oppure possiamo cercare di imitarlo, come figli e figlie che riproducono in sé stessi le caratteristiche del Padre.
(Benardino Zanella)

Un prete al servizio della comunità

La revisione del modo di essere chiesa ha (e non può che avere) implicanze dirette sulle varie componenti del tessuto ecclesiale, in particolare sui carismi e sui ministeri che vanno sempre più ripensati in un’ottica comunitaria e con l’obiettivo di far crescere partecipazione e corresponsabilità. La comunità cristiana non può  essere concepita come una massa di individui, che ricercano ciascuno la soddisfazione del proprio bisogno religioso, ma come una realtà viva e articolata in cui ogni fedele è chiamato a fornire il proprio insostituibile apporto all’edificazione della casa comune.

Nel contesto di questa visione di chiesa va inserito anche il ruolo del prete, che riveste una rilevante  importanza in ragione del particolare servizio che è chiamato a svolgere. L’ecclesiologia del Vaticano II, con l’introduzione delle due grandi categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” ha segnato con chiarezza l’ambito e la modalità di esercizio di tale servizio, mettendo l’accento sulla necessità di inscriverlo all’interno (non dunque al di fuori o al di sopra) della comunità  e di finalizzarlo alla sua crescita.

Le difficoltà attuali 

  1. La perdita di autorità

Le due categorie accennate sono al centro della costituzione Lumen gentium, dove l’aver anteposto il capitolo sul “popolo di Dio” a quello dedicato alla gerarchia – una vera “rivoluzione copernicana” secondo alcuni – ha determinato il passaggio da una concezione verticistica di chiesa a una concezione di chiesa “dal basso”, radicata nel sacerdozio comune dei fedeli che scaturisce dal battesimo; mentre a sua volta, l’aver messo al centro della riflessione il concetto di  “comunione” ha reso trasparente l’esigenza di sviluppare una forma di unità differenziata e pluralistica, frutto del contributo responsabile di tutti i fedeli. Una chiesa dunque non più egemonizzata da una élite di eletti, la ecclesia docens,  e costituita da una pletora assai più numerosa di fedeli, la ecclesia discens, il cui compito è quello di sottostare agli orientamenti dottrinali e alle direttive pastorali dettate dai primi.
Le difficoltà ad accettare di fatto questa visione da parte di chi riveste un ruolo gerarchico – dal papa ai vescovi e ai preti – dopo secoli di clericalismo si è ben presto manifestata. Alla perdita del ruolo sociale assai rilevante nell’ambito di una società chiusa come quella preindustriale si è accompagnata, grazie alle scelte fatte dal Concilio, il venir meno di un supporto istituzionale, che garantiva al prete l’attribuzione di una indiscussa autorità dalla quale ricavava autoaffermazione, gratificazione e sicurezza. L’abbandono dei ruoli del passato ha dunque lasciato il posto all’esercizio di una funzione, che oltre a sminuirne il potere decisionale, esige l’acquisizione di particolari attitudini, quali l’autorevolezza personale, la capacità di dialogo e lo spirito di servizio.           

L'articolata riflessione di Giannino Piana continua a questo link:

https://www.esodoassociazione.it/site/index.php/i-nostri-temi/futuro-del-cristianesimo/565-un-prete-al-servizio-della-comunita-3



È settembre, si riprendono le attività ma attenzione, non è ripetere ...

La “ripresa” è ben diversa dalla “ripetizione”: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport… vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. 

Diverso è “riprendere”: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima… Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti “ripetente” è sinonimo di bocciato e “mi sono ripreso” di salute: facciamo una “ripresa” quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia “ripetuto” ma “ripreso”?

La riflessione di Alessandro Davenia continua a questo link: 

https://www.profduepuntozero.it/2023/09/12/ultimo-banco-169-graziato/



Parrocchia si cambia, ma come?

A memoria potremmo dire che sono almeno 30 anni che nella Chiesa italiana si parla della riduzione del clero. E contemporaneamente si è messa in moto qualche iniziativa nella linea dell’unificazione delle parrocchie. Allora, però, c’erano ancora preti tra i 50 e i 60 anni e dunque il tema era far sì che qualcuno acconsentisse a non essere più parroco, come pure convincere i seminaristi, che ancora c’erano, a non pensare di diventare parroci subito. Tutto questo però in ordine sparso, per via di sperimentazioni e di alchimie tra preti, e qualche volta, religiose. E, soprattutto, senza mai guardarsi indietro: chi stava arrivando?

In questo contesto la lettera del vescovo di Torino (cf. SettimanaNews, qui) apre strade e offre l’occasione per qualche considerazione di diverso tenore. Nel contesto della lettera sembra chiara la consapevolezza che le piccole comunità non sono abbandonate, sono collegate tra loro e a loro è offerto un centro eucaristico per una celebrazione degna del nome, ma anche per un esercizio della carità e della formazione di respiro ampio. 
Ḕ assolutamente vero che si impiega l’auto per tutto, e per le nostre comunità la distanza del luogo della celebrazione non dovrebbe far problema. D’altra parte, c’è una pigrizia nei confronti del luogo e dell’orario di celebrazione insostenibile e per nulla giustificata.
Molte comunità però sono anziane, soprattutto quelle dei piccoli centri, perciò sorge la domanda se, per loro, sarà efficace lo spostamento. E poi il Piemonte ha montagne, e in generale l’Italia con le sue Alpi, Prealpi, Appennini, è fatta di tanta montagna… e qui entra in gioco la fattibilità concreta.
Neve e ghiaccio, acqua? L’instabilità del clima ci suggerisce fenomeni molto più forti del solito producendo situazioni in cui è sconsigliato spostarsi. In questo caso, il rischio è di tornare ancora alla messa in tv, magari con la diretta streaming del centro eucaristico della zona.

Ma tutte queste difficoltà, tecniche e via via affrontabili, diventano in realtà elementi significativi perché lo sfondo in cui questa strutturazione della vita delle comunità viene a collocarsi  è quella di uno schema tradizionale: il prete è presidente di fronte al popolo di Dio. E allora?


L'interessante tematizzazione continua a questo link:


Il Crocifisso non può mai essere un obbligo.

Senza entrare nella evidente questione della laicità dello Stato e della separazione, invocata dallo stesso Gesù, tra Cesare e Dio, per un fedele dovrebbe essere doloroso, ritengo, pensare che la presenza del simbolo cristiano sia o possa essere imposta. Proibire sarebbe ed è un errore doloroso, come è o sarebbe sbagliato imporre.

A poche ore dalla partenza di papa Francesco per Marsiglia, la deputata leghista Simona Bordonali, quale prima firmataria, ha depositato con altri del suo partito, una proposta di legge per rendere obbligatoria l’apposizione del Crocifisso in scuole, uffici, carceri e porti. Chi non adempisse l’obbligo, per la proposta legge, dovrebbe poter essere multato fino a mille euro.

Prima di tutto è interessante notare la novità dell’inserimento anche dei porti nell’elenco dei luoghi dove imporre la presenza del Crocifisso. Non è difficile osservare che in molti porti italiani i “crocifissi” non scarseggiano, a volte bloccati su strutture galleggianti, impossibilitati a scendere, o trattenuti in vicine tendopoli. E siccome molti porti del sud sono sovrastati dalla famosa Madonna di Porto Sicuro o altre dai nomi simili, viene da chiedersi se si abbia idea di cosa significhi immaginari respingimenti o pratiche simili, oggi molto diffuse, sotto lo sguardo di chi prima fu costretto alla fuga dal proprio Paese e poi fu crocifisso dal potere costituito.

L'intera riflessione di Riccardo Cristiano a questo link:


Crisi delle Chiese. Se il Cristianesimo non “funziona più”

Una interessante intervista a Brunetto Salvarani di Claudio Paravati.

La teoria della secolarizzazione sembra non essersi avverata ma il ritorno del religioso non è quello delle Chiese piene di fedeli, né di preti, pastori e missionari: è la fine delle chiese cristiane tradizionali?


È necessario partire da un dato di fatto: diversamente rispetto a un passato recente, oggi, una sia pur rapida istantanea sulle varie credenze non può che fotografarle come un processo in costante divenire; ed è possibile senza problema alcuno scegliere di essere atei o agnostici, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio specifico percorso all’interno delle religioni. Inoltre, mi pare un evento ormai conclamato l’es-culturazione del cristianesimo – come la chiama Christoph Theobald – dal paesaggio sociale e dall’immaginario europei; un evento che giustificherebbe ampiamente l’aprirsi di un dibattito pubblico, di cui in realtà per ora si fatica alquanto a scorgere i contorni. In questo scenario (mosso), scorgo due narrazioni fondamentali sul futuro delle Chiese: una, minoritaria, ottimista, e un’altra, largamente prevalente, pessimista. 

L'interessante intervista continua a questo link:

Dal 1950 in Africa ci sono stati 214 colpi di Stato: ma cosa c'è dietro?

 I colpi di Stato non sono tutti uguali. Non lo sono le cause, le modalità, i  protagonisti. E soprattutto, non lo sono i tempi. I tempi storici. Ecco perché interpretarli richiede uno sforzo di comprensione e uno sguardo meno rigido. Al susseguirsi di golpe in Africa degli ultimi anni non c’è una sola risposta. E quelle di oggi potrebbero non essere le stesse quando ci sarà stato modo di osservare il risultato di questi avvenimenti. L’unica cosa davvero certa è che il continente sub-sahariano sta vivendo una evoluzione. Nuova, in qualche modo imprevista (e in larga misura, imprevedibile). 

Molti dei colpi di Stato nei primissimi anni dalle indipendenze sono stati “manovrati” dagli ex colonizzatori europei (soprattutto da Francia e Belgio) e dagli USA e questo vale anche per gli assassinii di leader carismatici e critici nei confronti di chi li aveva fino ad allora dominati e per questo ritenuti pericolosi (solo la Francia è ritenuta coinvolta in 22 casi di omicidi dal 1963), come Patrice Lumumba, primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo (con la responsabilità di Bruxelles) e Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso che contestò la schiavitù economica a cui l’Occidente aveva sottoposto l’Africa e chiese l’annullamento del debito voluto dai colonizzatori, “una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata” disse. Oppure per il colpo di Stato che sostituì il presidente del Ghana, Kwame Nkrumah. 

Troppo comunista per un presidente come Lyndon Johnson. “Il colpo di Stato in Ghana è un altro esempio di colpo di fortuna fortuito. Nkrumah stava facendo di più per indebolire i nostri interessi di qualunque altro africano nero. In reazione alle sue inclinazioni fortemente filo-comuniste, il nuovo regime militare è quasi pateticamente filo-occidentale”. 

Così scriveva, in una lettera indirizzata al presidente degli Stati Uniti, il suo assistente agli Affari della sicurezza nazionale. “We face neither East nor West: we face forward” (non guardiamo né ad Est né ad Ovest: guardiamo al futuro), affermava quello che è stato il presidente del primo paese dell’Africa sub-sahariana a conquistare l’indipendenza (1957). Ma le idee (e le dichiarazioni) panafricaniste di Nkrumah non sono mai state apprezzate da chi voleva continuare a tenere il controllo su paesi che solo formalmente stava lasciando. Bisognava schierarsi e schierarsi “dalla parte giusta”. 

 

 

L'interessante e documentata analisi di Antonella Sinopoli continua a questo link:


https://www.valigiablu.it/africa-colpi-di-stato-2023/