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«Il massacro a Gaza e in Cisgiordania è terrorismo»

«Difendersi dall'aggressione di Hamas è un dovere. Difendersi dall'esistenza stessa del popolo palestinese è un crimine contro l'umanità. L'assumere criteri avvocateschi e corporativi a protezione acritica da ogni critica è il maggior contributo che gli ebrei possano dare all'antisemitismo» Se ogni critica viene respinta come "antisemita", l'accusa di antisemitismo diventa una pretesa di privilegio: quello di essere esentati dalla critica in memoria della Shoà

Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano.

Professor Levi Della Torre, cosa distingue a suo avviso una critica a Israele per ciò che sta perpetrando a Gaza da un atteggiamento antisemita?

La critica a Israele per il massacro a Gaza è doverosa. L’aggressione terribile di Hamas del 7 ottobre ha traumatizzato nel profondo Israele rinnovando memorie dei pogrom e del genocidio e rivelando una sua inattesa vulnerabilità.
Israele ha diritto di reagire e difendersi? Negarlo sarebbe un sintomo antisemita. Ma a Gaza e in Cisgiordania Israele ha trasformato la guerra contro Hamas in guerra contro il popolo palestinese su due fronti, quello di Gaza e quello in Cisgiordania. Difendersi dall’aggressione di Hamas è un dovere, difendersi dall’esistenza stessa del popolo palestinese è invece un crimine contro l’umanità, che oltre ai bombardamenti indiscriminati con bombe da più tonnellate, usa come strumenti di guerra la fame, la sete, il taglio dell’energia, la distruzione degli ospedali, la pulizia etnica. Colpevolizzare l’intero popolo palestinese, bambini compresi, come “terrorista” ha qualcosa di affine all’antisemitismo. Con i suoi crimini di massa Israele fomenta l’antisemitismo, lo risveglia come tradizione e lo incoraggia offrendogli argomenti basati sui fatti attuali. Se Israele ha diritto di esistere e di difendersi, anche i palestinesi ce l’hanno, di fronte alla sistemica aggressione di Israele nei territori occupati. Se ci sono organizzazioni palestinesi che praticano uccisioni e massacri indiscriminati ossia terroristici vanno combattuti e condannati; ma anche il massacro di Gaza e in Cisgiordania sono terrorismo su vasta scala, e ogni forma di terrorismo, di gruppo o di Stato, va condannata e politicamente combattuta.

Tra Hamas e la politica di destra di Israele c’è stato un antagonismo collusivo. In che cosa collusivo? Entrambi convergevano nel rifiuto del compromesso di pace...


L'intervista a cura di Umberto De Giovannangeli continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202404/240424levidellatorredegiovannangeli.pdf





"Habemus Papam”, la mostra di Maupal per Francesco a Venezia

Nella città lagunare aperta al pubblico l'esposizione con le opere dello street artist per dare il benvenuto al Papa in visita a Venezia


Dai vicoli di Borgo Pio a Roma alle calli di Venezia, la street art di Mauro Pallotta, meglio conosciuto come Maupal, è sbarcato in Laguna nel complesso della ex chiesa di San Lorenzo, nel sestiere di Castello con le sue opere: Habemus Papam, la mostra vede Papa Francesco come protagonista. Dal primo famoso poster del Papa supereroe con la valigetta nera dei "valores", alle immagini del Pontefice che confessa con le cuffie o gioca a pallavolo con alcuni bambini schiacciando il cuore oltre la rete dell'odio ("hate") o ancora che disegna una colomba, simbolo di pace, su un muro di Roma, fino alle cinque icone diffuse durante la Quaresima 2024 dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale per accompagnare il Messaggio del Pontefice nel tempo di preparazione alla Pasqua. 

“È il mio percorso dedicato al Papa in questi oltre dieci anni”, ha detto Maupal all'inaugurazione della mostra, realizzata in collaborazione con il Comune di Venezia. Sono opere create "attraverso una grafica comprensibile da tutti, anche da un bambino di 4 anni", ha affermato. Tutte "rappresentano i vari step che Papa Franceco ha affrontato in questi anni". 











Papa Francesco a Venezia: fotocronaca e link con brevi sintesi

 Nei link trovate una fotocronaca e una breve sintesi di quanto ha detto



A S. Marco: 



Con i giovani alla Salute: 




Con le detenute alla Giudecca: 


V Domenica di Pasqua - Gv 15,1-8

L’invito di questo Evangelo è quello di non concentrarsi su nostri difetti cercando di correggerli ma a vivere serenamente orientando la propria vita per il bene degli altri. È compito del Vignaiolo, del Padre, quello di "purificare" i tralci che siamo noi perché sia possibile che i nostri frutti maturino in pienezza.



Gli Evangeli del periodo pasquale ci conducono prima a comprendere le nuove caratteristiche della presenza di Gesù risorto nella Comunità dei discepoli, in quale forma o meglio quali siano le realtà nelle quali lui si fa presente facendoci superare le incertezze, lo scoramento dopo la sua morte. Le mani e il costato ferito che ci mostra, li troviamo oggi nelle situazioni di dolore nelle quali l’umanità costantemente sprofonda e l’invito, il “comando” datoci è quello di continuare a fare quello che hanno fatto le sue mani: continuare a “strappare” gli uomini dal mondo vecchio dominato dall’egoismo introducendoli nel Regno del Padre al cui centro c’è il bisogno dell’altro.

Il secondo passo che la Liturgia di questo periodo ci propone è quello di comprendere meglio quest’ultimo aspetto e, nelle ultime due domeniche, ci ha proposto due immagini: quella del “Pastore bello” che pone la sua vita davanti a noi invitandoci ad inserirsi in essa come i tralci in una vite (è l’immagine di oggi) e continuare così la sua missione.

Dopo la sua morte il Risorto ha insegnato ai suoi e a noi oggi, a vivere quella percezione di vuoto che la sua nuova realtà faceva inizialmente percepire come il luogo della fede e a rendersi conto che questa, da una parte costringe a prendere coscienza della propria libertà da vivere nella corresponsabilità, dall’altra preserva dal voler riempiere quel “vuoto” con degli idoli che preservi dall’angoscia e dalle incertezze. In fin dei conti è quanto è avvenuto anche dopo la creazione al termine della quale Dio si è “ritirato” lasciando all’uomo il compito di portare a compimento la sua opera.  

 

Come quella della scorsa settimana, anche la pericope di questa V Domenica inizia con Gesù che afferma: “Io sono” rivendicando così per sé il nome di quel Dio che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente, aggiungendo d’essere “la vera vite” e lo è perché porta frutto. Questa espressione ritorna per ben sette volte (numero perfetto che indica la completezza) ed altrettante volte ritorna il verbo rimanere o, meglio perché più evocativo, dimorare.

Perché non è un verbo che indica un passivo adeguarsi in uno status quo, bensì desidera indicare la quotidiana fatica di porre i propri passi sulle orme di Cristo che, quando si volse a guardare i due discepoli del Battista che lo seguivano, chiese loro che cosa cercassero e, questi, gli risposero: “Rabbì, dove dimori?” e Gesù rispose: “Venite e vedrete” (Gv 1,37-39). Lo stare dove dimora il Signore è accettare di inserirsi e rimanere nel suo agire che è quello del Padre. Un amore che avvolge e non è l’esperienza di un momento, ma l’accettare di inserirsi in una storia di amore sempre più dinamica. Sta anche nella nostra esperienza umana: solo quando un rapporto di amore prende continuità si fortifica e porta a condividere pienamente le vite allargandone sempre più i confini verso gli altri. Il rapporto con il Signore giunge a far dire a Paolo “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,19). Inoltre la sequela, che porta a dimorare nell’amore di Cristo, diviene il fondamento per poter rimanere come fratelli nella comunione ecclesiale. Si sarà così capaci di portare “molto frutto” ma senza questo rapporto intimo con Gesù non si può “fare nulla” come Lui stesso “non può far nulla da se stesso se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19). È il rendersi conto di questo “nulla” che offre al Padre la possibilità di agire attraverso il Figlio e, con Lui, attraverso noi nel mondo.

Troppo spesso si pensa di essere già discepoli, di essere già cristiani e di essere a posto così. Questo Evangelo ricorda che la vita cristiana è un cammino in cui, strada facendo, si impara a divenire discepoli. È un andare in cui la fecondità è possibile grazie a una potatura che consente l’innesto vivificante in Cristo, il vitigno dal quale fluisce la linfa vitale. Se un tralcio se ne stacca, finisce per seccarsi e non portare più frutto: diventa inutile. 

Ma anche si sa che in un tralcio dopo lo spuntare di tre grappoli, perché questi possano maturare al massimo, i viticci seguenti vanno con continuità eliminati. È quello che fa il Padre che, non tanto “pota” il tralcio che sta portando frutto, quanto “lo purifica” (questo il significato del termine greco usato) ed è questo l’agire del Padre con tutti i discepoli. Tutti ovviamente abbiamo dei difetti ma l’invito di questo Evangelo è quello di non concentrarsi su questi ma a vivere serenamente orientando la propria vita per il bene degli altri; le imperfezioni, i difetti, i limiti se sono d’impedimento nel portare più amore, sarà il Padre senza quasi ce ne accorgiamo che ci orienterà al loro superamento. È il compito del vignaiolo, non il nostro. Pensare di far nostro questo compito, porterebbe ad accentrare l’attenzione solo su noi stessi perdendo di vista il bisogno dell’altro e facendoci così perdere il flusso della linfa.

(BiGio)

Senza di me non potete far nulla. Nulla di cosa?

Senza di me non potete far nulla. Nulla di cosa? Oh, al contrario: molte cose facciamo senza di te: compriamo, vendiamo, entriamo in politica, conviviamo (sta per ‘prendiamo moglie e marito’) scaliamo posizioni, andiamo in vacanza, ci armiamo per la guerra… Non c’è mica bisogno di te!
Cos’è allora quel che potremmo fare se stessimo con Lui? 


Quel che fa Lui, mi vien da dire: amare, pazientare, ridare speranza, curare e guarire, sollevare chi è giù, beneficare, superare il limite, dare la vita… Tutte cose documentate da testimoni, discepoli ed evangelisti e non ci torniamo più su.
Semplice, chi non vorrebbe impostare la vita su questa linea? A quanto pare pochi e sempre meno. Questo mondo di tensioni e contrasti, tanto per intenderci, che sta stretto a tutti, tutti diciamo che è l’unica realtà e nel dirlo ‘vogliamo’ che questa sia la sola realtà. Questa ‘realtà’, è bene precisare, è una rappresentazione della mente, dei nostri occhi, dei convincimenti, interessi, giudizi, luoghi comuni, ragionamenti… ma ha la consistenza della nostra volontà egoica. Si sa che già stando a questi fattori la ‘realtà’ non è più univoca, c’è da lottare per mettersi d’accordo mentre la ‘realtà’ dell’uno cerca di prevalere su quella di altri. Ma purché sia lo spazio esistenziale in potere della nostra psiche, va bene.
Non va bene, invece. Anche la scienza della fisica subatomica, o fisica delle particelle, afferma cose interessanti per noi che siamo immersi nelle tre dimensioni ‘materiali’ e che altro?! Mentre la materia, dicono quegli esperti, sconfina, in ultima analisi si tramuta in ‘onda’, energia vibrante. Theilard de Chardin indagava il mistero della materia in ambito ecclesiale, morto in odore di eresia panteistica. Che c’entra? C’entra che Gesù faceva quel che diceva: cose concrete. La sua parola, lo Spirito, agiva sulla materia. Noi siamo propensi a ritenere i segni che Egli compiva come fatti magici, metafore. La stessa risurrezione, sì, ma che vorrà dire e poi come ci riguarda? Ricordiamo che anche Pietro e gli altri, dopo alcuni incontri col Risorto, tornarono all’attività di pescatori, ripresero la loro vita! E la Pentecoste, cioè il dono dei carismi, effetto e compimento della risurrezione, quanto è certezza di fede e di esperienza nella pratica ecclesiale di oggi? Perché è ‘dopo’ l’effusione dello Spirito di Cristo, che si è già dato in corpo e sangue, che i discepoli escono dal chiuso e dalla paura e vanno euforici ad annunciare… Ed è proprio per l’annuncio di Cristo che viene dato lo Spirito, mica per fare giochetti! Ah, qualcuno ci aveva provato, Simon mago, ma gli andò buca (cfr. At 8,9ss).
Sarà una sfida, per me lo è, ma la parola di Gesù o va presa sul serio o non va presa affatto. Che ce ne facciamo di una parola creduta solo a fini devozionali o ‘spirituali’ o per osservanza del precetto?
Gesù rivela una realtà ‘maggiorata’ per usare un termine corrente, e tale è per chi fa Pasqua, ‘passando’ attraverso di Lui, la porta, così che entra ed esce trovando pascolo, ripulito da quel di cui la coscienza rimprovera, come dice san Giovanni. Stessa cosa a Paolo, prima di essere san Paolo, che era un tipo mica tanto tranquillo, zelante e colto fariseo con quel suo scellerato programma verso i credenti, eppure cambiato in quattro e quattr’otto. E tale è la realtà di Cristo per chi gli rimane unito come il tralcio alla vite. Se le sue parole rimangono in noi ne siamo la continuazione, facciamo quel che Lui farebbe: bei grappoli di uva e il Padre ne sarebbe compiaciuto tanto da concederci tutto quel che gli chiediamo. Tutto?
Dunque, fammi pensare, io avrei da chiedergli… Giovanni, che ne sa, incoraggia: siccome “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”, tu occupati di essere nella verità davanti a Lui e prepara la lista.
 
(Valerio Febei e Rita)

La società dell'analgesico

Perché mai non dovremmo tutti desiderare un’anestesia eterna che ci doni l’incapacità di provare dolore, sofferenza o fatica? Considerata superficialmente, la questione pare indiscutibile: se esiste un modo per eliminare tutto ciò che mi fa soffrire, perché mai non dovrei buttarmici a capofitto? Se davvero esiste un “lubrificante universale” in grado di eliminare tutti gli attriti, gli spigoli e le asperità dell’esistenza, a chi devo dare tutti i miei soldi per averlo? 

Chi la pensa così fraintende due cose fondamentali: la prima è la funzione del dolore, la seconda è il rapporto tra la mente e la realtà. Sono due cose sulle quali bisogna soffermarsi un po’, per comprenderne le implicazioni. In una società in cui l’analgesico è sempre a portata di mano e il benessere è riuscito a penetrare ogni anfratto della vita, è molto facile fraintendere la natura e la funzione del dolore. L’idea che soffrire sia una malattia e non il sintomo di una malattia ha convinto molti che intervenendo sul dolore si riesca a debellare la malattia.

In alcuni casi è vero, e lo stesso vale per una delusione d’amore, il tradimento di un’amicizia, la morte di un parente: in tutti questi casi, la sofferenza che consegue al fatto potrebbe essere letta come un puro effetto collaterale e perciò meritevole di essere soppressa. Come un analgesico non andrà a inficiare la guarigione, altrettanto un antidepressivo non ritarderà l’elaborazione del lutto. Anzi: essi potrebbero facilitare, in una certa misura, la ripresa di una normalità che è stata messa in pausa da quell’inconveniente. In altre parole, il significato di quel dolore ci risulta già manifesto, e non ha altre funzioni se non quella di segnalare quel che già sappiamo.

Ma il dolore, tanto quello fisico quando quello psicologico ed emotivo, non è sempre così. Un dolore all’anca potrebbe segnalare ...


L'intera analisi di Rick DuFer continua a questo link:

https://www.viandanti.org/website/la-societa-dellanalgesico/



Il 24 aprile è stato l’anniversario del genocidio armeno e l’ideologia degli autori. La riflessione di Cristiano

La lezione del genocidio armeno è attualissima e riguarda la deriva che i nazionalismi e l’esclusivismo etnico possono causare. Ecco che emerge un’urgenza. La Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dall’imam dell’università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyeb, mira a porci al riparo anche da queste degenerazioni. La riflessione di Riccardo Cristiano

Quella del 24 aprile è una data importante per gli armeni e per il riconoscimento del loro genocidio, ancora negato dai turchi. Ricordarlo è importante anche per capirlo, e coglierne la lezione, sempre valida.

Nella storia delle terre che furono dell’impero ottomano c’è stata da subito confusione tra comunità religiosa e nazione. Lo dice la stessa della parola che fu assunta per tradurre questo vocabolo sconosciuto , “nazione”, introdotto in quei territori dalla spedizione napoleonica. Non esistendo, all’inizio fu usato il vocabolo “millet”, che indicava le comunità religiose che vivevano nell’impero ottomano. Ecco come mai nelle cronache del tempo si parla così di sovente di “nazione cristiana”. Tutto sommato all’inizio del Novecento l’indipendenza della Bulgaria fu proclamata in una chiesa, nella chiesa dei quaranta martiri. E anche l’indipendenza greca fu molto segnata dal fattore religioso, con transfer di cristiani e musulmani da un paese all’altro, per creare la nazionalista uniformità: per dire greci in Grecia, Turchia in Turchia si diceva basta minareti in Grecia, basta campanili in Turchia. Finiva un mondo problematico ma plurale.

Il sistema ottomano non era di certo un sistema perfetto, ma per molto tempo era stato preferibile a quello europeo che al tempo non prevedeva alcuna convivenza con l’Altro, tanto che sappiamo della triste storia delle espulsioni degli ebrei e dei mori dalla cattolicissima Spagna, tanto per fare l’esempio più noto. Gli ottomani invece ...


La riflessione di Ricardo Cristiano continua a questo link:

https://formiche.net/2024/04/genocidio-armeno-ideologia-degli-autori/#content



Un digiuno per la pace - Dialogo tra Fiammetta e Giovanni

Più si prolunga la guerra più la pace sembra irraggiungibile, e con il passare del tempo sembra anche aumentare il rischio di assuefazione, si finisce col fare l’abitudine alla guerra e a considerarla normale e inevitabile, una cosa con cui si deve convivere. Invece non è vero. La pace non è un miraggio o un’illusione, non è filosofia romantica da nostalgici hippies, la pace è un diritto dei popoli. Ed è un dovere delle istituzioni garantirla.


Siamo noi cittadini a potere/dovere imporre ai governanti un cambio di rotta con la liberazione di tutti gli ostaggi: Hamas tiene in ostaggio i rapiti del 7 ottobre e i gazawi; il governo israeliano ha in ostaggio i suoi stessi abitanti, che danno voce e corpo al dissenso, ma sono impossibilitati a sfiduciare il governo e a cambiare la classe politica dirigente. Tutti questi ostaggi vanno liberati e la precondizione per farlo è il cessate il fuoco, il cessare di ogni fuoco, di tutti i fuochi. Questa è la prima delle nostre richieste.
Bisogna ascoltare e vedere con gli occhi dell’altro. Sembra impossibile, ma è quanto avvenuto in Sudafrica quando nel 1990 si è fatto l’accordo per la fine dell’apartheid con l’ANC considerato fino ad allora un gruppo terroristico con a capo Nelson Mandela, “terrorista” liberato dopo 27 anni di detenzione. Lo stesso sembrava avvenire con gli accordi di Oslo del 1993 tra Israele e OLP, ma l’esito è stato diverso, l’avvio del processo di pace è stato fatto arenare determinando le premesse a tutto quel che è accaduto poi.

L'intero dialogo è a questo link:

Una riflessione sul 25 Aprile

Non è facile scrivere a proposito del 25 Aprile, il rischio è cadere nella retorica e nulla uccide la storia più della retorica. Cercheremo di proporre un percorso diverso che privilegi aspetti oggi poco noti o addirittura dimenticati di quegli anni.

Quale immagine abbiamo maggiormente presente quando parliamo della Liberazione d’Italia? Sicuramente le sfilate dei partigiani nelle città liberate oppure una delle tante fotografie nelle quali vediamo singoli partigiani pronti al combattimento. La guerra in montagna è stata una componente forte della lotta resistenziale che ha coinvolto decine e decine di migliaia di italiani dall’8 settembre del ’43 fino al 25 Aprile ‘45. I partigiani hanno scritto pagine epiche e innumerevoli sarebbero i fatti d’arme da ricordare. Eppure se ci fermassimo alla lotta partigiana in montagna o in città non avremmo un quadro completo della Resistenza, che chiama in causa altre memorie oggi da riscoprire. 

La riflessione del prof. Giancarlo Restelli continua a questo link:


Nel ventre della parola: Quando persino sdegno e rabbia possono diventare una preghiera

 «Tra le varie realtà presenti prima della creazione, oltre alla Toràh c'è il pentimento. Come possibile che ci fosse il pentimento prima del peccato? Nella Bibbia anche Dio si pente, e certo non aveva peccato. Il pentimento è qualche cosa che l'uomo tiene con sé, come si tiene in casa una medicina anche se non si è ammalati


Giona è il profeta più sottovalutato e incompreso della Bibbia e della letteratura religiosa antica. In questo nostro commento stiamo invece cercando, tenacemente, di prenderlo sul serio, quindi di non liquidare i suoi passaggi drammatici centrali derubricandoli a favola o umorismo. Come se elementi favolistici non fossero presenti in tutta la Bibbia, e l’umorismo non fosse uno dei linguaggi biblici per comunicare verità profonde e difficili che non sarebbero comprese se fossero comunicate sotto forma di teoremi teologici. Perché nella Bibbia, e nella vita, la favola e l’umorismo sono strade (‘metodo’) per dire con leggerezza realtà pesanti e dolorose, per addomesticarle, ‘creare dei legami’ e così farle accomodare come ospiti buoni dentro casa. ...

Questo brano di Paolo De Benedetti continua a questo link:

https://www.edc-online.org/it/italiano/blog/luigino-bruni/it-serie-avvenire/serie-bibliche/nel-ventre-della-parola/19313-quando-persino-sdegno-e-rabbia-possono-diventare-una-preghiera.html?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR1coZzXjtbhkINnhIXuhgSVQG4NgdFhKzI_WurQIPLxZZR1IVZHxjlKrzQ_aem_AZ_-zxOVaQ9jR1dQ4CI1rTJcf_jzvblleCPr3UPfLKTbrpfyq_Ha4xJLjzD6fxlZz0wuT3cNMG78sqli8EqmRQWU

L’Italia cresce dell’86% nell’export di armamenti pesanti

Si colloca al sesto posto a livello mondiale. L’altro dato sorprendente è che il 71% delle nostre armi va ai paesi mediorientali, Qatar, Egitto e Kuwait in testa. Gli Stati Uniti si confermano al vertice tra gli esportatori. Cala la Russia e precipitano gli acquisti africani. L’Europa raddoppia le importazioni


Se qualcuno aveva dei dubbi sul fatto che l’Italia scommetta sempre di più sulla vendita delle armi il rapporto Sipri, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, glieli toglie definitivamente. Roma si piazza al  sesto posto al mondo come esportatore di sistemi di armamento nel quinquennio 2019-2023 dopo Stati Uniti, Francia e Russia.

Ma il dato davvero sorprendente è la crescita esponenziale dell’export: +86%, passando dal 2,2% al 4,3% dei volumi complessivi internazionali esportati. Già nel report dell’anno scorso il Sipri certificava una nostra crescita del 45%.

Quest’anno ci indica come il paese con la crescita maggiore. Per dire, la Francia al secondo posto è cresciuta del 47%. Ma a preoccupare è conoscere dove vanno a finire le nostre armi: al primo posto troviamo il Qatar (27%), poi l’Egitto (21%) e al terzo il Kuwait (13%). Ma siamo anche il secondo esportatore in Turchia (rappresentiamo il 23% delle armi acquistate da Ankara) e il terzo in Israele (0,9%). Complessivamente il 71% delle esportazioni italiane è stato destinato al Medioriente....

L'articolo di Gianni Ballarini continua a questo link:

https://www.nigrizia.it/notizia/italia-armi-sipri-medioriente-crescita



Servizio sanitario nazionale. Turati (Un. Cattolica): “Manca il dibattito su come si vogliono davvero spendere le risorse”

 “Non credo che sia diffusa la percezione di alcune difficoltà del sistema, se non per la questione dei tempi di accesso. Aspetto sul quale tutti sono preoccupati”, afferma il docente di Scienza delle Finanze, secondo cui “non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi”. “Posto che nessuno sarebbe contrario ad aumentare la spesa per la sanità pubblica, il tema è da dove si recuperano le risorse”, aggiunge “convinto che dovremmo attivare processi di revisione della spesa che ci consentano di spendere meglio”


“Dal punto di vista finanziario non si può dire che si sia tagliato. Non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi. Quello che mi sembra continui a mancare è il dibattito su cosa si vuole davvero fare con le risorse che abbiamo”. Così Gilberto Turati, professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove coordina la laurea magistrale in Management dei Servizi e tiene seminari nell’ambito dei programmi di formazione dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi sanitari (Altems), commenta al Sir il contenuto dell’appello diffuso nei giorni scorsi da quattordici personalità del mondo della scienza e della ricerca a difesa del Servizio sanitario nazionale.

L'intervista a cura di Alberto Baviera continua a questo link:

https://www.agensir.it/italia/2024/04/06/servizio-sanitario-nazionale-turati-un-cattolica-manca-il-dibattito-su-come-si-vogliono-davvero-spendere-le-risorse/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2

Vite ferme: storie di migranti in attesa

Si parla molto, e molto si scrive, di asilo, di rifugiati, di politiche di accoglienza e più ancora di non-accoglienza. Al netto delle trappole del senso comune e delle retoriche ostili, quelle che confondono immigrati e rifugiati, parlano di una crescita “esponenziale” dell’immigrazione senza guardare i dati, pensano che l’Italia sia il crocevia delle migrazioni verso l’Europa a causa della sua posizione geografica, anche i discorsi più seri e fondati trattano quasi sempre del fenomeno dall’alto e dall’esterno. 

Criticano le politiche governative, e ci vuol poco; fanno le pulci al sistema italiano di gestione dell’asilo, anche in questo caso con poca fatica; attaccano l’accoglienza “umanitaria”, che non piace agli intellettuali “impegnati” e ai loro epigoni, ma raramente hanno osservato da vicino e dall’interno la vita dei centri di accoglienza e l’esperienza quotidiana delle persone lì ospitate.

Il libro di Paolo Boccagni da poco pubblicato ha invece il merito e insieme l’originalità di raccontare un’esperienza di osservazione diretta, ravvicinata e prolungata della vita di numerosi richiedenti asilo accolti in una struttura della città di Trento.

Il filo conduttore del lavoro è rappresentato dagli spazi del centro, dalla portineria, all’ufficio degli operatori, alle camere che ospitano le persone accolte. Nelle stanze prende forma l’esistenza sospesa delle persone, di cui Boccagni evita volutamente di raccontare le origini e la storia, per concentrarsi sulla loro quotidianità: come vivono lo spazio loro assegnato, come interagiscono con gli operatori e con gli altri ospiti, come si misurano con le regole della convivenza, come ...

L'intera recensione di Maurizio Ambrosini è a questo link:

https://www.rivistailmulino.it/a/vite-ferme-storie-di-migranti-in-attesa?&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=Strada+Maggiore+37+%7C+Migrazioni%2C+attese%2C+respingimenti+%5B9536%5D



 

UE: popoli, non populismi

Otto vescovi del confine che spaccava l’Europa nella prima metà del Novecento (Francia-Germania) si sono ritrovati a Sey-Chazelle (Mosella, Francia) l’8 aprile. Nella casa di uno dei fondatori dell’Europa unita, Robert Schuman, hanno firmato una lettera pastorale dal titolo: Un nuovo respiro per l’Europa


I pastori del Lussemburgo (Jean-Claude Hollerich), di Metz (Philippe Ballot), di Verdun (Jean-Paul Gusching), di Troyes (Marc Stenger), di Treviri (Stephan Ackermann), di Liegi (Jean-Pierre Delville), di Nancy e Toul (Pierre-Yves Michel) e Namur (Pierre Warin), città e sedi che interessano il Lussemburgo, la Francia, il Belgio e la Germania, hanno voluto richiamare i loro fedeli e i cittadini dei confini alla sfida rappresentata dalle prossime elezioni europee del 9 giugno.

Il reportage di Lorenzo Prezzi è a questo link:

https://www.settimananews.it/vescovi/ue-vescovi-confine-popoli-non-populismi/?utm_source=newsletter-2024-04-16

 

L’inclusione che esclude. Perché non ci interroghiamo sulla classe sociale?

La distanza tra le classi sociali sta diventando sempre più ampia. In particolare, è assente dal dibattito italiano “la classe sociale d’origine”. Eppure, numerosi studi hanno dimostrato che tale variabile ha un impatto significativo, tra i maggiori, sulle traiettorie di carriera. tra gli adolescenti americani cresce la preferenza per una società più egualitaria e più giusta. Mi piace questa speranza in un mondo così, dove la classe sociale non è il miglior predittore del destino di una persona.


Cosa guadagna spazio e cosa lo perde nel dibattito sulle tematiche dell’inclusione e dei diritti civili? Mai come oggi, il tema della parità di genere è al centro del dibattito e, negli ultimi anni, hanno guadagnato molto spazio le tematiche Lgbtq+. In terza posizione, in crescita, il vasto tema delle disabilità e – a seguire – l’integrazione etnica e culturale.

Il 99% delle controversie sulle tematiche legate all’inclusione derivano dal modello “Big 8” concepito vent’anni fa da Deborah Plummer: orientamento sessuale, genere, nazionalità, età, etnia, disabilità mentale o fisica, religione e ruolo organizzativo.
Nelle aziende, la totalità delle azioni di intervento è su questi temi. Il nobile sforzo è quello di “neutralizzare” gli impatti negativi che queste dimensioni possono avere sulle traiettorie di carriera e sulle chance di occupazione. Se un’azienda non lo facesse, saremmo autorizzati a dire che – questa azienda – manifesta comportamenti discriminatori.
Ma, cosa manca in questo elenco?

L'intera analisi di Andrea Laudadio è a questo link:

https://formiche.net/2024/04/linclusione-che-esclude-perche-non-ci-interroghiamo-sulla-classe-sociale-scrive-laudadio/#content





Oggi è l'Earth Day: i 10 Comandamenti Green che ognuno di noi dovrebbe rispettare per salvare il Pianeta in "chiave artistica"

In occasione dell'Earth Day, vi suggeriamo una serie di comandamenti che ognuno di noi dovrebbe seguire ogni giorno per proteggere il nostro splendido e vulnerabile Pianeta

Il nostro Pianeta deve fare i conti con le crescenti minacce legate ai comportamenti dell’uomo, le cui conseguenze spaventose sono sotto gli occhi di tutti. Il tempo per salvare la Terra sta per scadere (come ribadito dagli scienziati di tutto il mondo) e oggi più che mai occorre ripensare le nostre azioni, a partire da quelle quotidiane che spesso diamo per scontate. Per sensibilizzare tutti sul futuro del Pianeta che ci ospita, greenMe ha lanciato l’iniziativa “Comandamenti Green”.

Si tratta di 10 comandamenti che tutti noi dovremmo interiorizzare e rispettare per agire concretamente, partendo dalla consapevolezza che non esiste un Pianeta B, come sottolineato più volte dagli attivisti che lottano contro i cambiamenti climatici.Ed è proprio da questa questa presa di coscienza che dovremmo ricominciare a prenderci cura della nostra cara Terra. Come? Sforzandoci il più possibile di proteggerla e non inquinarla per renderla un posto migliore sia per noi che per le altre specie animali e vegetali che vi abitano.


I 10 “Comandamenti Green”, grazie al talento e alla creatività dell’illustratrice Alessandra Loreti, sono proposti in chiave artistica a questo link:

https://www.greenme.it/ambiente/earth-day-comandamenti-green-salvare-pianeta/


Dal tramonto di oggi inizia la festa di Pasqua ebraica

È cosa nota che la festa di Pesach celebra la liberazione degli ebrei dall’Egitto. Se è chiaro da cosa sono stati liberati, la domanda che ci si può porre è: sono liberi di fare cosa? Liberi di essere chi? Di stare dove?


La libertà dalla schiavitù egiziana figura nel primo dei Dieci Comandamenti: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù” (Es. 20:2; Deut. 5:6).Nel quarto comandamento, quello sull’osservanza dello Shabbat, è scritto: “Il settimo giorno è Shabbat per il Signore tuo Dio, non potrai fare alcuna opera né tu, né tuo figlio né tua figlia, né il tuo servo né la tua serva (…) in modo che il tuo servo e la tua serva possano riposare come tu stesso, e ti ricorderai che schiavo fosti in terra d’Egitto e il Signore tuo Dio ti fece uscire da là con mano forte e braccio disteso” (Deut. 5:12-15). Numerosi sono i precetti della Torah che traggono la loro motivazione dall’uscita dall’Egitto, o per differenziarsi dai comportamenti e gli usi egiziani o per la consapevolezza che gli ebrei acquisirono vivendo in quel paese (per esempio, la condizione di straniero). Se è chiaro da cosa siamo stati liberati, la domanda che ci si può porre è: Siamo liberi di fare cosa? Liberi di essere chi? Di stare dove? 

La riflessione di Rav Gianfranco Di Segni continua a questo link:




Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 20 aprile




IV Domenica di Pasqua - Gv 10,11-18: Il pastore "bello"

La proposta di Gesù è quella di essere come lui una persona “bella”, capace cioè di vivere e trasmette in pienezza l’amore del Padre a tutti coloro che incontra fino al dono della propria vita, “consumando” la propria vita, vivendo in questo modo fino alla fine. 



In questo periodo pasquale la Liturgia ci accompagna a piccoli passi a comprendere che Gesù non ha mai lasciato i suoi che si accorgono come stia in mezzo a loro, come la sua presenza sia stabile, non eterea. C’è poi l’invito a riconoscerlo non attraverso il suo volto, ma nel suo corpo con i segni della crocifissione, che oggi ci appaiono in una umanità provata dal dolore, dalle ferite inflitte dall’egoismo, dalla prevaricazione del potere, dal giocare con la vita delle persone nascondendosi dietro alle ideologie o alle strategie per raggiungere obiettivi politici o strategici. I molti conflitti di oggi ce lo dicono ma non serve andare lontano, anche all’interno delle nostre Comunità questo accade quando si vuole far passare le proprie idee, quando non si sa sostenere il confronto e all’autorevolezza si fa sostituire una autorità a volte senza fondamenta che la fa rifiutare o, peggio, subire passivamente. L’invito di tenere fisso lo sguardo sulle sue mani e sul suo costato è anche per noi; in questo modo potremo avere sempre davanti agli occhi quello che hanno fatto quelle mani che hanno costruito soltanto amore. Avremo così sempre presente il compito che il Risorto ci ha dato: mostrare a tutto il mondo le sue mani nelle nostre mani. Questo ci permetterà di strappare (questa è la radice del verbo “perdonare”) tutti i popoli dal mondo vecchio nel quale domina l’ego del potere e non del servizio che, invece, è la caratteristica del Regno del Padre che Gesù ha portato fra di noi e che ci chiede di implementare continuamente. È un compito che il Risorto ha affidato alla Comunità, non ai singoli e ogni Comunità dovrebbe costantemente verificare che cosa ha fatto e sta facendo di questo mandato ricevuto. 

All’interno di questa cornice, l’Evangelo oggi ci propone Gesù che si definisce come il “buon pastore”. La nostra mente corre subito all’immagine bucolica del Signore con una pecorella sulle spalle, ma è una immagine indotta da una traduzione errata. Infatti il termine greco “kalos” non significa “buono” bensì “bello”, condensando in questo aggettivo la somma di tutte le qualità che portano a definire così una persona, mentre l’altro aggettivo non è onnicomprensivo. 

C’è una qualità sopra tutte le altre che qualifica Gesù ed è quella che lo porta a dare la propria vita per le pecore. Anche qui però la traduzione non aiuta a comprendere il vero senso profondo. Il verbo greco utilizzato (tithemi) significa “porre”. Parafrasando: Gesù afferma che lui “pone la propria vita davanti alle pecore” e, con questo, intende proporre di essere come lui una persona “bella”, capace cioè di vivere e trasmette in pienezza l’amore del Padre a tutti coloro che incontra fino al dono della propria vita, “consumando” la propria vita, vivendo in questo modo fino alla fine. 

Di nuovo l’accento cade sulla differenza tra chi guarda solo ai propri interessi tirando a campare, guadagnando senza preoccuparsi di quanto gli accade attorno e chi, invece, guardando alle situazioni degli uomini che incontra, riversa su di loro l’amore del Padre senza pensare a se stesso. I primi sono i lupi e i mercenari che abbandonano il gregge al loro destino.

Questo essere da parte di Gesù segno efficace dell’amore del Padre tra gli uomini, l’evangelista Giovanni lo sottolinea anche facendo iniziare il primo versetto della pericope odierna con quel “Io sono” per richiamare il Nome di Dio. Quando Mosè chiese a Dio quale fosse il suo nome, ricevette come risposta dal roveto ardente “Io sono colui che sono”, vale a dire “Non importa tanto il mio nome ma quello che faccio per te sempre, giorno dopo giorno”.

 

Gesù riprende: “Io sono il pastore, quello bello perché conosco le mie pecore, le mie pecore conoscono me, io conoscoil Padre, il Padre conosce me”. Questo verbo nella Scrittura è sempre utilizzato per sottolineare quello realizza il rapporto sponsale tra due persone: due vite che si sintonizzano, “ponendo” (“dando”) reciprocamente la propria vita a favore dell’altro, perché ambedue possano raggiungere quella pienezza alla quale sono chiamati. 

Gesù continua: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare”. Qui si deve fare attenzione: poco prima (vv 3-4) ha affermato che lui è venuto per condurre fuori le pecore da ogni recinto e non desidera affatto rinchiuderle tutte in un nuovo ovile. Il “comando” che ha ricevuto dal Padre è quello “tirar fuori” tutti gli uomini da quei recinti che le tradizioni religiose e laiche costruiscono attorno a loro per garantirsene il controllo.

Tutte ascolteranno la mia voce” cioè realizzeranno la proposta di una nuova umanità dove al centro sta il bisogno dell’altro e non il ristretto proprio interesse personale. Questo è quel mettere la propria vita a disposizione di tutti in un atto libero di amore che realizza l’uomo “bello” perché viene ad essere nella pienezza della misericordia del Padre e suo strumento concreto nella nostra realtà quotidiana.

(BiGio)

Ognuno vale quanto la vita di Dio

Si parla di un unico pastore che è Cristo, ma non di un unico ovile. Ognuno, attirato dal Signore, è chiamato a trovare la sua strada verso di Lui, a compiere la propria umanità. Ognuno ha la possibilità, nella sua vita, di ascoltare la sua voce, di conoscere il Pastore. Il cammino è verso una pienezza di umanità, sicché anche chi professa un'altra fede, o nessuna fede, non viene meno a una vocazione, non è escluso dall'essere sua pecora.


«Io sono il buon pastore»: dice Gesù. È necessario evitare una concezione sdolcinata, bucolica, "poetica" dell’immagine del «pastore». Infatti, in questi versetti Gesù lo presenta, innanzitutto, come una figura drammatica: il pastore dà la vita per le pecore. Ed è proprio ciò che lo caratterizza di più e lo distingue dai pastori solo di nome: i «mercenari», che scelgono di salvarsi e lasciano così le pecore in balia del lupo. In effetti, la vita di Gesù non è stata lieve e romantica: ha affrontato il lupo, che disperde il gregge, ha affrontato i mercenari, quelli che si presentano con i titoli accademici di pastori, ma che si interessano solo di se stessi. Gesù ha affrontato questi per difendere le pecore, e ha accettato anche la morte per proteggerle. Ha custodito il gregge anche quando è arrivato il lupo, difendendolo fino alla morte. Gesù non si è sacrificato, si è offerto, «ha deposto» (letteralmente) la sua vita: per la vita delle sue pecore.
 
Non dobbiamo ignorare la drammaticità, non dobbiamo evacuare le categorie del peccato, del male, perché oggi non sono più "moderne". Gesù vi ha lottato contro, e ha donato la sua vita per vincerle ed eliminarle. La drammaticità diventa cifra del suo amore e della sua opera. E quando guardiamo il male e il peccato di oggi - forse più grandi che ai tempi di Gesù - dobbiamo vedervi il pastore che li affronta, che non si salva, perché con l’autosalvezza non avrebbe salvato più nessuno; ma rimane lì, con atto di gratuità e di dono; di un bene e di un voler bene così grandi da vincere il lupo, con la propria morte.
 
La realtà del pastore «buono», cioè vero, autentico, che difende le pecore con la propria vita, sta nel fatto che Egli non esercita una semplice funzione nei confronti delle pecore, ma vive con esse un legame personale e di amore: «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». Ed è un legame profondamente teologico, cioè fondato sulla relazione del buon pastore con il Padre: «Così come il Padre conosce me e io conosco il Padre». Per questo Gesù non svolge solo un ruolo e un dovere nei confronti delle pecore, ma vive una relazione d'amore con esse: unica ragione per la quale si possa offrire la vita realmente per salvaguardare la vita delle pecore.
Se non si vive una relazione d'amore con il Padre, se non ci si lascia amare da Lui, si è solo funzionari del sacro, araldi di una morale disumana, custodi di un potere religioso coercitivo, invece che servitori del bene di tutti, soprattutto dei più fragili e di più "dispersi". Gesù non ci ama per volontarismo e protagonismo, ma perché, dall’eternità, vive l'amore del Padre, e non ha potuto fare a meno di venire al mondo per amare noi, povere persone umane, «così come» in Lui vive l'amore del Padre.
Perché, sappiamo, il vero amore è l'opposto della chiusura in sé esclusivista. L'amore è fatto per abbracciare fuori della propria relazione soprattutto chi ha più bisogno di essere amato. Lo stesso fatto di generare dei figli risponde a questa caratteristica dell'amore.
 
La dimensione inclusiva dell'amore porta Gesù a rivelare di «avere altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare e ascolteranno la mia voce, e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». La punteggiatura è diversa nel testo letterale, e lega maggiormente l'ascolto della voce del pastore a queste altre pecore che Lui deve guidare.
Gesù è il pastore universale. Non ci sono esclusioni. Possono esserci recinti diversi, ma Lui va a costituire l'unico gregge perché è il pastore di tutti. Va a formarsi un popolo composito che supera i recinti religiosi. È nella realtà della glorificazione attraverso la croce che si crea la dinamica di un abbraccio che non esclude più nessuno: «Quando sarò innalzato la terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Guardando a Lui, al dono della sua vita per amore nostro, ci si scopre tutti appartenenti al suo gregge. Qui si parla di un unico pastore che è Cristo, ma non di un unico ovile. Ognuno, attirato dal Signore, è chiamato a trovare la sua strada verso di Lui, a compiere la propria umanità. Ognuno ha la possibilità, nella sua vita, di ascoltare la sua voce, di conoscere il Pastore. Il cammino è verso una pienezza di umanità, sicché anche chi professa un'altra fede, o nessuna fede, non viene meno a una vocazione, non è escluso dall'essere sua pecora.
 
Gesù dichiara di avere «il potere di dare la propria vita e di riprenderla di nuovo». È l'unico potere che si attribuisce, ed è pure un potere che è privo di qualsiasi volontà di potenza. Gesù si fa protagonista della propria vita, facendola diventare tutto ed è esclusivamente dono. E dono, come abbiamo visto, per tutti, senza esclusione, anche per i più lontani e ignari. A Gesù la vita non è tolta: è Lui che liberamente la offre, la pone, donandola con tutta la passione che gli viene dall'amore e dalla cura delle pecore.
«Per questo il Padre mi ama»: Gesù ha coscienza ed esperienza dell'amore del Padre non perché si è custodito in quanto Figlio di Dio, ma perché si è speso, si è "perso" per le pecore. È dall'eternità nell'intimità d'amore di Dio (cfr. Gv 1,18), ma ha perduto tutto per non perdere nemmeno una delle pecore affidategli. Tutta la gloria di Dio è lo scambio appassionato tra il Padre e il Figlio nel compiacersi che, con il dono della vita umana e divina del Figlio, ogni persona, di qualsiasi epoca, è custodita da Dio e arriverà alla pienezza di vita umana.
 
(Alberto Vianello)