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il Magnificat è il canto comune di chi visita e di chi è visitato

In occasione della festa della Visita di Maria ad Elisabetta, pubblichiamo il commento all'Evangelo di Sorella Lisa della Comunità di Bose


Dal Vangelo secondo Luca - Lc 1,39-45 

39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».


All’angelo inviato da Dio, che le ha annunciato che essa partorirà un figlio e che anche l’anziana Elisabetta, sua parente, porta nel grembo un figlio, Maria risponde: “Ecco la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Maria si lascia plasmare dalla Parola, riceve forma dalla parola di DioLe sue parole dovrebbero essere le nostre al termine di ogni ascolto della Scrittura; lasciamo anche noi che la Scrittura ci plasmi, dia forma alla nostra vita

A Maria, visitata dall’angelo, non viene detto che cosa deve fare, in che cosa concretamente consista il suo servizio. Non riceve un ordine, un compito. Plasmata dalle Scritture, con l’intelligenza dell’amore, va, parte e si mette a servizio di Elisabetta. Nessuno glielo ha ordinato. Visitata, visita. Nella nostra vita quotidiana, in famiglia, in comunità, spesso si suddividono i compiti, i servizi e questo facilita la vita, ma c’è il rischio, ed è grande, di fermarsi ai ruoli prefissati, alle abitudini, e di dimenticare che il servizio dell’amore richiede creatività, disponibilità, quell’intelligenza del cuore che sa prevenire i bisogni dell’altro. Visitare implica uscire “dalla propria casa”, dalle proprie abitudini, e fare un movimento verso l’altro pronti a riconoscere anche in lui la presenza del Signore

Altri viaggi dovrà compiere Maria, in obbedienza a leggi umane e a circostanze avverse, viaggi non più pensati e liberamente voluti; sarà costretta a partire da Nazaret e a recarsi a Betlemme in ottemperanza al decreto di Cesare Augusto, sarà costretta a partire per l’Egitto con Giuseppe e il bambino per sfuggire alla persecuzione di Erode, ma anche questi viaggi non voluti, vissuti nella fede, diventano “visite”, occasioni per portare il figlio e Signore agli uomini.

Maria “si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda” (v. 39). L’espressione “in fretta” traduce il termine greco spoudé, ben più ricco; indica un atteggiamento di premura, di sollecitudine. Lo ritroviamo diverse volte nel Nuovo Testamento. Zaccheo deve scendere “con sollecitudine” per accogliere il Signore (cf. Lc 19,6); l’apostolo Paolo ammonisce chi presiede la comunità a farlo “con sollecitudine”; si esercita il ministero di presidenza con quello stesso atteggiamento con cui Maria va a rendere visita a Elisabetta, con la stessa disponibilità, con la stessa intelligenza del cuore. Ma ancora, tale premura, tale zelo buono è frutto del pentimento, del rattristarsi secondo Dio, come scrive Paolo ai cristiani di Corinto (cf. 2Cor 7,11-12). E la sincerità dell’amore è dimostrata dalla “sollecitudine verso gli altri” (2Cor 8,16; cf. anche 2Pt 1,5). 

Maria ed Elisabetta, due donne segnate da una condizione di povertà e difficoltà, da una mancanza; le loro storie sono diverse, le loro età sono diverse. Che cosa rende possibile l’incontro? Il reciproco riconoscimento di ciò che portano in grembo. Sapienza dell’incontro capace di non negare l’alterità ma di riconoscere ciò che unisce nel profondo. Alcuni manoscritti del Vangelo di Luca e alcuni padri della chiesa attribuiscono a Elisabetta, e non a Maria, il canto del Magnificat. A livello spirituale tale incertezza di attribuzione è molto bella. Chi canta il Magnificat? Maria? Elisabetta? Forse tutte e due. Là dove ci si incontra in verità, là dove l’abbraccio è vero e sincero, il Magnificat è il canto comune di chi visita e di chi è visitato. Che ciascuno di noi possa cantare in verità e sincerità: “L’anima mia magnifica il Signore” (Lc 1,46).



SS. Trinità – MT 28,16-20

Non si tratta di provare a dire cosa è la Trinità, ma di vivere

 


Abbiamo concluso il tempo pasquale con la celebrazione dell’Ascensione e della Pentecoste. L’Ascensione invitava a non guardare in cielo ma guardare in avanti vivendo la storia che incontriamo giorno per giorno, a non a distarci dagli uomini che Dio ama neanche il nome di Dio.

Assieme a questo mandato, ci svelava una realtà: la possibilità di stare già oggi alla destra di Dio dove Gesù si è assiso, vivendo quella pagina che Matteo ci ha consegnato nel capitolo 25 del suo Vangelo. Vi sta scritto che Dio dirà “venite alla mia destra” a coloro che, anche senza saperlo, danno da mangiare e da bere, vestono e visitano coloro che ne hanno bisogno, incontrandosi così con Dio anche quando ritengono di incontrarsi soltanto con gli uomini. 

La Pentecoste ci ha assicurato che, se in questo guardare avanti stando la testa di Dio noi in fondo siamo soli, pieni di dubbi nei confronti del mondo, di noi stessi e spesso anche nei confronti del Signore, Dio ci mandava il suo spirito, il con-solatore che sta appunto con i soli, per guidarci nella storia comprendendo sempre più la verità, donandoci lingue nuove per imparare a tradurre oggi quelle parole, quell’annuncio che Dio lungo la sua vita fino alla morte e alla risurrezione ci ha consegnato.

 

L’Evangelo di oggi aggiunge che, per vivere questo, non ci serve una fede certa, una verità “posseduta”, ci è chiesto solo di saperci affidare a quelle consegne che il tempo pasquale ci ha fatto: questo è “tutto” per il credente. 

La parola “tutto” ritorna quattro volte nel discorso che Gesù fa congedandosi dei suoi discepoli: “mi è stato dato ogni potere (tutto il potere), in cielo e in terra”, “ammaestrate tutte le nazioni”, “insegnate ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”, “io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.

Se noi ripercorriamo questi “tutto”, possiamo scoprire il volto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Gesù dice: “mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. È il Padre che ha reso “signore” Gesù non solo in cielo ma anche in terra. Ci viene in aiuto il brano del Deuteronomio della prima lettura: “non si è mai udito che un Dio si faccia così vicino a noi come Dio è vicino al nostro popolo”. Dio ha mostrato il suo vero volto incarnandosi: è il volto del Padreche ama l’uomo e suo Figlio donandogli la sua “signoria” e confidandogli tutto.

Andate ad evangelizzare tutte le genti dicendo tutto ciò che io vi ho detto”, questo è il volto del Figlio che, obbediente al padre che gli ha donato la sua signoria, diventa il Dio per tutti gli uomini, per tutte le nazioni, che non ci nasconde nulla, che ci dice tutto ciò che ha appreso dal Padre.

Le ultime parole di Gesù che Matteo ci ha fatto ascoltare sono: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” è il volto dello Spirito Santo, del con-solatore che ci guida nella vita e nel tempo, fino a saper portare il peso della verità tutta intera.

Possiamo tradurre dicendo che queste sono anche le tre dimensioni che noi, con parole prese dal linguaggio della Bibbia, chiamiamo la regalità la profezia e il sacerdozio che a tutti coloro che sono guidati dallo spirito di Dio dona. La lettera ai Romani dice: “tutti coloro che sono guidati dallo spirito di Dio, costoro sono figli di Dio”.

In fondo noi, con la celebrazione mistero pasquale, siamo stati introdotti e immersi (battezzati) nel cuore di Dio (come Lui si era immerso – battezzato – nella nostra umanità). Siamo chiamati ad imparare il suo mestiere, ad essere noi Dio per gli uomini, dando anche noi tutto ciò che possediamo, donando agli uomini che incontriamo il potere, che è un potere che assume il volto del servizio. Siamo chiamati a far conoscere tutto ciò che Dio ha fatto conoscere a noi, rimanendo con gli uomini soli come noi abbiamo la certezza che Dio ci consola e sta con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Questa cosa non si è mai udita dice il Deuteronomio, Dio è Dio non solo in cielo ma anche quaggiù sulla terra. 

Allora ognuno di noi con verità può dire: anch’io sono guidato dallo Spirito di Dio e per questo sono figlio di Dio e, per questo, vivo nel cuore della Trinità. Non si tratta di provare o di riuscire a dire che cosa sia la Trinità, si tratta di riuscire a vedere Dio in tutte le persone che incontriamo e, soprattutto, a vedere tutte le persone che incontriamo in Dio, vivendo così la Trinità, imparando a guardare avanti, imparando dallo Spirito Santo ad essere consolati e, soprattutto, con parole nuove a consolare coloro che incontriamo.

(BiGio)

 

Don Tonino, don Vincenzo e la Trinità


Carissimi fratelli,

l’espressione me l’ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt’altro che banale. Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.
Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.
E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l’altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l’altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile...
Colsi l’occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: “Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra. E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri”.

Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.
Peccato: perché, tra l’altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l’uomo è icona della Trinità (“facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”) e che pertanto, per quel che riguarda l’amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l’accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.

Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.
Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.
+ don Tonino

L'icona delle icone: la Trinità di Andrej Rublëv

La Trinità o Ospitalità di Abramo è una celebre Icona di Andrej Rublëv (1360-1430), realizzata negli anni intorno al 1422, conservata presso la Galleria statale di Tret’jakov a Mosca.

È il capolavoro dell’iconografo Andrej Rublëv, che visse come monaco e figlio spirituale di San Sergio Radonez.

L’icona della SS.Trinità è stata definita “l’icona delle icone” nel 1551 dal Concilio dei Cento Capitoli. È un capolavoro di rara profondità teologica, di bellezza incomparabile e di finissima ricchezza di simboli.

Come tutte le icone è frutto di preghiera come ascolto della Parola. Un iconografo vi dirà che non è stato lui a dipingere l'icona, ma è l'icona che ha dipinto lui perchè la Parola ascoltata e meditata non può non cambiare, plasmare il cuore dell'uomo.

È solo per questo che si può pregare davanti ad una icona, non per altri motivi. Eccone alcuni elementi descrittivi.



I colori

- il rosa-oro richiama il manto imperiale,
- il verde indica la vita,
- il rosso l’amore sacrificato.
- Speciale significato ha il blu che indica la divinità e le verità eterne. È distribuito a tutti e tre gli angeli:

Le figure

Si è molto discusso nell'identificare nelle tre figure le Persone della SS. Trinità. Qui presento quella a me più significativa

L’angelo di sinistra - nel quale si può riconoscere il Padre, porta la tunica di colore blu, ma essa è quasi totalmente coperta dal manto regale. Ha la mano benedicente sopra il tavolo, che rappresenta la creazione, ma non lo tocca, rimane sollevata.

L’angelo centrale - Dio nessuno l’ha mai visto, per questo l’angelo centrale, nel quale riconosciamo Dio Figlio, porta il manto blu: “il Figlio l’ha rivelato”, solo nel Figlio si fa visibile. “Chi vede Me, vede il Padre” Il Figlio è uomo (tunica rosso sangue); ha ricevuto ogni potere dal Padre (stola dorata, sacerdozio regale di Cristo). Inoltre la sua mano benedicente è appoggiata sulla creazione, a rappresentare la sua Incarnazione. Infine è importante la sua postura: è quella dell'icona dell'ingresso a Gerusalemme, seduto su di un asino.

L’angelo di destra - nel quale si può riconoscere lo Spirito Santo, mostra la tunica blu in abbondanza, perché il ruolo è di “far comprendere e ricordare la Parola” (Gv.14,26). Il manto verde indica che “da’ la vita”, “rinnova la faccia della terra”; è la speranza che consola. La sua mano benedicente è a forma di ala di colomba tendente a penetrare la creazione per vivificarla dall'interno. 

Il Padre siede con solennità sul suo trono. Il suo sguardo, il gesto della sua mano destra sembrano esprimere un comando breve e chiaro con semplicità, ma con autorità: tutto procede da Lui. Le altre due figure angeliche chinano il capo verso il Padre in ascolto che, a sua volta, la china verso di loro quasi a sussurragli per condividere con loro ogni cosa.

Lo spazio

Le tre figure formano un cerchio. In questo circolo d’amore delle Tre Persone c'è posto anche per chi guarda/ prega questa icona ponendosi davanti ad essa: vi si viene attirati, risucchiati all'interno del cerchio d'amore, nessuno vi viene escluso.

Fuori dal cerchio, sopra la figura dello Spirito c'è una montagna: luogo del silenzio e delle manifestazioni di Dio, la roccia sulla quale fondare la casa; sopra la figura del Figlio c'è un albero a ricordare la quercia di Mamre, l’albero della Croce, nuovo albero della vita; sopra la figura del Padre c'è una casa la casa: il Padre accoglie ed ama tramite la Chiesa, che per essere edificata richiede il lavoro dell’uomo, la collaborazione e l’armonia di tutti. 

L'albero e la montagna si inchinano anche loro verso la casa o, meglio, si protendono verso di essa, quasi a volerla penetrare, a farne una realtà unica.


Le forme geometriche racchiuse nell'icona

Il cerchio:

è simboleggia l'eternità, perfezione di Dio, il Suo amore che non ha inizio né fine. Il reciproco amarsi delle tre Persone non forma un cerchio chiuso: il loro amarsi è aperto da quell’altare cui è consegnata la coppa. È verso quella coppa che sono diretti gli sguardi e orientate le mani degli angeli. Dio contempla l’umanità simboleggiata dal tavolo rettangolare: la vede, la vuole salvare. La vede affamata e la vuole nutrire; la vede abbandonata e la vuole sposare.

Il triangolo equilatero:

Trinità: Uno in Tre – Tre in Uno: Dio è uno, ma mi incontra in tre modi distinti, Dio mi ama in tre maniere diverse, con tre cuori uniti in un solo movimento d’amore.
l’ottagono: definito dai bordi esterni determinati dagli sgabelli, dalla montagna e dalla casa: la creazione si riposa nella calma e pienezza dell’ottavo giorno, giorno del Signore.

Il rettangolo:

forme definite comprese tra i punti cardinali: rappresentano la terra, il creato.

Le tre coppe:

1 - la coppa grande formata dai due angeli laterali: il Padre e lo Spirito Santo che offrono il Verbo Incarnato che sta al centro.
2 - la coppa ritagliata nella tovaglia dalle ginocchia degli angeli laterali che contiene il vassoio con il vitello, prefigurazione dell’Eucarestia: centro di tutto il movimento circolare dell’insieme
3 - la coppa disegnata sul pavimento tra i piedistalli degli stessi angeli laterali: rappresenta lo spazio dove chi guarda e prega può accedere e partecipare al dialogo d’amore, lasciandosi plasmare dalle mani dello Spirito, abbeverandosi alla parola di Dio, dimorando presso Lui. Le nostre ginocchia si troveranno all’altezza della piccola apertura nella parte anteriore dell’altare: luogo tradizionalmente contenente le reliquie dei martiri di Gesù.

(BiGio - Rielaborazione sulla base di www.insiemesullastessabarca.it)


Una rilettura dell’icona della Trinità


Nella città bassa di Salvador Bahia, in Brasile, una comunità accoglie “moradores de rua” (senzatetto) avendo come modello la mistica delle relazioni trinitarie. In chiesa campeggia una rivisitazione della celebre Trinità di Rublëv che esprime “la trinità fonte di vita che accoglie alla sua mensa gli esclusi dalle mense della società”

                                                                                                                                                                                                  (da www.insiemesullastessabarca.it)

La Trinità del Masaccio

Masaccio, La Trinità, 1425-1426, affresco, 667 x 317 cm. Firenze, Basilica di Santa Maria Novella



Tra i capolavori di Masaccio spicca La Trinità, realizzata nel 1427, ad affresco, sulla navata sinistra della Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Con La Trinità, Masaccio aprì le porte alla pittura rinascimentale mettendo insieme le principali invenzioni figura- tive. Infatti lo spazio è descritto mediante l’uso di una solida prospettiva geometrica, le figure sono rese volumetriche dal chiaro-scuro e le fisionomie diventano reali ed espressive.

L’immagine dipinta ne La Trinità di Masaccio raffigura una nicchia all’interno della quale si trova una scena con una crocifissione. Sotto di essa inoltre è rappresentato un sarcofago con uno scheletro appoggiato al di sopra. Al centro viene rappresentata la Santissima Trinità e a fianco sono dipinti i coniugi oranti. L’architettura che incornicia la scena è composta da un arco classico sostenuto da due colonne con capitello. Esternamente ai lati delle colonne inoltre sono raffigurate due paraste con capitello corinzio. Infine all’interno del vano dove è rappresentata La Trinità è presente una volta a botte con lacunari.

Composizione

La complessa composizione prevede, in primo piano in basso, un altare, sostenuto da coppie di colonnette, sotto il quale è posto un sarcofago con uno scheletro. Una scritta, «IO FUI GIÀ QUEL CHE VOI SIETE E QUEL CH’IO SON VOI ANCOR SARETE», allude chiaramente alla fugacità della vita e alla transitorietà delle cose terrene. Ricordiamo che, secondo un’antica tradizione, Cristo venne crocifisso sulla tomba di Adamo: questo perché, con la sua morte, volle redimere l’umanità dal peccato.


In un secondo livello, si apre una cappella: in primo piano si trovano le due figure ingi- nocchiate dei committenti, mentre all’interno, ai piedi della croce, vediamo Maria e Giovanni.

Laddove il giovane apostolo congiunge le mani in preghiera, la Madonna, ammantata di blu, rivolge lo sguardo impassibile a noi spettatori e con la mano destra indica il Figlio.



Alle spalle del crocifisso, campeggia la figura di Dio Padre. Fra loro si trova lo Spirito Santo in forma di colomba che quasi avvolge, con le sue ali, il collo del Padre e pare scendere in picchiata sul Figlio. Leggiamo infatti nei Vangeli che «appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui» (Mt, 3, 16).



Osserviamo che tutte le figure della scena sono comprese all’interno di uno schema triangolare (il triangolo è simbolo del numero tre e quindi della Trinità stessa). Le tre figure della Trinità, cioè Padre, Figlio e Spirito Santo, sono inoltre disposte secondo un modello iconografico ancora trecentesco, chiamato “Trono di Grazia”, con Dio che regge la croce di Cristo. La figura del Padre è collocata in piedi sopra una piattaforma orizzontale e ha l’aspetto di un vecchio dalla barba bianca, secondo una nuova iconografia comparsa già nel secolo precedente. La sua espressione è severa e la sua aureola sfiora la volta della cappella, sicché egli appare gigantesco: in realtà, la sua statura è uguale a quella di Cristo.

I colori prevalenti, ossia il rosso e l’azzurro, si dividono equamente i diversi settori della scena, alternandosi nei lacunari della volta a botte, nella veste di Dio Padre e di quelle di Maria, di Giovanni e dei committenti. Questi colori, unitamente al verde, al grigio e, ovviamente, al bianco, all’epoca erano considerati i più adatti a decorare le pareti del tempio del Signore.

Il significato teologico

Nonostante le apparenze, e come d’altro canto conferma il titolo, quest’opera di Masaccio non è una normale scena di crocifissione. Se Masaccio, nella sua Crocifissione del Polittico di Pisa, aveva affrontato il tema drammatico dell’uccisione di un innocente sotto lo sguardo disperato di amici e familiari, in questa Trinità scelse di riflettere sul significato concettuale dell’evento. Gesù, venendo sulla terra, aveva rivelato agli uomini il mistero principale della religione cristiana, affermando simultaneamente l’unità della natura di Dio e la sua distinzione in tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo. Un dogma, in quanto principio di fede indiscutibile, non può essere spiegato: Masaccio, attraverso il gesto esplicito della Vergine, che difatti non è addolorata, lo mostra utilizzando la concretezza delle immagini.



Nell’opera possiamo inoltre riconoscere il percorso che ogni uomo deve compiere per conquistare la salvezza. La sua vita terrena e mortale (simboleggiata dallo scheletro) deve riscattarsi attra- verso la preghiera (i committenti) sicché, grazie all’intercessione degli eletti (la Vergine e i Santi) egli può arrivare a Dio (la Trinità).

Un manifesto della nuova prospettiva

La Trinità di Masaccio presenta alcune novità iconografiche, la cui portata fu da subito considerata rivoluzionaria. La prima è quella dei due committenti borghesi, marito e moglie, che sono ovviamente comuni mortali, e come tali dipinti senza le aureole e con le vere fattezze dei volti, ma qui presentati con le medesime proporzioni dei personaggi sacri, dei quali condividono realisticamente lo spazio.

La seconda è quella dello sfondo, che non è più il tradizionale fondo oro ma una grandiosa architettura dipinta. Tutti i personaggi sono infatti immaginati all’interno di una cappella, rappresentata in prospettiva come se fosse una struttura reale.


La potenza illusionistica della volta a botte è in effetti straordinaria: ponendosi a circa quattro metri di distanza dall’affresco, si ha la percezione di una vera cappella che si affaccia sulla navata. Non a caso, Vasari commentò: «pare sia bucato quel muro». I contemporanei di Masaccio rimasero, insomma, fortemente impressionati da questo miracolo artistico, con grande soddisfazione dell’artista e anche di Brunelleschi, che di tale prospettiva matematica era stato l’inventore. A lungo fu attribuito a Filippo il disegno dell’intera parte architettonica; oggi, è stata restituita a 
Masaccio l’intera autografia dell’affresco. Abbiamo però motivo di pensare che Brunelleschi abbia seguito da vicino il lavoro del suo giovane amico.

Masaccio, La Trinità, schema prospettico.


Masaccio, La Trinità, 1427-28, ricostruzione della cappella, con le sue reali dimensioni se fosse stata reale.


(dal sito: www.insiemesullastessabarca.it)


Sinodo 1 - È una grande importante novità: «È l’ora della partecipazione. Di tutti»

  Sinodo 1/3 - È una grande importante novità: «È l’ora della partecipazione. Di tutti» 


È noto da tempo, il prossimo Sinodo dei Vescovi si svolgerà sul tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione».

Pubblichiamo tre Post su questa novità, questo è il primo: Notizie Generali

Papa Francesco, ha approvato un itinerario che porterà al XVI Sinodo che è una grande novità. Non è più un evento che coinvolge “solo” i Vescovi, ma tutti. Anche le parrocchie, anche noi. Anzi, parte proprio da noi.

«Non si tratta di democrazia, di populismo o qualcosa del genere; è la Chiesa ad essere popolo di Dio. E questo popolo, in ragione del Battesimo, è soggetto attivo della vita e della missione della Chiesa». Così il cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi, ha spiegato la modalità profondamente innovativa voluta dal Papa del processo sinodale.

Da oggi in poi i Sinodi dovranno, dice il Papa, «incominciare dal basso in alto, dalle piccole comunità, dalle piccole parrocchie e questo chiederà pazienza, lavoro, far parlare la gente, che esca la saggezza del popolo di Dio. Perché un Sinodo non è altra cosa che esplicitare ciò che dice la Lumen gentium. È la totalità del popolo di Dio, tutto, dal vescovo via via in giù, che è infallibile in credendo. Cioè non può sbagliare, quando c’è armonia nella totalità. Ma deve esplicitare quella fede». 

Sulla base di queste premesse ha senso affermare, con il vescovo di Roma, che veramente il cammino sinodale «non sappiamo come finirà e non sappiamo le cose che verranno fuori» da esso.

 

Il cammino verso la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dunque, si svolgerà secondo il seguente tracciato:

 

Apertura del Sinodo

In Vaticano il 9-10 ottobre 2021

Nelle Diocesi domenica 17 ottobre 2021

 

Fase diocesana          
(ottobre 2021 – aprile 2022)

L’obiettivo di questa fase è la consultazione del Popolo di Dio

La Segreteria Generale del Sinodo invierà un Documento preparatorio, accompagnato da un Questionario e da un Vademecum con proposte per realizzare la consultazione in ciascuna diocesi.

La consultazione nelle diocesi si svolgerà attraverso gli organi di partecipazione previsti dal diritto, senza escludere le altre modalità che si giudichino opportune perché la consultazione stessa sia reale ed efficace (cfr. Episcopalis Communio, 6).

La consultazione del Popolo di Dio in ciascuna diocesi si concluderà con una Riunione pre-sinodale, che sarà il momento culminante del discernimento diocesano.

Segreteria Generale del Sinodo

Al termine di questa fase, la Segreteria Generale del Sinodo procederà alla redazione del primo Instrumentum Laboris (prima di settembre 2022).

 

Fase continentale      
(settembre 2022 - marzo 2023)

 

Le Assemblee termineranno con la redazione di un documento finale, che sarà inviato alla Segreteria Generale del Sinodo (marzo 2023).

Segreteria Generale del Sinodo

La Segreteria Generale del Sinodo procederà allora alla redazione del secondo Instrumentum Laboris (prima di giugno 2023).

 

Fase della Chiesa Universale 
(ottobre 2023)

(1/3 - Continua)

Sinodo 2 - Il Sinodo secondo Francesco

Sinodo: Post n. 2/3

Il Sinodo secondo Francesco 


di Sergio Ventura 

in “VinoNuovo” del 24 maggio 2021 


Dopo due anni di attesa torna a riunirsi in presenza anche la conferenza episcopale italiana. Saranno giorni in cui verranno discusse e decise questioni importanti. Tra le altre l’impostazione del futuro processo sinodale italiano – sempre più ineludibile dato lo stato di sinodo permanente in cui Francesco ha messo la Chiesa universale. A tal proposito, indicazioni interessanti si possono trovare nel discorso che il 30 aprile Papa Francesco ha rivolto ai membri del consiglio nazionale dell’Azione cattolica italiana (AC). Dato che tale discorso (anch’esso direbbe qualcuno) è passato un po’ in sordina – e prima di ascoltare quello di oggi pomeriggio – vale la pena attirarvi l’attenzione nella speranza che le nostre vedette possano trovarvi tracce di cammino e spunti di ispirazione. 


Sulla Chiesa sinodale, il vescovo di Roma è stato molto chiaro su quali accenti debbano essere messi dal punto di vista pastorale e teologico. Si tratta di praticare «una forma alta e esigente di ascolto», ma – attenzione! – nel senso innanzitutto teologico di un «ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e [dei] peccatori». In altri termini, si tratta di «ritrovare e annunciare nella storia i segni della bontà del Signore», perché Egli sta già «camminando ‘in incognito’ nella storia», senza che ciò significhi «”diluire”» l’evangelizzazione o «”annacquarla”». 


Tutto ciò non è altro che quanto auspicavamo qui con Gilberto Borghi e Sergio Di Benedetto quando scrivevamo che oggi non è tanto il mondo ad aver smarrito Cristo (e la sua divinità) ma la comunità ecclesiale ad aver dimenticato – o a non essere più molto convinta di – quanto insegnato dal Concilio Vaticano II (GS 44) sul rapporto con il mondo e con il Dio unitrino che in esso già è all’opera e ci anticipa. O, similmente, quanto sottointeso all’analisi che ho proposto dei gesti e delle parole sanremesi di Achille Lauro o alla difesa (sempre che ve ne fosse bisogno) del cammino teologico di Hans Kung o della rubrica domenicale curata da padre Spadaro su Il Fatto quotidiano.

D’altronde, solo se la raccomandazione antropologica rivolta dal Papa alla Chiesa – «ascoltare i vostri territori, sentendone i bisogni, intrecciando relazioni fraterne» ed essere «fermento di dialogo» – non è fine a sé stessa, non è il «guardarsi allo specchio» dell’«autoreferenzialità», ma è veramente un essere «docili allo Spirito» e alla Sua «presenza», allora questo ascolto divino-umano potrà essere realmente un «imparare» – Dio – da «tutti» (compresi Lauro e Il Fatto quotidiano), un «confrontarsi [e] accogliere l’imprevisto» – di Dio – che si manifesta dietro e oltre l’apparente «disordine», «chiasso», «rumore», «grido» – dell’umano – che percepiamo inizialmente come dissonante e (forse eccessivamente) «rivoluzionario»Perché, altrimenti, non avrebbe senso quanto affermato dall’apostolo (non a caso) delle genti in 1Ts 5,19-21: «non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono». E avrebbe invece molto più senso riconoscere che a questa ‘cosa’ non ci crediamo (ancora) o che siamo stanchi di crederci. 


Ugualmente, solo sulla base di queste premesse teologiche antropologiche può avere senso affermare, con il vescovo di Roma, che veramente il cammino sinodale «non sappiamo come finirà e non sappiamo le cose che verranno fuori» da esso. Che si cominci «dal basso» (ripetuto da Francesco per tre volte) o che la «luce dall’alto al basso» venga dallo «stile» indicato dal Papa al convegno di Firenze del 2015, la questione dirimente per uscire da ogni equivoco o pia intenzione mi sembra essere la seguente: una volta compiuta la «kenosi» auspicata dal vescovo di Roma ed abbassatici con misericordia, umiltà, disinteresse e letizia, «che fare» con il peccatore – ma soprattutto con il peccato – che incontriamo? 


Nella prospettiva di Francesco, infatti, il cammino sinodale deve stare anche attento, da un lato, a «partire dalla realtà, non dalle tre o quattro idee che sono alla moda o che sono uscite nella discussione», ma, dall’altro lato, «a incidere in essa, per farla crescere nella linea dello Spirito Santo, per trasformarla secondo il progetto del Regno di Dio». 


Se però, in quanto Chiesa (pensiamo qui alla recente intervista del cardinal Ruini), siamo certi a priori di saper identificare peccato e peccatore, effettuandone una diagnosi corretta; se come Chiesa siamo certi a priori di saper effettuare una prognosi corretta e di sapere il modo per curare (se non guarire) il peccatore (se non anche il suo peccato), come possiamo pensare che non vengano così quasi azzerate le condizioni di possibilità affinché si realizzino le premesse antropologiche teologiche suddette? Affinché possa avvenire l’imprevisto di imparare qualcosa di inatteso e inaudito, soffiato dallo Spirito del Padre e del Figlio già presente nelle storie degli altri? 


Nella «realtà», infatti, il malato evangelico – il peccatore – potrebbe innanzitutto rifiutare diagnosi prognosi e cura (effettivamente) corretta. Che fare allora? Continuare a rendere ragione con mitezza (1 Pt 3,15-16)? Forzare a riceverla (Lc 14,23)? Prenderne atto e scuotere i sandali (Mt 10,14)? Dissentire e fulminare (Lc 9,54)? Ma soprattutto – questo è il punto decisivo – diagnosi prognosi e cura del peccato potrebbero rivelarsi a posteriori, per la grazia di Dio che è nel (presunto) peccatore, tali da dover essere corrette secondo quello che si rivela essere a posteriori il (nuovo o vero) «progetto del Regno di Dio», la (nuova o vera) «linea dello Spirito Santo», che pensavamo di conoscere a priori. Che cosa fare allora? Si trasforma, si fa crescere, si corregge la realtà (presunta) peccaminosa (ma rivelatasi ispirata)? O si trasforma, si fa crescere, si corregge la dottrina (rivelatasi invece incompleta)? 


Francesco non alludeva forse anche a queste problematiche, quando nel discorso di Firenze del 2015 invitava la Chiesa italiana a relazionarsi coi peccatori incontrandoli, anche di nascosto (Gv 3,1-21)? Mangiando e bevendo insieme a loro (Mc 2,16; Mt 11,19)? Conversandoci (Gv 4,7-26) e facendosi toccare da loro (Lc 7,36-50)? Soprattutto, dialogando con loro anche adirandosi, ma sempre accogliendone «la critica» e compiendo «l’esodo necessario» affinché ogni nostra teologia non diventi «ideologia»? E praticando tutto ciò prima – e forse oltre – ogni nostra «denuncia» e «risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico»? 


È chiaro che già solo affrontando tali questioni un eventuale sinodo avrebbe parecchio materiale su cui discutere e pregare. Così come è altrettanto chiaro che il motivo per cui nel discorso all’AC Papa Francesco afferma che il percorso sinodale deve condurre a «scelte praticabili» che siano il frutto, non solo di una «discussione» e di un «accordo» di «maggioranza», ma anche di «preghiera, silenzio, discernimento», non risiede in qualche ostilità verso forme di «’parlamento cattolico’», bensì nella consapevolezza della complessità sia delle problematiche da affrontare che delle possibili «soluzioni»: anche qui, crediamo e speriamo che l’auspicio del Papa dipenda dalla convinzione che ogni pur necessaria e fondamentale discussione sinodale si apra, nello Spirito, alle «audaci e creative», ma spesso non immediatamente comprensibili, profondità (del volere) di Dio (1Cor 2,10). 


A questo punto, diventa anche certo che il tipo di persona che dovrebbe incarnare questo stile teologico e pastorale, questa sorta di paradossale «presenza [che] non fa rumore» – e perciò capace di intercettare lo Spirito – assomiglia molto al rabdomante o alle sonde lanciate nello spazio, e se proprio non possiamo (o vogliamo) porci in uscita almeno al telescopio spaziale Hubble. Ma anche su questo, in vista delle nuove nomine, il Papa è stato chiaro: innanzitutto i «programmi», i «progetti» e i relativi «organigrammi» sono al massimo un «punto di partenza», danno il via all’«ispirazione», altrimenti o in loro assenza si finisce nel pressapochismo disorganizzato (come avvertiva Daniele Gianolla), oppure essi diventano poco evangelici «piani» di «conquista», fautori dell’«illusione del funzionalismo» e delle «cose “perfette”» (secondo quello che sembra essere il timore principale di Francesco). 


In secondo luogo, il «diritto» che i laici hanno alla loro «promozione» e all’ascolto della loro «voce» non deve mai diventare «clericalizzazione» degli stessi. Tale eterogenesi dei fini, però, sembra essere inevitabile finché, come suggerito da Andrea Grillo e Serena Noceti, non si uscirà dall’uso equivoco del termine “laico” e, aggiungerei, non si comprenderà come Chiesa chequando siamo in uscita estroversi, l’altro ‘ricercato’ non può essere né deve rispecchiare l’apriori che già possediamo: altrimenti – di nuovo – come rendere possibile l’evento che l’altro ‘trovato’ al termine dell’uscita sia, appunto, un «imprevisto» da cui «imparare» qualcosa – di Dio – non già saputo? 


Un buon esercizio in tal senso potrebbe intanto essere quello di evitare di sottostare alle leggi della burocrazia (anche ecclesiale), la quale spesso immagina ed esegue le proprie riforme istituendo nuovi organi (spesso doppioni di altri) che finiscono per raddoppiare anche l’“incrostazione” che si vorrebbe “purificare”, quando invece si dovrebbe valorizzare – e poi rafforzare, anche istituzionalizzandolo – ciò che nella Chiesa è già da tempo in uscita estroversa (ad esempio su VinoNuovo abbiamo spesso indicato gli insegnanti e gli sposi). Sempreché avvenga, questa uscita estroversa, nel modo sopra auspicatonon ossessionato dal trasmettere agli altri un depositum fidei già d(on)ato e confezionato, ma desideroso di scoprire negli altri ciò che attualizzerà e rinverdirà quel depositum fideinon concentrato esclusivamente sul proprio dono – ricevuto in passato da Dio – da regalare, presentare agli altri, ma anche e forse oggi innanzitutto sul regalo, sul presente – di Dio – che gli altri possono essere per noi. 

                                                                                                         (2/3 - Continua)

Sinodo 3 - Il sinodo della penitenza

 Sinodo: Post n. 3/3  

Il sinodo della penitenza 

di Alberto Melloni 



in “la Repubblica” del 22 maggio 2021 

Questa settimana ci sarà l’assemblea annuale dei vescovi italiani. Appuntamento usurato, eppure mai come stavolta decisivo per il cattolicesimo e dunque per il Paese, se è vero, com’è vero, che la Chiesa anticipa e vive sia le speranze sia i disastri che determinano poi la vita civile.         
Dopo una lunga incertezza il Papa darà infatti la sua benedizione al primo sinodo nazionale italiano. Atto ancor più cruciale dopo una pandemia nella quale problemi spazzati per decenni sotto il tappeto della storia sono usciti da lì ingigantiti: la pestilenza ha infatti svelato manierismi spiritualistici, documentato predicazioni deprimenti e confermato il ciclico lambiccarsi sulla plausibilità di un partitino cattolico (nessuna) che perimetra il provincialismo cattolico. I “convegni ecclesiali”, che di quelle vere magagne e inutili rimpianti erano la culla, sono finiti: perfino il Papa, sconcertato dal disinteresse con cui è stato accolto il suo discorso al convegno di Firenze del 2015, ha dovuto prendere atto che era quel modello che produceva una sordità suppletiva fra i vescovi. 

E dunque passa a un sinodo: che non è una istituzione democratica spruzzata d’acqua santa, ma un farmaco. È un farmaco omeopatico che chiede ai vescovi di diventare la cura di mali di cui sono causa: senza castelli di carta istituzionali e senza quel feticismo della vaghezza che ama far sua qualche citazione del pontefice. 

Il sinodo, però, è un farmaco difficile da usare, come dimostrano i casi recenti. Il sinodo sulla famiglia del 2015 ha energizzato una destra antipapale silenziosa da un secolo. Il sinodo amazzonico del 2019 non ha potuto dare alle chiese di quelle terre i preti sposati, che Benedetto XVI ha concesso di ordinare ovunque, purché ex anglicani. Il cammino sinodale tedesco in corso è stato punzecchiato con atti, come quello sulle benedizioni delle persone gay, che delegittimano i vescovi ed esasperano i fedeli. E dunque nemmeno il sinodo italiano sarà “facile”: ma può essere fecondo, per la Chiesa e per il Paese, se individuerà registro, soggetto e tempi della sua celebrazione. 

Il registro del sinodo non potrà che essere quello della penitenza. La società inviperita e impaurita che le destre palesi e occulte inviperiscono e impauriscono, è rispecchiata dalle lacerazioni della Chiesa: vescovi che si sgambettano, mediocrità intellettuali che giustamente si disistimano a vicenda, arroganze in competizione. A questo si può metter mano solo con una penitenza severa e sincera: per svelenire l’odio che percorre organi, comunità, monasteri e per far amare la fraternità. Il soggetto del sinodo non potrà che essere quello delle chiese locali. Il cattolicesimo non è una federazione di parrocchie o di movimenti o di gusti. È comunità di comunità adunate dalla parola e dalla eucarestia attorno ai successori degli apostoli nella compagnia dei poveri e dei peccatori a cui si rivolge il Vangelo. Se si vuole la sinodalità dal basso deve esser chiaro che il basso è questo e non un immaginario populismo clericale o la variante ecclesiastica della democrazia diretta. 

Il tempo del sinodo è la grazia. Il sinodo non è performance, non è la stampante dei produttori seriali di “documenti” o un corso di sociologia religiosa applicata.     
È tempo che serve ad individuare i nodi teologici (il ministero, il diritto delle comunità all’eucarestia, il sacerdozio comune) che sono stati o evitati o risolti con faciloneria ora tradizionalista ora modernizzante. Ma per farlo bisogna archiviare lo stolido antagonismo fra una caricatura della “dottrina”, come se essa fosse un fossile custodito nel catechismo, e la caricatura della “pastorale”, descritta come un packaging “che non tocca la dottrina”. E ritornare alla teologia roncalliana che crede che solo unità e comunione possano liberare il Vangelo e quella sua forza sanante, che oggi sembra imprigionata da narcisismi febbricitanti, politicismi banali e fervorini semplicisti. Anche sul sinodo. 

(3/3 - Fine)

Dobbiamo darci nuove regole per vivere assieme

Lo scrittore Raffaele Alberto Ventura, che vive a Parigi dove collabora con il Groupe d'études géopolitiques e la rivista Esprit ed ha esordito con il libro Teoria della classe disagiata (minimum fax 2017), nel quotidiano Domanidel 25 maggio 2021 si chiede chi fa l'educazione sentimentale dei giovani maschi e delle giovani femmine? Come veniamo a conoscenza delle parole da dire e da non dire? Chi ci insegna a fare i conti con la diversità culturale?


Quando sui social un personaggio pubblico fa il mea culpa per una battuta sostenendo di non aver “studiato” a sufficienza la materia, dovremmo preoccuparci: a quanto pare per non fare pasticci nel mondo contemporaneo ci vogliono laurea, dottorato e corso di aggiornamento. Qualcuno dirà che è solo questione di educazione e buon senso. L’ideologia del decoro, che trasfigura le questioni politiche in rogne di nettezza urbana, ha il suo corrispettivo morale in questa retorica della buona educazione, secondo cui per placare i conflitti a bassa intensità che attraversano la società multiculturale, fondati su oppressioni secolari e divergenze persistenti, basterebbe... comportarsi bene.

Davvero è sufficiente essere una “brava persona” per non fare pasticci?

Le convenzioni cambiano

Sarebbe più opportuno riconoscere che non esistono persone brave o cattive, ma convenzioni mutevoli e rapporti di forza che ci legano in un garbuglio inestricabile di ragioni, abitudini, ignoranze, pregiudizi, incomprensioni, polarizzazioni. Il potere non è soltanto quello visibile, emanato dall’alto; più spesso, come ci ha insegnato Michel Foucault, esso viene dal basso, nella forma di micropoteri invisibili.

La nostra vita è disciplinata da norme non scritte, fluttuanti, localizzate, come per esempio quelle che determinano il modo in cui ci rivolgeremo a una persona sconosciuta per strada. E qualora ne fossimo attratti, come ci comporteremmo per approcciarla?

Grande è la confusione sotto al cielo: ci è voluto il #MeToo per rivelare che quello che molte donne vivono come violenza per alcuni uomini è semplice seduzione o routine coniugale. La buona condotta non è né innata né universale: è una competenza, è una tecnologia, è un marcatore di status.

Imparare a comportarsi

Il problema è che oggi nessuno si occupa di trasmettere queste norme di comportamento. Chi fa l’educazione sentimentale dei giovani maschi e delle giovani femmine? Come veniamo a conoscenza delle parole da dire e da non dire? Chi ci insegna a fare i conti con la diversità culturale, con i suoi inevitabili retaggi patriarcali, senza farci prendere dall’isteria come dei missionari sbarcati in qualche lontana colonia? Certe accortezze appaiono evidenti solo all’interno di specifiche comunità di parlanti. La scuola, con le sue rigidità, serve solo fino a un certo punto.

A forza di ripeterci che “siamo tutti uguali” abbiamo perso la capacità di fare i conti con la diversità in tutto ciò che ha di sfidante: intere generazioni vengono gettate nel mondo senza avere la minima idea di come comportarsi con l’Altro — altro genere, altre classi, altre culture.

Un tempo ci pensava l’arte a educare alla vita, insegnando le differenze: la tragedia denunciava i comportamenti socialmente distruttivi, la letteratura mostrava dei modelli da seguire o non seguire, insomma era impegnata che lo volesse oppure no. Oggi ci restano soltanto le vuote retoriche dell’inclusione: “comportatevi bene”, sì, ma come?

Non abbiamo bisogno di moralismi ma di nuove regole per vivere assieme. Senza dare per scontato nulla. Perché non siano tutti uguali bensì tutti diversi, e non esiste una sola misura per giudicare ogni individuo.

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Libia: Basta lacrime di coccodrillo, forse ...


"Basta lacrime di coccodrillo" titolava La Stampa il 26 maggio: Immagini di bambini morti sulle spiagge. Per ventiquattr'ore non si parla d'altro e poi basta. 

Forse c'è stata una svolta nei rapporti tra Roma e Parigi sulla Libia. In attesa dell'Europa, sui flussi migratori l'Italia punto alla stabilizzazione del Nord Africa e del Sahel.

Questo è sottolineato nel Dal Daily Focus del 26 maggio 2021 dell'ISPI, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale che, qui di seguito si riporta.


C’è un vento nuovo tra Roma e Parigi sulla Libia. È quello che emerge dalle parole del premier Mario Draghi che a margine del Consiglio Europeo ha annunciato un “nuovo importante passo” verso la “collaborazione con la Francia in Nord Africa e nella regione del Sahel”. 

Un’inversione di tendenza importante – suggellata in un bilaterale con il presidente francese Emmanuel Macron – e che allevia in parte la delusione per l’assenza di progressi a livello europeo sulla questione migratoria. “L'intenzione è di lavorare insieme in quella parte dell'Africa”, dice Draghi, annunciando un cambio di passo in un territorio che ha visto finora Parigi e Roma su fronti opposti e lungo cui si dipana la principale rotta dell’emigrazione africana verso l’Italia. Il presidente del Consiglio si muove su più tavoli e se da un lato ottiene di far rientrare il dossier migrazioni nell’agenda ufficiale del Consiglio Europeo del 24 e 25 giugno, dall’altra ammette che “un’intesa sarà difficile” e avanza l’ipotesi di un sottoinsieme di paesi che si aiutino tra loro. Qualcosa in meno di un accordo a livello europeo, ritenuto irraggiungibile in tempi brevi, ma qualcosa in più rispetto alla solidarietà ‘volontaria’ degli Accordi di Malta, durati lo spazio di un mattino. Da parte sua, Macron conferma che l'obiettivo è di avere “una politica coordinata e di partenariato sul dossier libico”. Ma in ballo ci sono anche altri elementi, come gli interessi economici e geopolitici dei due paesi nel Mediterraneo e, in prospettiva, un ruolo più incisivo dell’Unione Europea in Africa.


Asse Roma-Parigi?

Partnership franco-italiana dunque, ma sempre con un occhio alle questioni interne: fra un anno il presidente francese si gioca la riconferma all’Eliseo, e con una sfidante come Marine Le Pen il tema migranti è ‘altamente sensibile’. Per questo Macron apre anche alla possibilità che l'Unione elabori “soluzioni pratiche in materia di relazione con i paesi di origine o transito”, sulla scia di quanto l’Italia sta discutendo in questi giorni con la Tunisia: aiuti, investimenti e corridoi per l’immigrazione regolare in cambio di maggiori controlli di coste e confini. A fine maggio, il premier Draghi incontrerà a Roma anche il suo omologo libico Abdul Hamid Dbeibah, il cui governo è fonte di grandi speranze al di qua del Mediterraneo, ma che sul terreno deve fare i conti con la presenza di milizie turche e russe. Il riallineamento tra Italia e Francia serve anche a questo, a ripristinare, in virtù di una convergenza di interessi, l’influenza europea sul paese. Soprattutto di fronte alle ingerenze di Turchia e Russia, creando le condizioni per rafforzare la presenza di un governo stabilea Tripoli con cui, da domani, tornare a trattare sulle migrazioni.

Ottimismo a Tripoli? 

A sei mesi dal cessate-il-fuoco, Nazioni Unite e Stati Uniti hanno espresso un sentimento raramente evocato quando si parla di Libia: l’ottimismo. La svolta nel paese è arrivata lo scorso marzo, quando si è insediato un governo di unità nazionale, riconosciuto da tutti i principali attori sul terreno. Un’iniezione di fiducia per un paese che mancava di un vero e proprio esecutivo dal 2014, il cui obiettivo principale è di traghettare la Libia alle elezioni nazionali previste per il 24 dicembre 2021. Ma i progressi politici, molto più promettenti di quanto non fossero appena pochi mesi fa, da soli non bastano. A causa dei continui scontri, le infrastrutture elettriche, idriche e di collegamento del paese sono collassate, l’economia resta perlopiù dipendente dall’estrazione del petrolio e dunque esposta alle continue oscillazioni dei prezzi, mentre il governo si trova a fare i conti con una moltitudine di combattenti stranieri, che costituiscono la vera minaccia per una stabilizzazione duratura. E c'è anche “l’elefante nella stanza”, osserva Mohammed Ali Abdallah, inviato speciale degli Stati Uniti per la Libia, “Khalifa Haftar, il generale ribelle che ha tentato di rovesciare il governo di Tripoli, e che rimane una forza nella Libia orientale”.


Lo sguardo oltre la Libia 

Con il presidente francese si è discusso della “situazione nel Nord Africa, ma anche nel Sahel, nel Ciad e nel Mali, perché i paesi come la Libia e purtroppo anche la Tunisia, la cui situazione politica è seria, diventano sempre di più paesi di transito”. Sulla rinnovata intesa con Parigi dunque, l’orizzonte del presidente del consiglio va oltre la questione migratoria e la Libia. Parte da Tripoli, per pianificare una politica più ampia in Africa e nel Mediterraneo, due regioni strategiche, vista la posizione geografica del nostro paese, ma da tempo neglette. In tal senso, la Libia rappresenta una vera e propria ‘porta’ verso l’Africa e in particolare il Sahel, una regione densa di turbolenze in cui i nostri militari sono presenti con due diverse missioni internazionali. Anche per questo, la scorsa settimana il premier italiano era a Parigi per il vertice organizzato da Macron sul finanziamento e per il rilancio dell’Africa. Obiettivo: alleviare il peso del debito, potenziare l'attrattività delle economie africane, rafforzare il settore privato e creare un adeguato 'business environment'. Rimettere l’Africa in agenda dunque, anche per cercare di governare il fenomeno migratorio alla radice, prima che i migranti subsahariani arrivino in Libia o in Tunisia e nelle mani dei trafficanti, potendo contare su uno sviluppo regolare delle economie del continente. Una strategia che è un cambio di paradigma e che prevede, anziché pagare i paesi di transito esponendosi ad un continuo ‘ricatto’, di sostenere e finanziare le economie di quelli di origine. In attesa di affrontare nuovamente la questione migratoria al prossimo Consiglio Europeo, i due leader europei hanno condiviso la necessità di “uno stretto e costante coordinamento”, mirato ad un ruolo più incisivo dell’Unione Europea in Africa.


IL COMMENTO

di Federica Saini Fasanotti, ISPI Senior Associate Fellow e Nonresident Senior Fellow, Brookings Institution 

“Nonostante i molti segnali positivi, giustificati da eventi che mesi fa sarebbero stati impensabili, la situazione in Libia rimane estremamente delicata. Le sfide che il primo ministro Dbeibah si trova ad affrontare sono tante e di primaria importanza: il parlamento libico non ha ancora riconosciuto il Consiglio Presidenziale come comando supremo delle forze armate e non è stato ancora raggiunto un accordo fra le varie forze politiche su come dovranno svolgersi le elezioni del 24 dicembre 2021. Il parlamento ha, inoltre, approvato soltanto uno dei capitoli del budget per il 2021, quello dei salari, ma ancora molto resta da discutere. Nell'ambito militare, le forze straniere restano sul campo, lasciando molti dubbi riguardo ad un serio processo di stabilizzazione del paese”.