Una lettera ricca di temi, densa, da meditare paragrafo per paragrafo
L'intera lettera della quale sono stati dati solo alcuni cenni, a questo link:
https://www.monasterodibose.it/comunita/lettera-agli-amici/15133-una-speranza-e-possibile
Una lettera ricca di temi, densa, da meditare paragrafo per paragrafo
L'intera lettera della quale sono stati dati solo alcuni cenni, a questo link:
https://www.monasterodibose.it/comunita/lettera-agli-amici/15133-una-speranza-e-possibile
L’apostolo Paolo non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo e ha conosciuto persecuzioni e sofferenze. “Ora, alla fine della vita - afferma il Papa -, vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù”. Proseguire la sua opera, il suo “combattimento” tocca ora ai fratelli della comunità. Ciascuno di noi, sottolinea Francesco, è chiamato ad essere missionario e “a offrire il proprio contributo”:
E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi. Chiesa sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. Non ci sono cristiani di prima e di seconda classe, tutti, tutti sono chiamati.
Dopo aver a braccio richiamato al dovere di sconfiggere il clericalismo più volte definito come "il tumore della Chiesa", Papa Francesco osserva che l’annuncio del Vangelo "non è neutrale, non è acqua distillata", “non lascia le cose come stanno”, al contrario, “accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione”. La seconda domanda proposta dal Papa allora è: “cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini?”. Dobbiamo essere lievito nella pasta del mondo, è la risposta di Francesco:
Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quel degrado delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “buona battaglia”, questa è la sfida.
(fonte: VaticanNews)
Nei servizi di Caritas Libano ora arrivano i nuovi poveri, i lavoratori libanesi, che a causa di una inflazione al 138% sono costretti a fare i conti con prezzi dei beni alimentari saliti fino al 500% e la caduta del potere di acquisto dei salari del 90%. Ogni due giorni c’è un caso di suicidio perché la gente non arriva a fine mese, mentre le tensioni tra rifugiati siriani e libanesi sono alle stelle. Parla padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano
Delegati diocesani e responsabili delle comunità islamiche in Italia sono partiti dal porto di Trapani per l’isola di Lampedusa. “Sulla stessa barca”, è il titolo che gli organizzatori hanno scelto per l’iniziativa. Nelle ore di navigazione, ci saranno momenti di confronto, riflessioni, lavori di gruppo, tempi di preghiera, cristiana e musulmana. A Lampedusa - accompagnati da letture tratte da brani biblici del libro di Giona e da testi coranici - cristiani e musulmani si recheranno al “portale” di Mimmo Paladina e alla chiesa parrocchiale San Gerlando. La visita si concluderà con un momento di preghiera al Cimitero di Lampedusa dove sotto le lapidi come negli abissi del Mediterraneo scorrono le storie di migranti senza nome che non ce l’hanno fatta a raggiungere terra da vivi
Nella Capitale austriaca l’evento che mira ad aumentare il numero di Paesi firmatari del Trattato. L’Italia unica dei quattro paesi Ue che ospitano testate Nato a non partecipare nemmeno come osservatore.
E nel frattempo arrivano i primi F-35
Le esperienze storiche ci insegnano che strumentalizzare il nome di Dio, e renderlo “autore” di alcune scelte, molto spesso nasconde un progetto teocratico. La riflessione di Rocco D’Ambrosio, ordinario di Filosofia Politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma
“Dio ha deciso” (“God made the decision”). Sono queste le parole che Donald Trump ha proferito a commento della decisone con cui, la Corte suprema degli Stati Uniti, ha abolito la storica sentenza Roe contro Wade, del 1973, che legalizzava l’aborto nel Paese. Ora, quindi, i singoli Stati federali saranno liberi di applicare le loro leggi in materia.
Esprimo alcune note personalissime non in merito alla questione dell’aborto, ma solamente sul fatto che la sentenza venga accolta da Trump e dai suoi sostenitori, specie dell’area cattolica intransigente e tradizionalista, come “volontà di Dio”. La forzatura non è assolutamente nuova nella storia dei rapporti tra Stati e comunità di fede religiosa (ebraica, cristiana, musulmana, per citare le abramitiche). Quando una legge o una decisione governativa sembrano coincidere con la individuale visione religiosa, del mondo e della storia, sorge sempre qualche paladino della causa che deve suggellare il tutto dicendo che “Dio è dalla nostra parte”, come cantava Bob Dylan “With God on our side”. Ma è proprio cosi?
L'opinione di D'Ambrosio continua a questo link:
https://formiche.net/2022/06/aborto-corte-costituzionale-usa-dambrosio/
Cina e Russia antagonizzano il Giappone per ragioni dirette (la competizione nel Pacifico, le contese territoriali) e indirette (Tokyo è sempre più allineato con le istituzioni occidentali come la Nato). Show of force mentre la marina giapponese si esercita con gli Usa e sta per partire Rimpac 22
Nel primo gruppo di pericopi di questa sezione dell’Evangelo di Luca che oggi la liturgia ci presenta, la proposta della sequela ci appare come uno stare simultaneamente dietro a Gesù e un precederlo sulla via che sta per percorrere.
Non il discepolo sceglie Gesù, ma è Gesù che chiama; la sequela poi è la risposta, che non ammette scuse, alla chiamata.
All’inizio del suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù non guarda quindi solo alla città da raggiungere, ma il “compiersi” dei suoi giorni: l’esodo su cui intratteneva con Mosè ed Elia nella Trasfigurazione.
Nell’incamminarsi Gesù “indurisce il suo volto”, si forgia un volto pietra come fecero anche Isaia (Is 50,7), Geremia (15,20) ed Ezechiele (Ez 3,8) perché sa che cosa lo aspetta e lo ha già annunciato due volte.
In questo suo andare, invia “messaggeri davanti al suo volto” a preparare il suo passaggio: è questo il nostro compito, quello del Battista “preparare la strada al Signore”. Poi ci penserà lui a compiere il suo compito che non è il nostro anche se spesso ce ne dimentichiamo in una mal compresa “impazienza”. Al massimo a noi sta il seminare; il raccogliere compete ad altri.
Mentre in Matteo Gesù sembra evitare la Samaria passando “al di là del Giordano”, in Luca l’attraversa decisamente trovando una prevedibile opposizione. Giacomo e Giovanni, testimoni della trasfigurazione, pensano di imitare Elia che aveva fatto scendere il fuoco dal cielo per distruggere un villaggio. Ma come quel profeta, devono imparare che Dio non si manifesta tanto in atti di potenza: miracoli, vittorie, clamori o terremoti, quanto “nella voce di un silenzio che svanisce”. Il regno di Dio che si deve proclamare è anzitutto, come ricorda Paolo, “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17). Gesù è durissimo: “Li sgridò” come ha fatto più volte con i demoni o le forze del male perché vede nella richiesta dei discepoli la velleità di un potere che usa la violenza, la manifestazione del maligno che è sempre in agguato. Qui dovremmo fare una riflessione anche noi sul nostro modo di gestire i rapporti, da quelli intrapersonali, a quelli tra Stati e Nazioni.
Nel respingere Gesù i Samaritani rifiutano, per questioni rituali, il suo legame inscindibile con Gerusalemme che ci disturba fino ad oggi perché è il segno dell’elezione di Israele da parte di Dio, elemento centrale della storia della salvezza. Dire che Dio ama tutti, è affermare nulla. Riconoscere il modo che ha il Signore di amare Israele ci permette di vedere le modalità concrete con il quale questo è avvenuto ed avviene. Solo allora possiamo dire “come” Dio ama. Israele in questo modo diventa segno efficace, sacramento dell’amore di Dio per ogni popolo e ogni essere umano. Questo è il compito di Israele nella storia perché ogni dono di Dio è contemporaneamente una gratuità che accoglierla significa il capire che si non si può farne un possesso esclusivo, ma chiama alla condivisione con tutti e per tutti. Questo vale anche per noi e lo affermiamo di tutti i Sacramenti.
Rifiutando Gesù, perché diretto verso Gerusalemme, i samaritani (e noi se contestiamo il legame essenziale tra Gesù e Israele), rifiutiamo di fatto l’amore di Dio per noi.
Dell’essere inviati davanti al Signore che viene Luca sottolinea che lo si è in territori stranieri, in realtà che spesso non conosciamo, che incontriamo per la prima volta, non ci sono sicurezze e c’è il pericolo di non essere accolti. La missione fa parte integrante dell’essere discepoli; chiamati a seguire Gesù, si è anche mandati agli altri. La salvezza il regno di Dio sono per tutti e, il proclamarlo apertamente (“altrimenti lo faranno le pietre”), fa parte del nostro seguire Gesù.
Luca qui si sofferma a delineare tre aspetti, tre situazioni per dirci alcune caratteristiche dei discepoli. La prima è conforme all’abitudine dei rabbini: sono ordinariamente i discepoli che scelgono il maestro che intendono seguire e questi li accoglie; Gesù dichiara invece a chi vuole seguirlo per entusiasmo che, se le volpi gli uccelli hanno un luogo dove ripararsi, il figlio dell’uomo non una casa dove abitare; la sua è una vita precaria che dipende interamente dall’accoglienza che gli si dà. Questa risposta equivale un rifiuto: Gesù non accoglie i dei discepoli, li sceglie, li chiama.
Nel secondo caso è Gesù che chiama, ma il chiamato chiede una dilazione di tempo per poter seppellire il padre, che è un dovere universalmente riconosciuto. La risposta di Gesù non è un rifiuto: ha chiamato e dunque il chiamato obbedirà, per la forza della chiamata stessa; la sua risposta è un no categorico alla pretesa di anteporre qualunque cosa, anche la più sacrosanta, alla sequela, identificata con l’annuncio del regno. Non si può accogliere la vita e rimanere ancora nel mondo dei morti.
Il terzo caso è quello di un uomo che intende seguire ma Gesù rifiuta perché pone delle sue condizioni. L’immagine dell’aratro è significativa: per tracciare il diritto il solco, non bisogna guardare indietro, ma in avanti, verso il punto d’arrivo; così pure nella vita cristiana, come anche ricorda Paolo: “dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,13-14).
Riassumendo, da questi tre episodi derivano le caratteristiche essenziali della sequela. Non il discepolo sceglie Gesù, ma è Gesù che chiama; la sequela poi è la risposta, che non ammette scuse, alla chiamata.
In fin dei conti, nonostante continui la consuetudine di battezzare i bambini piccoli, dovremmo sempre ricordare che non è la scelta di Gesù da parte del battezzando (o dei suoi genitori), ma la risposta alla sua chiamata alla quale non si possono porre condizioni: è un dono e contemporaneamente un compito al quale ci si sottrae solo rinunciando alla sua sequela.
(BiGio)
Compiuto il Tempo Pasquale, con la cerniera delle due feste (SS. Trinità e Corpus Domini) a fare da sintesi del percorso fatto e a lanciare quello che ci condurrà alla Festa di Cristo Re, oggi entriamo il Tempo Ordinario e l’Evangelo ci introduce nella sezione più lunga del testo di Luca (9,51 – 19,48).
In questa sezione Luca non segue Marco o Matteo, cammina invece secondo una logica propria, attingendo a fonti sue particolari. Come primo approccio, si può rilevare che Gesù, predicatore itinerante finora quasi sempre in viaggio, decide ora risolutamente di recarsi a Gerusalemme. Anche Marco e Matteo dicono che, dopo la sua attività in Galilea, Gesù è andato a Gerusalemme, ma non danno particolare valore a questo viaggio. Per Luca invece diventa la parabola della sequela: vivere da cristiani e salire con Gesù a Gerusalemme. Questi capitoli appaiono così come una specie di “manuale di vita cristiana”.
Ci sono divere letture della struttura di questa sezione. Forse è preferibile scegliere quella che vi leggono tre tappe segnate dalla menzione della meta: Gerusalemme. Viene così a delinearsi un viaggio “catechistico”:
- 9,51 – 13,21: la missione e la divisione che provoca
- 13,22 – 17,10: la missione e i capovolgimenti sociali, etici e storici che implica
- 17,11 – 19,48: le modalità della salvezza cui la missione di Gesù dà accesso
Questo percorso permette di capire meglio il senso profondo dell’accoglienza che Dio offre agli uomini così come c’è sull’annunciata prima di essere lui stesso ricettato e di subire la morte violenta. Molti sono i tentativi di organizzazione del testo nessuno ha raggiunto un reale consenso.
In ogni caso in questa sezione si entra nella parte propriamente specifica di Luca, quella in cui ci narra Gesù nel modo che più gli è congeniale e che trova come un riassunto nella predicazione di Pietro Cornelio quando dichiara: “Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in spirito Santo E potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui” (At 10,37-38).
La sezione che contiene i testi più celebri del terzo il Vangelo per esempio: le parabole del buon samaritano, dell’amico inopportuno, del fico sterile, degli invitati alle nozze, della pecora perduta e via dicendo. Ci sono poi i grandi insegnamenti sulla preghiera e come il padre nostro, i lamenti si farisei i suoi dottori della legge, letture messi in guardia sul pericolo delle ricchezze e quelle legate al giudizio che accompagna la manifestazione del regno.
È chiaro che con Lc 9,51 si entra in una fase cruciale della vita di Gesù, in cui si preparano i fatti drammatici, non solo per Gesù e i discepoli ma anche per una cerchia molto più ampia, come metterai in evidenza l’ultimo episodio, quello del pianto di Gesù su Gerusalemme.
Qui la narrazione lucana non è affatto “ordinata” come aveva promesso stata all’inizio. È piuttosto un succedersi veloce di brevi sequenze, prese quasi dal vivo, nel contesto di incontri occasionali capitati a Gesù e ai discepoli durante la loro salita a Gerusalemme. Per questo è preferibile parlare di un resoconto continuo.
(Daniel Attinger)
“Il tuo volto, Signore, io cerco: non nascondermi il tuo volto!” (Sal 27,8). La traduzione italiana del brano evangelico proclamato, nel suo lodevole sforzo di decodificare alcune espressioni dell’originale greco, fa purtroppo scomparire una triplice menzione del termine prósopon, volto, sottraendoci così una chiave di lettura unificante del brano evangelico odierno. Letteralmente leggiamo: “Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme … mandò dei messaggeri davanti al suo volto … ma non fu accolto perché il suo volto andava verso Gerusalemme” (vv. 51-53). È il volto di Dio, che ha assunto aspetto umano in Gesù di Nazaret, a essere in gioco qui, in una serie di eventi e dialoghi che ci parlano del discepolato con un linguaggio insolito e anche sorprendente
"Chi dite che io sia? Che volto mi attribuite voi che mi seguite già e voi che vorreste seguirmi?”. Un volto duro, risoluto, consapevole delle conseguenze che avrà il cammino che si sta per intraprendere verso Gerusalemme, un volto che guarda avanti, proteso verso il futuro immediato. E qui una prima stranezza: Gesù manda davanti al suo volto dei messaggeri, degli “angeli”. Non dei discepoli, perché i discepoli devono seguire il Maestro, andare dietro a lui: il ruolo di precursori spetta ai profeti e tra essi al Battista, mandati da Dio a “preparare per lui” (dice il testo odierno), a preparare il cammino per Gesù. I discepoli – in particolare i due più focosi, i “figli del tuono” Giacomo e Giovanni – entrano in scena appena saputo del rifiuto opposto dai samaritani. E lo fanno non solo sfigurando il volto di Gesù in un risentimento vendicativo, ma attribuendosi addirittura dei poteri sovraumani, come se si sentissero sicuri di ottenere dal cielo il fuoco invocato, come se si credessero in possesso dello stesso spirito del profeta Elia, lui sì precursore della venuta di Gesù.
A questo punto Gesù si volta, cambia direzione al suo sguardo e rimprovera i discepoli, cambiando il villaggio-tappa del cammino e cambiando i paradigmi della sequela. Luca nel brano immediatamente successivo ci presenterà tre abbozzi di vocazione – due autopromosse, inframmezzate da una suscitata da Gesù –, ma le tre risposte di Gesù non riguardano tanto gli interlocutori immediati quanto piuttosto i discepoli presenti e futuri; riguardano la consapevolezza del volto, del “chi è” colui che si sta già seguendo o che si vorrebbe iniziare a seguire o dal quale si è stati invitati alla sequela. Tre risposte “a lato” delle domande, tre risposte non perfettamente pertinenti agli interrogativi, tre riprese che riportano il discorso su un altro piano, sul significato della sequela.
Parole, come quelle odierne, rivolte a singoli discepoli, perché la chiamata di ciascuno è personalissima, ma parole che – accolte – creano, plasmano, edificano la comunità cristiana, una comunità che sarà anche capace di invocare e far scendere il fuoco dall’alto: ma sarà il fuoco dello Spirito che si poserà, come si è posato a Pentecoste, sulla comunità, divenuta per grazia un cuore solo e un’anima sola.
(un fr. di Bose)
Argentina, Cile e Bolivia hanno in pancia il 56% delle risorse mondiali per realizzare le batterie delle auto elettriche: abbastanza perché altri big player impediscano che si crei un monopolio di Pechino
I prezzi del litio, secondo Bloomberg, hanno visto nel solo ultimo anno un aumento del 480%. A Nanchino esiste una delle maggiori fabbriche della Xinwangda Electric Vehicle Battery Co. Ltd, che produce batterie al litio per auto elettriche e altri usi. Gli ultimi 20 anni sono stati caratterizzati da una politica ultrainvasiva della Cina nell’estrazione e nella lavorazione dei cosiddetti “minerali critici” in America Latina: il riferimento è a litio e nichel, senza dimenticare i “sempre verdi” e utili rame e ferro. L’America Latina si candida quindi, dopo l’Africa, a diventare il mercato emergente per soddisfare la crescente domanda di auto elettriche. La Cina ha già il più grande mercato di veicoli elettrici al mondo, producendone l’80% e ha progressivamente tessuto relazioni molto fitte con il versante del Latino America dove opera uno dei colossi di Pechino del settore, la BYD.
In Perù vi sono villaggi come Chancay dove le frequenti esplosioni per le nuove infrastrutture scuotono le abitazioni come terremoti. Le case restano lesionate e la gente ha paura. Lì sta per vedere la luce un megaporto costruito dalla Cina: servirà a trasportare quel litio in Oriente. La decisione cinese di proteggere le catene di approvvigionamento ha coinvolto prima l’Africa e ora anche il Sudamerica, proprio sotto il naso del maggior competitor di Pechino: gli Usa.
L'articolo di Francesco Di Paolo continua a questo link:
https://formiche.net/2022/06/litio-occidente-cina/
Perchè Xi Jinping sta modificando tali politiche? La ragione è che la guerra in Ucraina e l’emergere di focolai a Shanghai, Pechino e altri centri principali hanno generato una diffusa ondata di preoccupazione sullo stato dell’economia cinese che, secondo alcuni investitori, si trova nella peggiore condizione degli ultimi 30 anni, tanto che c’è chi si azzarda ad affermare che il “cuscino” cinese si sia “sgonfiato”.
L'articolo di Filippo Fasulo continua a questo link:
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/xi-virata-verso-la-crescita-34908
Sembrano lontani i vari casi Evergrande, Shimao&co. Eppure negli ultimi mesi sono fioccati i downgrade di società legate al comparto immobiliare. Quasi un centinaio in poco meno di nove mesi
Il gigante dormiva, non era morto. In Cina la crisi del mattone non è mai finita. A volte è esplosa, altre volte no e i fallimenti veri o presunti della varie Evergrande, Shimao, sono lì a testimoniarlo. Il problema, però non è risolto. Due anni di pandemia e di altrettanta strategia zero-Covid, più dannosa che altro, hanno spinto il Dragone a battere di nuovo la fiacca, avviandosi a chiudere il 2022 con un Pil a +4,5%, al di sotto delle previsioni ufficiali del governo. Naturale, dunque, che il comparto immobiliare, che vale il 25% del Pil cinese, continui ad annaspare.
Le sirene sono tornate a suonare. La prova è nell’esponenziale aumento dei declassamenti del debito corporate legato alle imprese del mattone cinese, che nei giorni scorsi hanno toccato i massimi dal 2009. Basti solo pensare che l’agenzia Moody’s ha dichiarato di aver emesso 91 downgrade solo negli ultimi nove mesi, all’indirizzo di società immobiliari cinesi. Un declassamento su larga scala e per questo strutturale, un po’ come se l’intero mattone della Repubblica popolare fosse stato declassato.
Addirittura, le obbligazioni corporate di alcuni gruppi cinesi hanno ricevuto più di un downgrade. Ad oggi nel gradino B3 negative o inferiore, dunque spazzatura, si posizionano i debiti di Evergrande, Groenlandia, Agile Group, Sunac, Logan, Kaisa e R&F. “Il nostro vasto downgrade riflette l’attuale ambiente operativo molto difficile per gli sviluppatori immobiliari cinesi, combinato con un ambiente di finanziamento ristretto per tutti loro” ...
L'articolo di Gianluca Zapponini continua a questo link:
https://formiche.net/2022/06/cina-mattone-evergrande-rating-moodys-covid/
Indebolito dalle defezioni, il governo Bennett-Lapid annuncia lo scioglimento. Israele tornerà al voto per la quinta volta in meno di quattro anni e Netanyahu punta a riprendersi la scena politica. In questo governo per la prima volta partecipava un partito arabo islamista ed era importante
Con la scusa di un’operazione di assistenza umanitaria, il regime di Daniel Ortega ha approvato l’arrivo di truppe dalla Russia con navi, aeronavi e materiale bellico, a due passi dagli Stati Uniti
Un’operazione di assistenza umanitaria per giustificare l’ingresso di navi, aeronavi e truppe russe in Nicaragua. Il regime di Daniel Ortega ha autorizzato l’arrivo dei militari russi attraverso l’Assemblea Nazionale del Nicaragua con l’obiettivo di “scambio e assistenza umanitaria in beneficio mutuo in casi di situazioni di emergenza per il secondo semestre del 2022”. Il sostegno sarebbe tra Paesi alleati, ovvero, Federazione russa, Venezuela, Messico, Cuba, Repubblica Dominicana ed El Salvador.
Secondo il decreto 10-2022, i militari russi potranno partecipare dal 1° luglio in “esercitazioni di addestramento e scambio di operazioni di aiuto umanitario, missioni di ricerca e salvataggio in situazioni di emergenza o disastri naturali, con le forze terrestri, forza aerea e forza navale dell’Esercito del Nicaragua”.
L’arrivo dei militari russi in America latina potrebbe essere interpretato come un’ulteriore provocazione o una minaccia reale per gli Stati Uniti. Olga Skabeeva, presentatrice di tv russa, ha commentato la missione in America latina molto esplicitamente quando ha diffuso la notizia: “Quando sistemi di missili americani possono quasi raggiungere Mosca dal territorio ucraino, per la Russia è il momento di cominciare qualcosa di potente vicino alle città degli Stati Uniti”.
La reazione degli americani è stata immediata. ...
L'articolo di Rossana Miranda continua questo link:
https://formiche.net/2022/06/militari-russi-nicaragua/