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Dichiarazione e intervista del Presidente della Cei dopo il voto: «Agli eletti chiediamo responsabilità»

«Purtroppo, dobbiamo registrare con preoccupazione il crescente astensionismo», che «è il sintomo di un disagio» che «deve essere ascoltato»

 Ecco il testo della dichiarazione del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, dopo le elezioni politiche di domenica 25 settembre 2022:

“L’Italia ha bisogno dell’impegno di ciascuno, di responsabilità e di partecipazione”. Nell’appello del Consiglio Episcopale Permanente, diffuso alla vigilia delle elezioni, abbiamo sottolineato quanto sia importante essere partecipi del futuro del Paese. Purtroppo, dobbiamo registrare con preoccupazione il crescente astensionismo, che ha caratterizzato questa tornata elettorale, raggiungendo livelli mai visti in passato. È il sintomo di un disagio che non può essere archiviato con superficialità e che deve invece essere ascoltato. Per questo, rinnoviamo con ancora maggiore convinzione l’invito a “essere protagonisti del futuro”, nella consapevolezza che sia necessario ricostruire un tessuto di relazioni umane, di cui anche la politica non può fare a meno.

Agli eletti chiediamo di svolgere il loro mandato come “un’alta responsabilità”, al servizio di tutti, a cominciare dai più deboli e meno garantiti. Come abbiamo ricordato nell’appello, “l’agenda dei problemi del nostro Paese è fitta: le povertà in aumento costante e preoccupante, l’inverno demografico, la protezione degli anziani, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, l’accoglienza, la tutela, la promozione e l’integrazione dei migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche, le riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale”. Sono alcune delle sfide che il Paese è chiamato ad affrontare fin da subito. Senza dimenticare che la guerra in corso e le sue pesanti conseguenze richiedono un impegno di tutti e in piena sintonia con l’Europa.

La Chiesa, come già ribadito, “continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità”. Da parte sua, nel rispetto delle dinamiche democratiche e nella distinzione dei ruoli, non farà mancare il proprio contributo per la promozione di una società più giusta e inclusiva.


Ecco l'intervista che ha rilasciato ad Avvenire:


Cardinale Matteo Zuppi, dopo il voto esultano i vincitori, ma c’è anche chi ha detto che - visto il risultato elettorale - il 25 settembre è stato un brutto giorno per l’Italia. Qual è il suo pensiero al riguardo?

«Quando gli italiani scelgono il loro futuro non è mai un brutto giorno. È sempre l’esercizio della democrazia. E noi dobbiamo credere alla forza e alla bellezza della democrazia e ascoltare le domande che questo voto contiene, in un momento così importante per tutti».
È pronta la risposta dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Senza esitazioni. Intorno c’è la "sua" Trastevere. Qui il porporato è stato prima viceparroco e poi parroco per quasi trent’anni. E qui dà appuntamento ad Avvenire, per la prima intervista dopo le elezioni. Il clima è informale, come è nel suo stile, seduto al tavolino di un caffè, mentre la gente del quartiere passa, lo riconosce e lo saluta: "Bentornato, don Matteo. È sempre un piacere vederti qui". Ma il dialogo è a 360 gradi, su tutti i temi dell’attualità.

Dunque, eminenza, nessun allarmismo preventivo, pare di comprendere...


L'intera intervista a cura di Mimmo Muolo a questo link:

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/zuppi-intervista-dopo-elezioni


Papa Francesco invita i giovani alla prossima GMG: “Tutti a Lisbona per un nuovo inizio dei giovani e dell’umanità”

Nel Messaggio per la Gmg, che quest’anno si celebra a livello diocesano e l’anno prossimo a Lisbona, il Papa esorta i giovani ad imparare dalla “fretta buona” di Maria per andare incontro alle necessità e ai bisogni dei fratelli. La “fretta cattiva” è quella invece dei giovani immobili davanti allo specchio, a contemplare le loro immagini, o “intrappolati” nelle reti

“Spero, e credo fortemente, che l’esperienza che molti di voi vivranno a Lisbona nell’agosto dell’anno prossimo rappresenterà un nuovo inizio per voi giovani e – con voi – per l’umanità intera”. È l’auspicio del Papa, all’inizio del Messaggio inviato ai giovani e alle giovani del mondo per la XXXVII Giornata mondiale della gioventù che sarà celebrata nelle Chiese particolari il prossimo 20 novembre e a livello internazionale a Lisbona dal 1° al 6 di agosto 2023, sul tema “Maria si alzò e andò in fretta” (Lc 1,39). In questi ultimi tempi così difficili, in cui l’umanità, già provata dal trauma della pandemia, è straziata dal dramma della guerra, Maria riapre per tutti e in particolare per voi, giovani come lei, la via della prossimità e dell’incontro”, scrive Francesco nel messaggio, al centro del quale c’è un verbo – alzarsi – che assume anche il significato di “risorgere”, “risvegliarsi alla vita”. Maria, dopo l’annunciazione – spiega il Papa – “avrebbe potuto concentrarsi su sé stessa, sulle preoccupazioni e i timori dovuti alla sua nuova condizione. Invece no, si alza e si mette in movimento, perché è certa che i piani di Dio siano il miglior progetto possibile per la sua vita”. In questo modo, “Maria diventa tempio di Dio, immagine della Chiesa in cammino, la Chiesa che esce e si mette al servizio, la Chiesa portatrice della Buona Novella”. Maria, in particolare, “è modello dei giovani in movimento, non immobili davanti allo specchio a contemplare la propria immagine o ‘intrappolati’ nelle reti. È tutta proiettata verso l’esterno. È la donna pasquale, in uno stato permanente di esodo, di uscita da sé verso il grande Altro che è Dio e verso gli altri, i fratelli e le sorelle, soprattutto quelli più bisognosi”. “Ognuno di voi può chiedersi”, la domanda ai giovani: “Come reagisco di fronte alle necessità che vedo intorno a me? Penso subito a una giustificazione per disimpegnarmi, oppure mi interesso e mi rendo disponibile? Certo, non potete risolvere tutti i problemi del mondo. Ma magari potete iniziare da quelli di chi vi sta più vicino, dalle questioni del vostro territorio”. Come ha fatto Madre Teresa.


La presentazione del messaggio del Papa a cura di  a questo link:

https://www.agensir.it/chiesa/2022/09/12/papa-francesco-tutti-a-lisbona-per-un-nuovo-inizio-dei-giovani-e-dellumanita/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2


Prove di guerra nel deserto del Sahara

Nel Sahara occidentale si sta alzando la tensione tra il Marocco e il movimento nazionalista del Fronte Polisario, sostenuto dall’Algeria. Un conflitto «congelato» dal 1991, ma mai del tutto risolto


Con l’attenzione di tutta Europa rivolta verso l’Ucraina, pochi hanno notato le tensioni che si stanno alzando nel Mediterraneo occidentale, tra Marocco e Algeria. Eppure gli scontri intorno al Sahara occidentale, la cosiddetta ultima colonia africana, hanno recentemente causato scintille che rischiano di riaccendere i bracieri della guerra nella regione, tenuti sotto controllo dal 1991 ma mai completamente spenti.
Il conflitto attorno al Sahara occidentale è infatti quello che gli esperti chiamano un conflitto congelato. Perché parlarne, dunque? Per via del rischio concreto di avere un’altra guerra nel vicinato europeo e per le conseguenze che questa avrebbe sulla vita di milioni di persone, innanzitutto. Ma anche sui mercati energetici e alimentari del Mediterraneo allargato, già nel caos per via della guerra tra Russia e Ucraina. D’altra parte gli stessi esperti sarebbero i primi a far notare che anche i conflitti congelati possono accendersi improvvisamente e violentemente, come dimostra il caso del Nagorno-Karabakh.


La riflessione di Bernardo Monzani a questo link:


Ue: una persona su 5 a rischio povertà. L’allarme di Caritas Europa: “Urgente fare di più”

Eurostat ha tracciato un quadro preoccupante: 95 milioni di europei rischiano l’indigenza, mentre i prezzi crescono, l’economia frena e scarseggia il lavoro in diversi Paesi Ue. Maria Nyman, segretario generale di Caritas Europa, spiega al Sir che prima la pandemia, e ora la guerra, hanno messo in ginocchio tante famiglie. E afferma: “Occorre affrontare le cause profonde della povertà”


Un abitante su cinque dell’Ue è a rischio di povertà o esclusione sociale: è la fotografia allarmante che Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione europea, ha rilanciato qualche giorno fa, sui dati del 2021. Significa che 95,4 milioni di persone, cioè il 21,7% della popolazione, vive in una famiglia in difficoltà o sul filo del rasoio: 73,7 milioni a rischio di povertà, 27 milioni gravemente svantaggiate dal punto di vista materiale e sociale. Tra quei 95,4 milioni di persone, 29,3 milioni vivono in una famiglia a bassa intensità di lavoro. Abbiamo cercato un riscontro a questi dati in una intervista con Maria Nyman, segretario generale di Caritas Europa, la rete continentale delle associazioni Caritas, istituzione della Chiesa cattolica che si spende sul territorio per rispondere ai bisogni dei poveri e degli emarginati. Caritas Europa con 49 organizzazioni associate in 46 Paesi del continente europeo lavora con persone di tutte le fedi per contrastare ogni tipo di esclusione sociale.

Il quadro tracciato da Eurostat è allarmante: che cosa ne pensa?L’esperienza sul terreno delle nostre Caritas e delle persone con cui lavoriamo conferma questa immagine. Già con la pandemia il numero di persone che si sono rivolte agli sportelli Caritas è cresciuto e anche molto. Persone che hanno perso il lavoro e che mai avrebbero immaginato di rivolgersi a un servizio come la Caritas si sono ritrovate in situazioni tali da non riuscire a coprire le spese della famiglia. Cruciale è stata la questione delle protezioni sociali: molte persone non avevano reti di sicurezza necessarie per affrontare una tale situazione, perché fuori dal mercato del lavoro regolare, perché “irregolari”, o perché salariate ma con stipendi troppo bassi. Nel 2020 le misure adottate dai governi e a livello europeo, a partire dal Sure (Strumento europeo per il contrasto alla disoccupazione durante l’emergenza – ndr) e dalla sospensione del Patto di stabilità, hanno mitigato l’aumento della povertà.

Ma le prospettive sono tutt’altro che rosee: lo verificate anche voi?
Sì, quello che vediamo ora ...


L'intera intervista a cura di Sarah Numico a questo link:

https://www.agensir.it/europa/2022/09/26/ue-una-persona-su-5-a-rischio-poverta-lallarme-di-caritas-europa-urgente-fare-di-piu/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2


Conflitto tra Armenia e Azerbaigian: perché proprio in questo momento, perché questa volta è più preoccupante e c’entra anche la debolezza di Mosca

Per due giorni, a partire dalla notte tra il 12 e 13 settembre e fino alla sera del 14 settembre ci sono stati intensi scontri a fuoco lungo estesi settori del confine tra Armenia e Azerbaigian. Attacchi con artiglieria e droni dell’Azerbaigian hanno colpito non solo posizioni di confine, ma hanno raggiunto anche centri abitati armeni che non si trovano in immediata prossimità del confine. Ufficialmente gli scontri hanno causato 77 morti di soldati dell’Azerbaigian, e 135 in Armenia (numeri non definitivi), con feriti e oltre 7.600 persone evacuate per sicurezza dai centri abitati armeni più esposti all’attacco. Sebbene l’Azerbaigian abbia presentato questa azione militare come una risposta a provocazioni armene, tutto fa pensare a un deliberato intervento di Baku per evidenziare la propria posizione di forza e imporre sostanzialmente i propri termini all’Armenia nella fase avanzata dei negoziati di pace attualmente in corso. Un cessate-il-fuoco tra le parti sembra per ora reggere, ma la situazione rimane tesa; in seguito a questi eventi, l’Azerbaigian ha preso il controllo di alcune alture in aree di confine armene. 



Le violenze tra armeni e azeri erano iniziate negli anni finali dell’URSS ed erano confluite in una vera e propria guerra su ampia scala tra il 1992 e il 1994 in Nagorno Karabakh, una regione autonoma a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaigian. Quella guerra si era conclusa con una vittoria della parte armena che era riuscita a ottenere il controllo non solo del Nagorno Karabakh, ma anche di ampie aree circostanti non abitate da armeni, causando centinaia di migliaia di sfollati azeri. In assenza di un accordo di pace, questa situazione si è consolidata per oltre due decenni: un governo de facto in Nagorno Karabakh aiutato dall’Armenia ha continuato a controllare sia l’ex-regione autonoma sia i territori adiacenti, impedendo il ritorno della popolazione azera.


In questi anni, l’Azerbaigian – la cui popolazione è oltre il triplo di quella dell’Armenia –  si è notevolmente rafforzato dal punto di vista economico grazie all’esportazione di idrocarburi e ha dedicato crescenti risorse alle proprie forze armate, rendendo così sempre più evidente la disparità di forze tra i paesi vicini. Nell’autunno del 2020, l’Azerbaigian ha lanciato un’imponente offensiva per riprendere il controllo sull’intera area di conflitto, che si è conclusa dopo 44 giorni di guerra che hanno causato oltre 7.000 morti con una netta sconfitta della parte armena. In seguito all’armistizio raggiunto il 9 novembre del 2020 grazie alla mediazione della Russia, l’Azerbaigian ha preso il controllo di tutti i territori adiacenti il Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma storicamente abitata da armeni. La guerra ha causato decine di migliaia di sfollati armeni, ma buona parte della popolazione armena del Nagorno Karabakh (circa 140.000 persone prima della guerra del 2020) continua a vivere nella regione protetta da un contingente di forze di pace della Federazione russa, in un contesto che pare sempre più fragile.

Gli eventi di questi giorni sono preoccupanti ...


L'intero servizio di Giorgio Comai a questo link:


“L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”: la nuova dimensione conflittuale dei Fridays For Future

“Col vuoto delle generazioni precedenti facciamo i conti ogni giorno. Ma se prima ci limitavamo ad accusare chi c’è stato prima di noi, ora ne comprendiamo le ragioni”



“Dopo quattro anni di scioperi, le persone si stanno svegliando, ma i responsabili politici sono ancora fermi”, afferma Alice Quattrocchi, di Catania. “Abbiamo organizzato marce e incontrato politici, ci siamo impegnati tutti i giorni per avere un impatto, oltre che per informare le persone di cosa succederà nei prossimi decenni. Oggi abbiamo davanti nuove elezioni, ma la crisi climatica è ancora assente dal dibattito. Più noi parliamo di clima, più i principali partiti sembrano fare a gara per prenderci in giro con belle parole a favore dell’ambiente, senza nessun piano completo, ma anzi chiedendo nuovi rigassificatori o altre misure che accelerano la catastrofe climatica”.

Il movimento dei Fridays For Future si trova, già così giovane, a dover maturare per non essere strumentalizzato dai partiti nella solita maniera paternalistica, capaci esclusivamente di blandire i giovani con vaghe promesse elettorali e pragmatismo di maniera. A tal proposito particolarmente significativo è il recente incontro organizzato da Il Fatto Quotidiano: ogni volta che le puntuali osservazioni dei portavoce FFF sollevavano aspetti concreti (rigassificatori, rinnovabili, settimana breve) dall’altra c’era il malcelato fastidio di chi non vuole sentirsi dire cosa fare. Tanto che l’agenda climatica presentata dai Fridays For Future in campagna elettorale è stata pressoché ignorata dalle forze politiche, che hanno preferito al massimo "pescare" da singole proposte e amalgamarle nei propri programmi.


L'intero reportage di Andrea Turco a questo link:

https://www.valigiablu.it/movimento-fridays-for-future-italia/


Libia, Libano e Afghanistan. Perché i tre dossier (dimenticati) restano centrali

Mentre Teheran invia carburante in Libano, dopo aver rifornito Hezbollah, la Turchia membro Nato partecipa allo Sco summit e prova a dire la sua in Libia e Afghanistan. Dove la Cina punta alla ricostruzione e inizia a mandare i suoi treni della Via della Seta


La presenza del presidente turco Recep Tayyip Erdogan alla Shanghai Cooperation Organisation rappresenta un segnale preciso anche all’Occidente di come il Bosforo vuole essere centrale nelle partite “parallele” alla guerra in Ucraina che si stanno giocando tra i super player. Tre dossier come Libia, Libano e Afghanistan restano centrali anche per come verranno trattati dalle due fazioni di alleati.

E la Cina gioca di anticipo, visto che lo scorso 13 settembre ha inaugurato un nuovo corridoio ferroviario, con i treni merci cinesi che consegnano merci all’Afghanistan attraverso il Kirghizistan e l’Uzbekistan. Le esportazioni di merci afghane seguiranno la stessa rotta verso la Cina. L’accordo, siglato lo scorso 11 settembre dai rappresentanti delle autorità ferroviarie nazionali di Uzbekistan, Afghanistan e Kirghizistan con Zhejiang Union of Railway International Logistics Co Ltd, una società privata Azienda di logistica cinese, prevede un flusso pari a 5.000 container di merci commerciali trasportato in sole due settimane. Fino a ieri servivano due mesi.


L'analisi di Francesco De Palo a questo link:


Il Papa non è contro l'aspirina, ma contro la febbre

Francesco ieri ci ha detto di mettere al centro il lavoro, non il reddito di cittadinanza. È contro questa misura? No, ci mancherebbe. Il problema è che lui non è contro l’aspirina, ma contro la febbre. Quali sono le politiche per il lavoro? Ci sono? Chi ne ha parlato durante la campagna elettorale? Dopo due mesi di sofferenze e banalità, Riccardo Cristiano ha sentito prima del voto un discorso degno di un leader mondiale e di un momento così difficile


Francesco ieri ci ha detto di mettere al centro il lavoro! Non il reddito di cittadinanza! Voglio dire che è contro questa misura? No, ci mancherebbe. Il problema è che lui non è contro l’aspirina, ovviamente, ma contro la febbre! Credo sia chiara la differenza! Quali sono le politiche per il lavoro? Ci sono? Chi ne ha parlato? Per parlarne servono i giovani ma per le sinistre, ormai partiti radicali di massa, parlare di politiche per le famiglie sembra un reato, mentre per le destre la famiglia è un apparato repressivo e coercitivo. I giovani invece sono il cuore del discorso del Papa:”  In effetti, quando alla comunità civile e alle imprese mancano le capacità dei giovani è tutta la società che appassisce, si spegne la vita di tutti. Manca creatività, manca ottimismo, manca entusiasmo, manca coraggio per rischiare. Una società e un’economia senza giovani sono tristi, pessimiste, ciniche. (…) Ma grazie a Dio voi ci siete: non solo ci sarete domani, ma ci siete oggi; voi non siete soltanto il “non ancora”, siete anche il “già”, siete il presente”.

Dire grazie da credenti o non credenti o agnostici mi sembra non solo scontato ma necessario.


L'intero commento di Riccardo Cristiano a questo link:


Nella Giornata del migrante, la Casa di Amadou è andata in montagna


Oggi durante la gita della nostra associazione Casa di Amadou di Marghera (VE) abbiamo condiviso un momento di preghiera intereligiosa riprendendo il significato di salvezza dell'acqua💦 con il brano del vangelo di Luca della liturgia di oggi e i versetti del Corano sulla fonte di Zamzam. 

Oltre a cattolici e musulmani c'erano anche due ragazzi cristiani ortodossi egiziani, arrivati qui da circa due settimane in fuga dalla persecuzione.



Domenica XXVI PA – Lc 16,19-31

Pensare la vita solo in misura di se stessi, utilizzando sempre gli altri ai propri fini porta a chiudere la possibilità di essere raggiunti dalla misericordia del Padre. Non servirebbe nemmeno il miracolo più grande a modificare la propria realtà mentre basterebbe conoscere tutte le Scritture e non solo l'Evangelo.


Nell’Evangelo la liturgia ci propone la seconda delle due parabole sul rapporto tra la giustizia e la misericordia di Dio: quella del ricco e di Lazzaro. Con oggi è la settima domenica di file che ci si trova immersi in una tavola imbandita a festa. Abbiamo lasciata quella organizzata dal Padre per far festa al figlio minore ritornato a casa e ci ritroviamo in un’altra descritta con i medesimi verbi, ora siamo a quella di un ricco vestito lussuosamente e non casualmente senza nome. Fuori della sua porta sta un povero agli estremi, che spera di poter raccogliere qualcosa dagli avanzi che da quella tavola casualmente potrebbero cadere per terra. 

I due personaggi muoiono e Lazzaro, che significa “Dio aiuta”, si ritrova a sedere al posto d’onore nel banchetto del Regno “portato dagli angeli nel seno di Abramo” al medesimo modo nel quale Gesù, il Logos, stava “nel seno del Padre” (Gv 1,18), o il discepolo amato sul “seno di Gesù” nell’ultima cena. Il ricco invece precipita nell’ade fra i tormenti.

Questo, il rovesciamento delle parti, avrebbe potuto essere il finale secondo le narrazioni in tutte le letterature delle civiltà medio orientali. Finale che è già apparso anche il Luca nel Magnificat: “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. 

Sarebbe stata una chiara immagine della giustizia retributiva di Dio, quello che tutti si attendevano e, purtroppo, ancora molto in voga anche ai nostri giorni. Per Gesù questa invece è solo la premessa e il seguito è totalmente inatteso da tutti.

Il ricco vedendo la diversità delle sorti “grida” verso Abramo chiamandolo Padre e, pensando solo a sé stesso, chiede quella pietà che lui non ha mai avuto in vita verso nessuno. Per di più ora invoca che Lazzaro gli faccia da servo portando lenimento alle sue sofferenze. Ma il povero si trova in una situazione che non gli concede di fare da servo a nessuno. Inoltre fra i due mondi c’è quella porta chiusa della sala da pranzo del ricco che non permetteva alcun rapporto, alcuna comunicazione e che ora è diventata la separazione, da distanza incolmabile tra il seno di Abramo e l’Ade.

Anche il ricorso alla paternità di Abramo è inutile e non garantisce nulla, come non ha garantito i ritardatari alla festa dopo che il padrone aveva chiuso la porta nella parabola di poche domeniche fa (la XXI, Lc 13,22-30). In fin dei conti lo aveva annunciato anche il Battista quando aveva detto che Dio può suscitare figli anche dalle pietre e che l’appartenere alla stirpe di Abramo non esonera dalla conversione.

Il “senza nome”, cioè chiunque (anche ciascuno di noi), ora sposta l’attenzione da sé stesso ai suoi familiari, ma chiede sempre di usare Lazzaro: se Abramo lo inviasse per mettere in guarda i suoi fratelli. La risposta è lapidaria: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. Dio ha fatto il dono dell’Alleanza e della Torah, lì è scritto tutto. Tra l’altro Gesù stesso non fa altro che riaffermare ciò che ogni ebreo sa già: “Beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28).

Il ricco per sé stesso fa un ultimo tentativo cambiando tattica. Questa volta non nomina nemmeno Lazzaro ma cerca di persuadere Abramo: “se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno”. Sotto però c’è sempre la richiesta di “usare” qualcuno a beneficio di qualcun altro e riceve un’altra risposta tombale: “Se non ascoltano Mosé e i Profeti, neppure se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”.

A dimostrazione di questo sta la risurrezione di Lazzaro (il fratello di Marta e Maria) che ha invece indurito ancora di più il cuore degli avversari di Gesù, che cercano di farlo morire assieme al suo amico. Non è la risurrezione di qualcuno che converte, ma l’essere raggiunti nel presente dall’amore del Signore, magari attraverso persone che donano piccoli gesti di sostegno come indica Matteo 25,31-46.

 

A questo punto dovrebbe essere chiaro cosa Gesù desidera dirci con questa parabola: il pericolo non è quello di possedere una ricchezza ma di diventarne succubi, fino ad essere posseduti da lei stessa, finendo per non riuscire a vedere altro ed arrivare ad idolatrarla sostituendo Dio con questa: “Là dove è il tuo cuore …”. 

Il ricco senza nome se n’è accorto troppo tardi. Eppure aveva avuto per tutta la sua vita le Scritture a sua disposizione per poterlo comprendere. Avrebbe potuto convertirsi e riorientare la propria vita, spostare il proprio baricentro da sé stessi verso gli altri. È un cammino che ha una sola regola: la docilità alla Parola di Dio frequentandola giornalmente, lasciando che germogli e fiorisca lentamente dentro di noi, rendendoci capaci di cercare esprimere quella giustizia e quella misericordia con al centro il bisogno dell'altro che oggi siamo chiamati, anche con il nostro voto, a individuare come soddisfare senza guardare solo al nostro ego.

 

Spesso si sente chiedere o affermare che per i cristiani basta l’Evangelo dimenticando che, per capire l’opera di Gesù, è necessario conoscere ciò che ha portato a compimento. In fin dei conti ai discepoli di Emmaus Gesù “apre la mente” per poter comprendere le Scritture e lo può fare anche con noi solo se le conosciamo. Solo così può renderci capaci di accogliere il suo messaggio e la sua persona. Solo così possiamo metterci realmente alla sequela alla quale ci chiama.

 

(BiGio)



PS: "Pensare la vita solo in misura di se stessi, utilizzando sempre gli altri ai propri fini" è rinunciare alla vocazione propria dei cristiani in favore del bene comune che, in questa domenica, può tradursi nel non andare a votare. Come ricorda un celebre documento delle origini cristiane, la Lettera a Diogneto, "ciò che nel corpo è l’anima, questo sono nel mondo i cristiani... Dio ha voluto che essi tenessero un tale posto nel mondo: sarebbe un delitto scegliere la fuga". Nessuna ‘via di fuga’ dalla città dovrebbe essere consentita ai credenti. Per noi il votare è più di un diritto/dovere; è una questione di identità che ci "impone" di esprimere il nostro voto a favore di chi si impegna a guardare oltre il proprio naso, al di là del nostro stesso interesse di parte e che, invece, guarda al bene collettivo a partire dalla crisi climatica che determinerà il mondo che consegneremo ai nostri discendenti.

Sedersi dalla parte giusta della storia

Questa è storia di sempre. È storia di porte e di muri che allargano la distanza, che chiudono i ricchi nel loro mondo, perché non vedano il povero e non ne siano turbati. È storia di ogni tempo, perché ci sono sempre i ricchi epuloni dentro e i poveri fuori, in attesa che qualcuno si degni di gettargli gli scarti, di usarli per smaltire i rifiuti.


Lazzaro non ha una casa, resta lì, al confine, alla porta del ricco, davanti a quella barriera eretta a dividere la scena, a contrapporre le storie.

Lazzaro è lì, invisibile all’uomo ricco. Se l’occhio non vede il cuore può restare in pace, può ignorare la povertà che egli ha lasciato fuori, la fame che invoca le briciole, il dolore che invoca cura e consolazione.

Il ricco non è la causa diretta della povertà di Lazzaro, ma egli tiene chiusa la porta, si difende dalla sua presenza, ignora il suo volto e il suo nome.

Lazzaro non chiede di prendere il posto del ricco, non vuole livellare le storie, non vuole ribaltare la scena.

Non è una scena di lotta di classe, di violente rivalse e rivendicazioni. È scena di ordinaria umanità. Quella che ogni giorno potremmo vedere se aprissimo le porte della nostra indifferenza, se abbassassimo i muri delle nostre difese, se smettessimo le vesti della nostra superiore superbia.

Siamo, anche noi, seduti dalla parte “giusta” della storia. E non è questo il problema. Il problema sono i Lazzaro che abbiamo lasciato fuori, ai quali abbiamo chiuso la porta, ai quali chiediamo ogni giorno di sedere ai piedi della nostra presunzione, alla porta della nostra superiorità, ai margini della nostra ricchezza, ai bordi del nostro potere.  

La storia di Lazzaro, però, non è oppio per consolare i poveri e tenerli buoni. È invito rivolto a tutti a sedersi dalla parte giusta della storia, quella che non ha porte e non ha chiusure, ma accoglie e offre la propria presenza, il proprio servizio a chi è nel bisogno e non ha voce, a chi non ha vesti che attirano lo sguardo, a chi non ha un volto e una storia che susciti ammirazione. 

Ci vuole un ascolto che smuova il cuore. Ci vuole la conversione per credere alle parole che Dio ha pronunciato sulla storia umana. Ci vogliono non segni e prodigi, ma una fede sincera che veda nel volto del Crocifisso Risorto la parte giusta della storia, quella del servizio e dell’accoglienza, della condivisione e della cura, della compassione e della bontà. Bisogna scegliere di sedersi con lui dalla parte giusta della storia!




L'intera riflessione di Marco Manco a questo link:


https://www.rileggendo.it/2022/09/23/sedersi-dalla-parte-giusta-della-storia/


Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 25 settembre

 



Il Cammino sinodale in Germania: bocciato il documento sulla sessualità

L’inizio della IV Assemblea generale del Cammino sinodale tedesco è stato contrassegnato da un fatto inatteso dalla maggior parte dei delegati, che ha generato scompiglio nella dinamica stessa dei lavori che sono stati momentaneamente sospesi.

Il testo base del quarto Forum “Vivere in rapporti riusciti – Vivere l’amore nella sessualità e nella coppia” non ha, infatti, raggiunto la necessaria approvazione da parte di 2/3 dei vescovi (che unita a quella dei 2/3 dei membri complessivi dell’Assemblea è la maggioranza necessaria per l’approvazione dei testi).


Dei 62 vescovi presenti, hanno votato solo 56: 31 a favore del testo, 22 contrari e 3 astenuti. Il numero di vescovi contrari ha generato non poca irritazione tra i partecipanti, compresi alcuni colleghi nel ministero episcopale, in quanto le dichiarazioni esplicite di non accettazione del testo, sia in fase di preparazione che in quella di discussione previa alla votazione, si potevano contare sulle dita di una mano.

Tra molti è sorta l’impressione di un agguato che non mirava tanto al testo in quanto tale, ma piuttosto a una mera affermazione del potere episcopale all’interno delle dinamiche sinodali. D’altro lato, le soglie per l’approvazione dei documenti sono parte degli Statuti del Cammino sinodale – approvati quasi all’unanimità dalla stessa Assemblea generale.

Due gli assi portanti del testo base bocciato dai 22 vescovi contrari: la consapevolezza che, in materia, la maggior parte delle decisioni spettano al papa in un esercizio collegiale del suo ministero con la Chiesa intera – e, quindi, che quanto formulato nel documento non può essere che dei voti e suggerimenti rivolti alla sede competente; una lucida analisi della divaricazione che esiste fra la formulazione della dottrina in materia di sessualità umana e il vissuto effettivo di molti credenti cattolici (e anche delle prassi pastorali in atto).

Tenendo conto di questi due vincoli, il testo voleva offrire il contributo di una Chiesa locale sinodalmente riunita per un riallineamento tra dottrina e pratiche di vita, tenendo conto anche delle conoscenze che le scienze umane (e i vissuti personali) possono apportare a un dibattito dottrinale nell’ambito della sessualità umana vissuta alla luce dell’Evangelo.

Il vescovo di Aquisgrana, mons. H. Dieser, che è anche co-presidente del Forum, ha detto di “non avere adesso la più pallida idea di come affrontare le persone che sono state deluse o ferite da questa votazione. Ora come ora, in quanto vescovo, come posso ancora predicare sulla sessualità?”.


L'intero articolo di Marcello Neri a questo link:

http://www.settimananews.it/sinodo/cammino-sinodale-bocciato-documento-sulla-sessualita/


I vescovi fiamminghi pubblicano la benedizione per le coppie gay

La liturgia specifica per gli omosessuali non è prevista dal Vaticano. Ma i promotori specificano: chiara la differenza con il matrimonio sacramentale

(da www.laregione.ch)



I vescovi fiamminghi, i presuli del Belgio di lingua olandese, con il cardinale Jozef De Kesel, hanno pubblicato una liturgia per la benedizione delle coppie gay. Lo scrive ‘Nederlands Dagbalad’. È la prima volta nel mondo che una benedizione specifica viene ‘codificata’ da un gruppo di vescovi. Una iniziativa, questa, contraria al Vaticano, che non prevede una liturgia per benedire le coppie omosessuali. Tuttavia, "la differenza deve rimanere chiara con ciò che la Chiesa intende per matrimonio sacramentale", cioè un legame permanente tra un uomo e una donna, tendono a precisare i vescovi promotori della iniziativa.
Secondo il portavoce dell’arcidiocesi di Mechelen-Bruxelles, Geert de Kerpel, la liturgia pubblicata non è stata presentata in anticipo al Vaticano, scrive ‘Nederlands Dagbalad’. La breve e semplice liturgia, che i vescovi fiamminghi hanno pubblicato oggi affinché possa essere utilizzata nelle parrocchie, oltre alla preghiera e alla lettura della Bibbia, vede un passaggio in cui si sottolinea "l’impegno" delle due persone interessate; essi "esprimono insieme davanti a Dio come si impegnano l’uno verso l’altro". Dichiarano a Dio che "vogliono esserci l’uno per l’altro in ogni circostanza della vita" e pregano per avere "la forza di essere fedeli" reciprocamente. Secondo il promotore di questa iniziativa, Willy Bombeek, nominato dai vescovi coordinatore del progetto su Omosessualità e Fede, la ‘benedizione’ al termine della liturgia è espressamente intesa come una benedizione per le coppie gay. I vescovi fiamminghi vogliono rendere così "strutturale la pastorale e la guida delle persone omosessuali" e così contribuire a costruire "una Chiesa ospitale che non esclude nessuno".

Ancora qualche domanda sulla messa (3)

Dobbiamo riconoscere che ci sono almeno tre elementi, che diamo per scontati, rispetto alla messa, ma che scontati non sono più

L'articolo di Marco Pappalardo mi ha spinto a prendere sul serio una sua affermazione: “è facile puntare il dito contro Don Mattia o applaudirlo, senza che qualcosa cambi in me e nella comunità; difficile, invece, è interrogarsi su come celebriamo”. L’impressione che ho, è che questa difficoltà nasca dal fatto che ancora prima che interrogarci sul come celebriamo, dobbiamo riconoscere che ci sono almeno tre elementi, che diamo per scontati, rispetto alla messa, ma che scontati non sono più.

Il primo. La messa non è un fatto privato, ma comunitario. La domanda allora è: esistono ancora le comunità cristiane? Cioè, esistono gruppi di persone che, per il fatto di credere, attivano rapporti più o meno organizzati con altri credenti, non solo nella celebrazione liturgica, ma anche nella loro vita quotidiana? “Per il fatto di credere” significa che l’incontro con l’altro non è generato solo da un bisogno umano, o dalla possibilità spazio temporale di incrociarsi, ma dal desiderio di condividere la propria fede. Quante volte, cioè, fuori dalla celebrazione, incontriamo e tessiamo rapporti con qualcuno proprio perché è credente e desideriamo condividere con lui la nostra esperienza di fede?

Perché fuori da questo non si può parlare di comunità, ma al massimo di gruppi umani, classi sociali, appartenenze culturali, quando va bene di società civile. Oggi purtroppo, sempre più, dobbiamo riconoscere che si dovrebbe parlare di moltitudine sociale, cioè singoli individui che si relazionano tra loro solo per esigenze del “sistema” e che nemmeno più sperano di poter risolvere assieme i problemi che li accomunano, ma immaginano che la soluzione sia sempre e solo individuale. Se anche le persone che frequentano ancora la Chiesa tendono ad essere così, di quale comunità parliamo? Incontrarsi un’ora scarsa la domenica in Chiesa e poi fare vite quasi assolutamente parallele per tutta la settimana, senza che l’aver fede entri mai a generare un incontro tra queste persone non è comunità! Come si può pretendere allora che quell’ora domenicale sia vissuta come comunità? 


L'intera riflessione di Gilberto Borghi a questo link:

https://www.vinonuovo.it/comunita/bibbia-e-liturgia/ancora-qualche-domanda-sulla-messa/


Contributo Sinodale di "+Grande è l'amore": Testimoni dell'amore - Chiamati all'amore


Testimoni dell’amore 


Sin dall’inizio i discepoli di Gesù avevano intuito che per camminare nella fede, crescere e progredire nella sequela del loro maestro avrebbero dovuto farlo non come singoli ma in gruppo, insieme. I cristiani hanno da sempre vissuto in comunità ritrovando in esse un senso di speranza, di condivisione e di aiuto reciproco non solo nelle vicende più quotidiane ma anche e soprattutto nel seguire le orme di Gesù. 

Ai giorni nostri tutto ciò non ha diminuito il suo valore: la ricerca di una comunità in cui crescere ha innegabilmente validità nel vivere quotidiano moderno, nonostante sia sotto gli occhi di tutti che oggi le parrocchie si stanno sempre più spopolando e sono sempre più luoghi di passaggio piuttosto che luoghi dove si resta per crescere; luoghi dove spesso il cammino è solo iniziato, ma non portato a termine. Molte persone, per diverse ragioni, non trovano le motivazioni per continuare a stare legati alla parrocchia e se ne vanno, nonostante tutti gli sforzi di religiosi e laici per creare occasioni per attrarre più fedeli a partecipare.

Non è il nostro caso. Noi a causa del nostro particolare modo di amare e del nostro sentire ed essere visto come “non ordinario” abbiamo dovuto in molti casi guardare altrove rispetto alle parrocchie e cercare… non perché non ci fosse un desiderio di coltivare i legami con gli altri della comunità, non perché non ci interessi la dimensione ecclesiale della fede. Abbiamo dovuto cercare altrove perché, semplicemente, non sempre si è verificata quella accoglienza e quella premura riservata ad altri credenti. Molti nostri amici fuggono dalle parrocchie e noi, invece, che vorremmo farne parte integralmente ci troviamo spesso le porte chiuse o socchiuse, o aperte solo a parole ma non nei fatti. Per vivere in comunità spesso abbiamo dovuto lasciare fuori una parte di noi, del nostro essere, del nostro vivere. 

Lo sperimentiamo tutti i giorni, nei diversi ambienti di lavoro e di vita: divisi in due metà che spesso non riusciamo a conciliare. Si tiene nascosto il nostro essere credenti o, più spesso, il nostro essere omosessuali. Fin da quando siamo stati poco più che bambini, chi più chi meno, ognuno ha sperimentato di dover tenere nascosto una parte importante di sé irrinunciabile.

Noi giovani cristiani, credenti, omosessuali sperimentiamo spesso di non essere i benvenuti nelle comunità parrocchiali, di poter stringere solo legami privati senza poter partecipare in maniera attiva. Ci accorgiamo che c’è un’accoglienza pietistica e non un pieno riconoscimento, una timida approvazione senza integrazione, un silenzio su di noi che a volte diventa insopportabile. Noi siamo testimoni dell’amore di Gesù e vogliamo testimoniare la nostra fede assieme agli altri credenti, non in un gruppo ristretto di nostri simili. 

Noi del gruppo “Più grande è l’amore” siamo convinti che quando ci troviamo Gesù è in mezzo a noi, ma diventa impegnativo ed alienante non avere alternative se non quella di un piccolo gruppo di una decina di persone che si ritrova a Venezia una volta al mese. Perché a questo siamo costretti. Parliamo di noi, del nostro rapporto con il Signore, della fede, della chiesa, della società: è bello, ma è molto limitante. Alcuni di noi sono costretti a fare chilometri per trovare qualcuno che accolga tutto di noi. Ma ci chiediamo, perché? non dovrebbe essere questa una prerogativa di ogni comunità? 

Noi crediamo fermamente che nelle parole del Vangelo: «In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d'accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Matteo 18, 19-20). 

Chiediamo alla nostra Chiesa di riconoscere questo, di darci modo di stare con i nostri fratelli nella fede per vivere assieme la sequela di Gesù.        

Chiamati all’amore

Noi coppie lgbt e future famiglie viviamo nella società di oggi un’epoca di smarrimento e difficoltà. Spesso, limitandoci a seguire visioni relative della vita di coppia legate a ragioni storiche particolari, finiamo col perdere di vista l’aspetto più relazionale e intimo, che non può prescindere dall’amore. Chiediamo un rinnovato approccio nel popolo di Dio, che sappia mettere al centro non semplicemente schematismi, ma l’amore, in tutte le forme che esso ha assunto, assume e potrà assumere. 

Noi impegnati nella Chiesa. Nella relazione con la comunità cristiana, ogni membro del popolo di Dio chiede non di essere semplicemente accolto o capito, ma di farne parte e riuscire così a diventare mani e voce di Cristo in terra. Anche noi cristiani lgbt esigiamo non un ruolo marginale nelle stesse parrocchie e diocesi dove ciascuno di noi è cresciuto, ma un ruolo centrale, come è quello riconosciuto a ciascun fedele, nella consapevolezza che solo così riusciremo a far fiorire nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, quei talenti che a ciascuno di noi Egli ha donato. 

Noi operatori sanitari siamo chiamati tutti i giorni a dare concretezza all’insegnamento di Cristo, a prenderci cura degli ammalati e ad accompagnarli, tanto nel vivere quanto nel morire. Consapevoli delle grandi responsabilità del nostro condividere le diverse fragilità, chiediamo al popolo di Dio una nuova presa di coscienza circa il ruolo del malato nella vita di oggi, affinché non sia più visto come un numero, ma come persona. Tutto ciò implica il superamento di ogni espressione della cultura dello scarto, di ogni tecnicismo, di ogni pregiudizio, anche di quelli legati all’orientamento sessuale, nei confronti sia del paziente, che dell’operatore sanitario. 

Noi lavoratori della scuola. La responsabilità che noi lavoratori della scuola abbiamo è cruciale. Siamo noi incaricati di formare i cittadini di domani e a trasmettere valori etici e morali che sempre includono anche l’aspetto religioso. Formare l’uomo tutto intero passa anche attraverso la predisposizione di programmi didattici che promuovano la cultura del rispetto e dell’inclusione, nonché la lotta a pregiudizi, discriminazioni e violenze motivati dall’orientamento sessuale. Auspichiamo una nuova dialettica in seno alla Chiesa, che non si riduca alla “traditio” verticale e gerarchica, ma si allarghi in un fertile dialogo, che sappia valorizzare noi insegnanti non come semplici esecutori, ma come protagonisti incaricati dell’arduo e al contempo meraviglioso compito di formare le coscienze del domani. 

Noi persone lgbt e l’accompagnamento spirituale. A fianco del riconoscimento civile o religioso del nostro rapporto di coppia, noi persone lgbt chiediamo con vivo desiderio l’attivazione di forme di accompagnamento spirituale alla futura vita insieme. Siamo consapevoli di essere chiamati dal Signore a vivere il carisma dell’amore omosessuale. Tutto ciò nella certezza che la nostra sete di Cristo potrà, mediante la sua Parola e i sacramenti, essere condivisa nella vita di coppia.

Noi persone lgbt e la dottrina. La dottrina della Chiesa costituisce un patrimonio insostituibile: essa è il risultato in forma scritta del cammino del popolo di Dio e al contempo un viatico per le generazioni future. Passato e futuro hanno così modo di toccarsi nella relazione vivificante tra Cristo e la Chiesa presente. Consapevoli di questo ruolo, incoraggiati dall’invito dei vescovi italiani a riscoprire il valore del sensus fidei del popolo di Dio, chiediamo di contribuire allo sviluppo della dottrina stessa, consapevoli che solo un apporto davvero onnicomprensivo possa mantenere viva la difficile, complessa, e pure misteriosa relazione tra parola e vita, tra azione e pensiero. Chiediamo, quindi, un ruolo maggiormente capillare, allargato alle diocesi, alle parrocchie, ai singoli fedeli, nell’elaborazione della dottrina della Chiesa cattolica. 

Il catechismo della Chiesa cattolica, primo fra tutti, non può limitarsi ad una enucleazione asfittica di principi, ma deve aprirsi a nuovi contenuti e nuove interpretazioni. Il concetto di fecondità, ad esempio, può superare la sua dimensione rigorosamente procreativa e spalancarsi a nuovi orizzonti in grado di ricomprendere ogni dimensione generativa dell’amore, compreso l’amore omosessuale. 

Solo così, infatti, riteniamo si potrà superare da un lato l’individualismo autoreferenziale, incompatibile con il cattolicismo (καθολικός), dall’altro l’irrigidimento che confonde tradizione e Verità. 

“La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà.” (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 231)