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Francesco va in Congo, tra 160 milizie in guerra per la terra più ricca del mondo

Il cuore della visita in Congo, gigante disperato, sarà il confronto con questo incredibile contrasto: ricchezza sotto il suolo, miseria sopra

Il primo dato che balza agli occhi è che a differenza del “mondo” il papa non cancella gli “altri” conflitti, le altre ferite nel corpo di una globalizzazione che non funziona e di imperialismi che funziona ancor meno. È in questa drammatica forchetta, evidenziata in tutta la sua drammaticità dal conflitto in Ucraina, che va collocato il senso di questo viaggio certamente “pericoloso”, lontano dai riflettori ma vicino al cuore del problema del mondo d’oggi: la globalizzazione non va, ma gli imperialismi vanno ancora di meno.

Il Congo ne è la riprova: qui si confrontano milizie contrapposte e armate dai potenti vicini, soprattutto il Rwanda e l’Uganda, e che da vent’anni insanguinano il Congo e in particolare modo l’area disperata del Nord Kivu. Il disastro del Congo sta infatti nella ricchezza del suo sottosuolo, che lo rende appetibile a tutti. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni. Il cobalto, di cui è ricco il Paese, finisce nelle mani dei cinesi. I diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali. Il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile, è gestito dal Ruanda. Nel Paese si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. 

Il risultato è costituito da 160 milizie armate, con un totale di circa 20mila combattenti. 


L'intero articolo di Cristiano Riccardo a questo link:

https://formiche.net/2023/01/francesco-congo-milizie-guerra/




Il Papa in Africa tra guerra e fame

Il papa torna per la quinta volta in Africa: dal 31 gennaio al 5 febbraio visita infatti la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, recuperando un viaggio previsto per luglio e rinviato per le necessarie cure al ginocchio. Il viaggio lo porta in due paesi da tempo stretti nella duplice morsa di guerra e fame: mentre i potenti - o i gruppi che rappresentano forze di potere avverse - si attaccano, la popolazione subisce e soffre. 


Il papa torna per la quinta volta in Africa: dal 31 gennaio al 5 febbraio visita infatti la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, recuperando un viaggio previsto per luglio e rinviato per le necessarie cure al ginocchio. Il viaggio lo porta in due paesi da tempo stretti nella duplice morsa di guerra e fame: mentre i potenti – o i gruppi che rappresentano forze di potere avverse – si attaccano, la popolazione subisce e soffre.
Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan sono da decenni teatro di scontri. Nel primo, fare il guerrigliero è diventato un mestiere, il che significa che il conflitto è connaturato allo status vigente: sono oltre 120 i gruppi armati e le milizie pronte a servire chi li paga. A ciò si aggiungono le tensioni anche con i paesi stranieri – uno tra tutti la Cina -, per il possesso delle ricchezze minerarie (oro e diamanti) come della foresta equatoriale (terreni e legno), la seconda più grande al mondo dopo quella amazzonica. E dove ci sono interessi e ricchezze da spartire, senza uno stato forte che le preservi mettendo al centro la propria gente e non la cassaforte, la pace è in pericolo non meno della vita della popolazione. Lo sa l’Italia, che il 22 febbraio di due anni fa vide colpire a morte il giovane ambasciatore Luca Attanasio. Lo sanno i cristiani dell’area a nordest del paese, sgraditi alle forze simpatizzanti dell’Isis: solo due settimane fa, in un attentato avvenuto in una chiesa, si sono avuti 17 morti e una quarantina di feriti gravi.

L'intero articolo di Simonetta Venturin a questo link:




La Fraternità avvicina il mondo

Dalla Siria, dal Ciad, dalla Russia e dall’Ucraina,

ascoltiamo in diretta voci di fratellanza.



Giovedì 2 febbraio: Auditorium M9 dalle 18.30 alle 19.45 

Mestre - Venezia 



Dopo lo storico evento della firma del documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune da parte del Papa e del Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2020 ha proclamato il 4 febbraio come  Giornata internazionale della fratellanza umana (documento A / 75 / L.52). Nel momento critico della  pandemia da COVID-19 che ha travolto tutto il mondo, questa decisione è apparsa subito come un grande segno di speranza universalmente condiviso, un invito al dialogo interculturale come stimolo per uscire dal dramma che tanto dolore ha portato in tutto il pianeta.

Anche la città di Venezia celebrerà questa Giornata Onu con l’evento “La Fraternità avvicina il mondo”, Giovedi 2 Febbraio 2023 presso l’M9 nell’Auditorium Cesare De Michelis Via Giovanni Pascoli 11, Mestre.

La Fraternità di Venezia è un’associazione nata ufficialmente nell’ottobre del 2021 grazie al desiderio di dialogo nato qualche anno fa tra il parroco della Cita don Nandino Capovilla e l’imam Hamad Mahamed della Comunità Islamica di Venezia e Provincia. Le origini Veneziane di Nandino e quelle siriane di Hamad a confronto, hanno fatto nascre un gruppo che, partendo da Marghera, si impegna per coltivare e far crescere quotidianamente lo scambio interculturale e interreligioso tra le comunità che vivono sul territorio. Nel documento firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio del 2019 leggiamo infatti: “In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.”.

L’originalità di questa serata, promossa dalla locale Fraternità di Venezia, è di chiamare la cittadinanza ad ascoltare in prima persona  le voci e i volti di chi, nei luoghi più segnati da guerre e tensioni, sogna e costruisce esperienze di fraternità.  

Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 29 gennaio

 






La nostra preghiera di Domenica 29 gennaio

INTRODUZIONE:

In questa quarta domenica del tempo ordinario siamo chiamati a meditare sulle beatitudini, alla luce del Vangelo secondo Matteo. I poveri nello spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati e assetati della giustizia in fondo sono tutti quelli che riconoscono la grandezza di Dio, consapevoli che sono solo pennelli del Suo disegno.

Il nostro punto di partenza della nostra gioia, della nostra beatitudine è il nostro pianto. Ed è proprio questo il messaggio di oggi. La santità non è aver pianto, ma è dare senso al nostro pianto.

 

INTENZIONI PENITENZIALI:

-        Per tutte quelle volte che abbiamo agito e vissuto senza cercarti Signore Kyrie eleison

-   Per tutte le volte che non abbiamo cercato la giustizia, ma per nostro interesse abbiamo chiuso gli occhi Kriste eleison

-        Per tutte le volte che non abbiamo cercato l’umiltà, ma abbiamo preferito l’apparire e l’avere Kyrie eleison

 

PREGHIERA DEI FEDELI:

1 Per la prima lezione Gesù ha scelto come argomento la felicità: Perché è la cosa che più ci manca, che tutti cerchiamo, in tutti i modi, in tutti i giorni. Perché la vita è una continua ricerca di felicità. E Dio vuole figli felici. Non una felicità dell’avere, ma dell’essere, non dell’apparire ma del servire. 

O Signore, perché sappiamo riconoscere ogni giorno i semi di felicità che spargi nel nostro cammino, preghiamo

 

2 Gesù pronuncia, con monotonia divina, per ben 9 volte la parola beati….è di più di un’emozione, è un invito ad andare avanti, a non fermarsi, a non arrendersi, a non lasciar cadere le braccia, ma a percorrere la strada verso cieli nuovi e terra nuova. O Signore che ogni giorno sappiamo vedere nel volto del povero, del misero, le beatitudini che tu ci hai manifestato.

 

3 Quante persone vediamo, conosciamo, parliamo…Ti ringraziamo Signore per tutte le persone che testimoniano ogni giorno le beatitudini: persone semplici, madri e padri, persone consacrate, persone che silenziosamente costruiscono strade di felicità sostienili sempre nel loro cammino. Preghiamo,

 

PRESENTAZIONE DELLE OFFERTE

IL passaggio della Liturgia della Parola alla Liturgia Eucaristica è scandito da un cambiamento del luogo dall’ambone all’altare. Per questo due ceri ai piedi dell’ambone sono portati all’altare, mentre gli altri due ceri ai piedi dell’ambone vengono spenti.

 

ANTIFONA DI COMUNIONE

sottolinea la continuità e l’unità della celebrazione: dalla mensa della Parola alla mensa Eucaristica. È un versetto del Vangelo proclamato proprio per dire che la Parola, Eucarestia e Comunione compongono un’unità inscindibile.

Mt 5,1-12 A – IV PA - Le Beatitudini

Beati quelli che rispettano la Torà nella quale Dio chiede al suo popolo di far in modo che “nessuno tra di voi sia povero” (Dt 15) e, rispecchiano quello che viene detto in Atti (4,32-37) “tra di loro non c’erano poveri”. In altre parole: Beati sono coloro che, mossi dallo Spirito di Dio, operano come lui piegandosi sui bisognosi. Coloro che non si comportano così, non sono “beati”.

La scorsa domenica Matteo ci ha detto che Gesù, saputo dell’arresto di Giovanni, ha lasciato la Giudea e, attraversando la Galilea delle Genti si è spostato a nord, a Cafarnao sulla cosmopolita Via del Mare. Qui ha iniziato a percorrere la zona, insegnando nelle sinagoghe, guarendo gli ammalati risanandoli dalle infermità che ne limitavano la possibilità di partecipare alla vita sociale e religiosa. Ha anche chiamato qualcuno di quelli che incontrava facendoli suoi discepoli, non chiedendo loro di fare un altro mestiere, ma di svolgere il loro non guardando solo al proprio interesse, ma al bene comune.

 

Oggi Matteo ci presenta Gesù che dalle Sinagoghe si sposta all’aperto perché tutti possano ascoltare il suo messaggio accolto da non solo da ebrei ma anche da stranieri. Per poter parlare a tutti sale su di una altura e gi discepoli gli si avvicinano. È in questi ultimi che, in controluce, possiamo vedere Mosè che salì sul Sinài avvicinandosi a Dio, mentre il popolo è rimasto alla base del monte; lì ricevette le due tavole con le Dieci Parole che poi trasmise al popolo in attesa. Similmente Gesù consegna le Beatitudini ai discepoli che sono chiamati a trasmetterle a tutti coloro che accolgono il loro annuncio.

Queste costituiscono il “manifesto” di Gesù che è una giustamente famosa pagina evangelica, fonte però anche di incomprensioni che a volte ne hanno pure fatto travisare il senso, spingendo a una spiritualità che poco ha a che vedere con il loro profondo significato e in contraddizione con quello delle intere Scritture ebraico-cristiane.

Sono dunque necessarie alcune precisazioni iniziando ad osservare che lo stile letterario delle beatitudini non le ha “inventate” Gesù: se ne incontrano spesso negli scritti e poemi antichi per esempio in Omero, ma anche nella Bibbia ricorrono in 44 occasioni, come nel Salmo 1 che inizia con: “Beato l’uomo che …”.

Altre due sottolineature importanti riguardano il loro numero e il numero delle parole che le compongono. Sono 8 (più una che riguarda solo i discepoli) per ricordare il giorno della Risurrezione che, come si sa, avvenne il primo giorno della settimana, il giorno dopo il sabato, cioè l’ottavo giorno, a simboleggiare il giorno dell’inizio della nuova creazione.

Settantadue sono le parole che compongono le Beatitudini a rappresentare tutti i popoli allora conosciuti e indicati in Genesi 10, per dirci che non riguardano solo gli ebrei o i discepoli di Gesù ma tutti gli uomini di ogni popolo, lingua e nazione.

La prima (Beati i poveri) e l’ultima Beatitudine (Beati i perseguitati) hanno il verbo al presente mentre tutte le altre lo hanno al futuro; significa che queste due, chiosando l’insieme, ne danno l’accento, la chiave interpretativa e determinano tutte le altre.

Luca scrive “Beati i poveri”, Matteo aggiunge una particella che può essere tradotta ugualmente con tre preposizioni nostre: diin o per lo Spirito. Certamente non “di” Spirito, cioè un “beati” a chi manca, è carente di Spirito (non sarebbe colpa sua ma di Dio che, invece, ama tutti in modo uniforme e indistinto). Nemmeno “in”, cioè quelli che pur essendo ricchi, ne vivono distaccati. È invece corretto “per” lo Spirito, cioè beati quelli che, spinti dallo Spirito, si fanno poveri con i poveri, sofferenti con i sofferenti; beati quelli che scelgono di farsi vicini a tutti, che si mettono a disposizione con tutto quello che hanno, che non trattengono nulla per sé stessi se non il necessario.

Facendo questo rispettano la Torà nella quale Dio chiede al suo popolo di far in modo che “nessuno tra di voi sia povero” (Dt 15) e, rispecchiano quello che viene detto in Atti (4,32-37) “tra di loro non c’erano poveri”. In altre parole: Beati sono coloro che, mossi dallo Spirito di Dio, operano come lui piegandosi sui bisognosi. Coloro che non si comportano così, non sono “beati”.

Beati perché di loro è il Regno dei Cieli”. Luca invece scrive “perché vostro è il Regno di Dio”. Il perché della differenza va cercata nella diversità di coloro ai quali i due evangelisti scrivono. Matteo lo fa per un uditorio che è in maggior parte composto da ebrei (è a loro che chiede anche ai discepoli di rivolgersi in maniera privilegiata) e, quindi, non può nominare il nome del Signore per loro proibito e lo sostituisce con “i cieli”. Poco prima aveva annunciato che il “Regno dei Cieli è vicino” e, in sintonia con gli altri evangelisti, desidera dirci che non solo che si è avvicinato, ma che noi ci siamo già a contatto di gomito, siamo già dentro: il regno della misericordia del Padre è sceso su di noi, tra di noi, è con noi; dobbiamo solo accorgercene.

Sotto questa luce vanno lette tutte le altre beatitudini: quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia perché nel Regno non ci saranno più bisogni e differenze; i misericordiosi che non è un sentimento, ma coloro che rendono presente l’amore del Padre in questa nostra realtà perché, quando vedono un altro nel bisogno, sentono come proprio il suo dolore che lo spinge ad intervenire.

Beati gli operatori di pace, quelli che costruiscono attivamente lo Shalom che non è semplicemente l’assenza di guerra, ma indica coloro che operano per l’integrità di ogni persona, cercando di offrirle gli strumenti per raggiungere quella pienezza alla quale è vocata e per la quale è stata chiamata alla vita. Sono questi che già ora vivono e sanno di vivere nel Regno dei Cieli: infatti il verbo è al presente.

Certa è anche un’altra cosa: il vivere secondo le beatitudini non comporta l’applauso della società, ma la persecuzione, l’emarginazione e questo sarà la prova che si sta vivendo secondo la volontà del Padre che contraddice la logica del mondo. Ecco perché anche qui il verbo è al presente.

(BiGio)

 

È possibile trovare gioia, qui e ora, nel vivere le beatitudini?

Le beatitudini sono precisi comportamenti che vanno assunti nel cuore e vissuti realmente, manifestati nella vita quotidiana. Le beatitudini sono comportamenti che ci chiedono una fatica e un prezzo alto da pagare.

Gesù sale sulla montagna e proclama il grande discorso sulle esigenze della nuova alleanza tra Dio e l’umanità: un’alleanza non fondata sulla paura del castigo e della punizione, ma una vera comunione segnata dalla beatitudine e dalla gioia

Quando leggiamo le beatitudini siamo invitati ad accoglierle come invito e pungolo a interrogarci sulla nostra sequela del Signore e sulla nostra gioia di uomini e donne cristiani, perché le beatitudini riguardano non solo il nostro rapporto con la fede che professiamo, ma anche il nostro rapporto con ciò che noi viviamo giorno dopo giorno e il rapporto con la gioia che alberga nel nostro cuore.

Sappiamo tutti bene che la gioia di noi umani deriva dal dare un senso alla nostra vita, un orientamento, una direzione; dal conoscere una ragione per cui vale la pena vivere e dare la vita. Proprio le beatitudini ci consentono di ridisegnare questo percorso di senso per la nostra vita.

Gesù ci rivela che la beatitudine non deriva da condizioni esterne; non viene dal benessere o dalla ricchezza; non viene dal piacere o dal successo e non deriva nemmeno da quella sensazione vaga e troppo spesso egoistica che oggi chiamiamo: “stare in pace con sé stessi e con gli altri”. Niente di tutto questo. Le beatitudini sono precisi comportamenti che vanno assunti nel cuore e vissuti realmente, manifestati nella vita quotidiana. Le beatitudini sono comportamenti che ci chiedono una fatica e un prezzo alto da pagare.

Per nove volte Gesù indica dei comportamenti che sono destinatari della promessa di gioia da parte di Dio. Chi cerca di assumere questi atteggiamenti ascoltando le parole di Gesù può conoscere quella gioia profonda che è più forte anche del pianto, della fatica, dell’ingiustizia e della persecuzione. 

Ecco la domanda decisiva: è possibile trovare gioia, qui e ora, nel vivere le beatitudini? La nostra fede dice che è possibile. Ma questa risposta non è trionfale e non si impone agli occhi del mondo. 

Nel nostro quotidiano nascosto, nella nostra solitudine, certamente il Signore farà regnare la sua beatitudine nel nostro cuore. E in questo cammino noi non siamo soli, perché siamo sostenuti da quanti ci hanno preceduto nella storia: i santi del cielo. Loro che ormai vivono la pienezza della beatitudine continuano a esserci compagni di viaggio, avvolgendoci come grande nuvola che ci accompagna.

(fr Emiliano - Bose) 

Memoria, un nuovo percorso

«Perché sarei sopravvissuta/ se non per testimoniare/ con la mia vita con ogni mio gesto/ con ogni mia parola/ con ogni mio sguardo./ e quando avrà termine questa missione?/ Sono stanca della mia/ presenza accusatrice,/ il passato è un’arma a doppio taglio/ e mi sto dissanguando./ Quando verrà la mia ora/ lascerò in eredità/ forse un’eco all’uomo/ che dimentica e continua e ricomincia...». 

(«Perché sarei sopravvissuta», in Il tatuaggio, Guanda, 1975). 


A partire da questi versi di Edith Bruck, scrittrice e poetessa sopravvissuta alla Shoah, dobbiamo porci una domanda: che cosa significherà trasmettere la Memoria quando l’ultimo testimone ci avrà lasciato? Indubbiamente documenti di testimonianza come questo dovranno essere accompagnati con le voci di chi verrà dopo. Nel caso della Shoah conservare queste storie significa salvaguardare non solo il loro contenuto verbale ma anche le sensazioni, i gesti, gli odori, i suoni. La moltiplicazione delle forme documentali dovrebbe includere tutti questi aspetti, permettendo la loro permanenza. La memoria oggi è costruita sulle nostre domande e ancora sulle voci dei testimoni, ma dovrà essere sempre più accompagnata da un confronto serrato con la storia, i suoi testi, le rimozioni, le negazioni, le distorsioni e il nuovo antisemitismo. La memoria è un atto selettivo e non un deposito indifferenziato di ricordi accumulati nel tempo. La ricostruzione del passato deve essere affrontata facendo i conti con le tante rimozioni storiografiche e politiche che ancora albergano nel dibattito pubblico.
Particolarmente difficile sarà far convivere questi mondi lontani: la testimonianza di chi ha subìto l’immane dolore e la scena che si aprirà dopo l’“era dei testimoni”.  

La riflessione di Deborah D’Auria continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202301/230125dauria.pdf




Il Cristianesimo non è una “religione del libro”

L’ultimo libro del defunto pontefice Joseph Ratzinger s’intitola Che cos’è il cristianesimo? Il quotidiano “La Repubblica” del 17 gennaio scorso ne riporta alcune pagine dedicate al dialogo con l’Islam – un tema di grande interesse e di primaria importanza già oggi, ma più ancora nel prossimo futuro. 

Tra le altre cose Ratzinger mette in luce tre grandi differenze che ci sono tra Bibbia e Corano (in realtà sono molte di più). Una è questa: la Bibbia, a differenza del Corano, non pretende di essere stata scritta materialmente da Dio che, come sappiamo, non ha scritto nulla, tranne i Dieci Comandamenti, su due tavole di pietra, per ben due volte, dato che Mosè, vedendo il popolo di Dio in festa intorno al suo nuovo dio – un vitello d’oro – in un impeto d’ira aveva spezzato le due prime tavole (Esodo 32, 19), benché fossero state scritte «con il dito di Dio» (31,18) e quindi erano davvero «scrittura di Dio» (32,16)  Pazientemente Dio aveva poi riscritto il Decalogo su altre due tavole di pietra: «L’Eterno scrisse sulle tavole le parole del patto, le dieci parole» (34,28), cioè i Dieci Comandamenti. Dio, secondo la Bibbia, non ha scritto altro, o meglio ha scritto e continua a scrivere molto altro, non però «con inchiostro, ma con lo Spirito di Dio, e non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne» (II Corinzi 3,

3). Resta il fatto che Dio non ha scritto la Bibbia, l’ha certamente ispirata, ma non l’ha scritta. I musulmani invece pensano che Dio stesso abbia scritto il Corano, in cielo.
Come per i cristiani la Parola, che è Dio, si è incarnata in un uomo, Gesù di Nazareth, per i musulmani si è incarnata (se così si può dire) in un libro, il Corano.
I cristiani affermano che «la Parola è stata fatta carne» (Giovanni 1,14), non Libro. Ratzinger ha dunque perfettamente ragione quando, con altre parole, ma uguale sostanza, mette in luce questa profonda differenza e conclude giustamente che il cristianesimo – contrariamente a quello che molti pensano e dicono – «non è una religione del Libro». Sbaglia però completamente quando afferma che la Riforma protestante, con il principio del sola Scriptura, ha fatto sì che «il cristianesimo appaia come una religione di libro», e cita, tra l’altro, la critica mossa al sola Scriptura dal grande storico e teologo Adolf von Harnack, massimo esponente del protestantesimo liberale. In realtà Harnack criticava il “biblicismo”, cioè il letteralismo biblico, che identifica la Lettera con la Parola. Adoperando un’immagine, possiamo paragonare la Lettera alla culla e la Parola al bambino nella culla. Il letteralismo biblico, purtroppo, identifica la culla con il bambino, confondendoli. Il letteralismo biblico, però, non è affatto presente solo in alcuni settori del protestantesimo; ricorre purtroppo in tutte le confessioni cristiane, compreso il cattolicesimo romano.
L’errore maggiore di Ratzinger riguarda la sua idea secondo cui il sola Scriptura avrebbe trasformato il cristianesimo (protestante) in una «religione del Libro». Non è affatto così. Sola Scriptura ha fin dall’inizio sempre significato solum Verbum, «solo la Parola», ovvero quello che Lutero chiamava «l’Evangelo orale», la viva Parola annunciata, il Christus praedicatus. Il cristianesimo protestante, come quello apostolico, è una religione della Parola, non del Libro. Certo, questa Parola è custodita di generazione in generazione nella Scrittura, che dichiariamo sola non nel senso che non ne conosciamo altre e ascoltiamo solo quella escludendo tutte le altre, ma nel senso che solo quella Parola ha l’autorità ultima per la fede, a lei sola prestiamo l’ubbidienza della fede. Tutte le altre parole umane, religiose o laiche, per quanto importanti e anche autorevoli possano essere, le sono subordinate.
Nessuna le è superiore. Solo la Parola che, per l’azione dello Spirito, incessantemente emerge dalla lettera della Scrittura dov’è custodita, è Parola che libera, salva, perdona, converte, consola, illumina, orienta. Di tante cose l’anima può fare a meno, ma non di questa Parola che è la sua stessa vita.
Certo, la Parola non è mai solitaria, è accompagnata e manifestata nel Battesimo, nel pane e vino 
della Cena e nelle opere buone per il prossimo, che sono come il corpo della fede. Ma tutto è opera della sola Parola nel soffio creatore dello Spirito. Quindi affermiamo il sola Scriptura nel XXI secolo come lo affermarono e praticarono nel XVI secolo tutti i Riformatori perché, come loro e – riteniamo – la Chiesa degli apostoli, interpretiamo il cristianesimo, fondamentalmente, come una religione della Parola, non della Lettera né del Libro 

(Paolo Ricca)

Pura coincidenza o coincidenza im-pura? La città dell’assassino ricco e la città del santo dei poveri

Quasi “due città” si sono confrontate, nello stesso giorno, a Palermo: quella che ha permesso e protetto la ricca latitanza di 30 anni di un pericoloso assassino e quella che ha accompagnato e custodito la vita pura di un santo dei poveri. Cosimo Scordato e Francesco Romano aiutano a dipanare questa “coincidentia oppositorum” e questa evidenza di contraddizioni interne alle nostre società e comunità. 


Che rapporto c’è tra la cattura di Matteo Messina Denaro e la celebrazione del funerale di Biagio Conte in cattedrale?  Una pura coincidenza o forse meglio una coincidenza im-pura? Cosa vogliamo dire? Nello stesso giorno si compiono due avvenimenti di segno totalmente contrario: da un lato, Messina Denaro, ancora vivo, viene scoperto in cura presso una clinica privata dopo avere seminato lutti e morte intorno a sé; dall’altro lato, la salma di Biagio Conte viene portata in processione da una folla, che lo considera vivo perché ha seminato speranza e vive nel cuore di tutti!

La coincidenza im-pura dei due avvenimenti e l’accostamento tra due persone ci fa capire meglio in che cosa si divaricano le modalità dello sviluppo; in direzione e oltre Messina Denaro si muove la società la quale, non solo attraverso il sistema mafioso ma anche con le aggressioni finanziarie e le corruzioni organizzate, legittima colui che ha e che tende ad avere sempre smisuratamente di più; in direzione e oltre Biagio Conte si muove la società che coltiva l’essenzialità della vita.


L'intero contributo a questo link:




Multinazionali, in Occidente meno del 9% sono uscite dalla Russia

I dati evidenziano che, al netto delle dichiarazioni roboanti e di chi fornisce servizi essenziali, sono ancora tantissime le aziende Ue e G7 a mantenere, o addirittura consolidare, la propria presenza nel Paese di Putin. E in Italia…


L’invasione russa dell’Ucraina ha provocato una risposta imponente da parte dell’Occidente geopolitico, specie da parte delle aziende, che si sono mosse in massa – anticipando, talvolta, le sanzioni – per interrompere le proprie attività in Russia e minimizzare la quantità di denaro che sarebbe finito a foraggiare lo sforzo bellico del Cremlino. O perlomeno, questa era l’impressione. A conti fatti, e nonostante le grandi promesse, pare che solo l’8,5% delle aziende con sede in Unione europea e nei Paesi G7 sia realmente uscita dal Paese, disinvestendo (anche solo in parte) dalle proprie filiali russe.
Tra le realtà troppo “affezionate” alla Russia primeggiano le aziende tedesche (il 19,5% delle aziende rimaste), seguite da quelle statunitensi (12,4%), giapponesi (7%) e italiane (6,3%). 

L'intero articolo di Otto Lanzavecchia a questo link:



Israele, la terra e l’anima

Quello che segue è il testo del discorso pronunciato dallo scrittore israeliano David Grossman dal palco della manifestazione di sabato a Tel Aviv (alla quale hanno partecipato più di 100 mila persone) contro la riforma della Giustizia annunciata dal premier Netanyahu.

Incontro sempre più persone, soprattutto giovani, che non vogliono continuare a vivere qui. Che si sentono alienati da quanto accade e ciò li rende, a malincuore, degli estranei in patria. Israele come lo conosciamo oggi ha smesso di essere la loro casa e, per non soffrire a causa di questo senso di estraneità, si sono rifugiati in una sorta di “esilio interiore”.
È una sensazione che comprendo, ma fa male. Perché lo Stato di Israele è stato fondato per essere il luogo nel mondo in cui ogni ebreo, e il popolo ebraico, si sentano a casa. E se così tanti israeliani si sentono “esuli nel proprio Paese”, è chiaro che qualcosa sta andando storto.
Mi sembra che molti condividano questo sentire, gente di destra, di centro e di sinistra, ebrei e arabi, laici e religiosi. Quelli che sono stati sconfitti alle elezioni e persino quelli che hanno vinto: ossia coloro il cui giubilo di vittoria non riesce a nascondere quella sottile sensazione di panico quando constatano il vero prezzo del loro trionfo, e soprattutto quando iniziano a configurare i volti dei partner con cui condividono la vittoria.
Nel ricorrere del 75mo anniversario dalla sua fondazione, Israele si trova di fronte a una lotta fatale sulla propria identità: sui tratti della sua democrazia, sul ruolo dello Stato di diritto, sui diritti umani. Sulla libertà di creazione e sulla libertà di espressione artistica.
Sull’autonomia dell’informazione pubblica.
Si tratta di una lotta contro leggi volte a istituzionalizzare il razzismo e la discriminazione, a umiliare le minoranze. Una battaglia contro politici cinici, alcuni dei quali corrotti, determinati a ridefinire la giustizia in modo unilaterale, antidemocratico. E in un batter d’occhio.
Amiche e amici, lo so, non è facile uscire di casa e manifestare settimana dopo settimana, rimanendo imbottigliati nel traffico, a volte per ore. Ma ciò che stiamo facendo qui è un atto di grande risveglio. È l’inizio del ritorno dall’esilio – soprattutto quello interiore, paralizzante – verso casa.
In questa folla enorme e variegata, ci sono quanti – come me – cui brucia nei cuori e toglie il sonno il futuro dei diritti Lgbt o dell’istruzione, così come dell’occupazione (dei Territori palestinesi, ndt ). Sono qui in piazza con noi rappresentanti di molte organizzazioni che nel quotidiano non si occupano di proteste. E c’è anche chi – come nelle precedenti manifestazioni – da sempre si identifica con la destra.
Tutte queste persone oggi sono pronte a mettere da parte, per un po’, la propria agenda, per unirsi attorno alla cosa più importante, critica e urgente.
E lo facciamo perché, dietro al programma unilaterale e oppressivo della “riforma giudiziaria”, vediamo una casa in fiamme.
E capiamo che se lo Stato di diritto viene danneggiato in maniera critica anche tutte le altre battaglie importanti si disintegreranno gradualmente.
Per tutti questi motivi mi rifiuto di essere un esule in patria e penso sia così anche per voi. Altrimenti non saremmo qui.
Manifestiamo perché ci rifiutiamo di essere passivi, ci rifiutiamo di rimanere indifferenti. Ci rifiutiamo di essere esuli nel nostro Paese.
Adesso è il momento, amiche e amici, è l’ora buia. Ora è il momento di alzarsi e gridare che questa terra è parte della nostra anima. Ciò che accade oggi determinerà cosa ne sarà di essa, chi saremo noi e chi saranno i nostri figli.
Perché, se lo Stato di Israele sarà così diverso e lontano dalla speranza e dalla visione che lo hanno creato, si può dire che in un certo senso – un pensiero terrificante – non sarà più.

Ma se vogliamo – e ovviamente noi lo vogliamo – che lo Stato di Israele continui a esistere e a prosperare, non deve allontanarsi dalla speranza e dalla visione sulla cui base è stato creato. Voi – centotrentamila persone riunite qui stasera – voi siete la speranza, voi siete la visione, voi siete l’opportunità.



Dieci anni di editing genetico, e poi? Le nuove frontiere secondo Novelli

I vantaggi del gene targeting in protocolli di terapia genica sono diversi. La correzione del difetto genico avviene in modo specifico al locus genomico difettoso, quindi può essere applicato nella cura di tutte le malattie genetiche, indipendentemente dalle dimensioni del gene. Ma le applicazione saranno molte di più in futuro. L’analisi di Giuseppe Novelli, Università di Roma Tor Vergata, presidente Fondazione Lorenzini, Milano


La tecnologia del gene editing nell’uomo è stata sperimentata con successo per il trattamento dell’anemia falciforme, della beta-talassemia, dell’amiloidosi da transtiretina (TTR) e per alcune malattie oculari congenite. Sono in corso studi sperimentali per curare malattie rare come la progeria, l’immunodeficienza grave, l’ipercolesterolemia familiare, e alcuni tumori.
Nell’agricoltura e nella zootecnica questa tecnica è ormai diventata necessaria e ha sostituito tutte le tecniche tradizionali di produzione e di allevamento. Nelle piante ad esempio, tutti i tradizionali metodi di ingegneria genetica delle colture che prevedevano mutagenesi casuale (ad esempio, con radiazioni) o transgenesi con Agrobacterium seguita da laboriosi incroci e screening per identificare una pianta con una nuova caratteristica di interesse, sono stati sostituiti dall’editing genico preciso e accurato.

L'intero interessante articolo a questo link:





Sondaggio ISPI: Gli italiani e la politica internazionale

A quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, aumentano tra gli italiani i timori di una crisi economica legata alla guerra e alla crisi energetica, così come l’incertezza circa l’esito del conflitto, mentre la paura della pandemia arretra. Ma c’è anche altro che scorre, sottotraccia. Come il progressivo ma continuo allontanamento tra la Cina e l’Occidente. O l’ambivalenza verso l’Ue: da un lato minore fiducia nel Parlamento europeo a causa del Qatargate, dall’altro voglia di investire in un esercito unico europeo.


Giunto ormai al suo nono anno, il sondaggio ISPI realizzato da IPSOS rivolge agli italiani alcune domande chiave sulla politica internazionale degli ultimi dodici mesi. Cosa pensano gli italiani degli eventi cruciali dell’ultimo anno e dei trend di fondo della politica internazionale? Quali sono le principali minacce per l’Italia? E come giudicano gli italiani i rapporti con i principali partner europei e internazionali?

Otto i temi trattati. Ecco i titoli che riassumono le risposte avute:
1. Minacce, Italia: torna lo spettro della crisi economica, crolla la pandemia
2. Alleati nel mondo: è il momento delle scelte (di campo)
3. Russia, la bestia nera del mondo
4. … ma bisogna diffidare anche di Pechino
5. Ucraina: sempre meno certezze
6. … salvo che sull’ingresso in UE
7. Il Qatargate “sfiducia” il Parlamento europeo
8. Difesa: l’unione fa la forza

La descrizione dettagliata e i risultati a questo link:

 

È boom di dimissioni In nove mesi lasciano 1,6 milioni di lavoratori

Le uscite volontarie in crescita del 22%% I giovani rivedono le priorità dopo il Covid Il fenomeno è più diffuso nelle aziende del settore tecnologico e informatico  


La crisi del lavoro non molla l'Italia ma sempre più persone, a quanto pare, non sono comunque disposte a tenersi un'occupazione sgradita pur di incassare uno stipendio. Esplode come in tutto il resto del mondo il fenomeno delle dimissioni. Nei primi nove mesi del 2022 oltre un milione e 600 mila persone, nel nostro Paese, hanno abbandonato l'impiego, con una crescita del 22 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Si tratta di un fenomeno ben noto negli Stati Uniti che lo hanno battezzato Great Resignation, la grande fuga da uffici, fabbriche e negozi. Si parla di effetto post Covid. Molti lavoratori di ritorno dallo smartworking, dopo aver sperimentato i benefici del lavoro agile da casa, con pochi orari e senza il fiato sul collo del capo, non sono disposti a tornare indietro alla vecchia scrivania. Ma c'è di più. I giovani in particolare, attratti dal miraggio di mettersi in proprio, rinunciano a contratti poco pagati e demansionati rispetto agli studi effettuati. Meglio aspettare la prossima occasione che vivere infelici, precari e con pochi soldi in tasca. In particolare per chi opera nel settore tecnologico e informatico.            
Il fenomeno delle Grandi dimissioni, secondo i calcoli dell'agenzia specializzata Randstad, è cresciuto del 44% negli ultimi 18 mesi e nel 76% dei casi si tratta, appunto, di millennials. Fra le cause principali ci sono l'insoddisfazione, la demotivazione e la mancanza di obiettivi. 
La cultura organizzativa deve riconfigurare il benessere come una dimensione connessa alla quotidianità, al senso del lavoro, a obiettivi condivisi e condivisibili. Le persone portano il bisogno di sentirsi protagoniste nella quotidianità professionale.

(dall'articolo per Il Gazzettino di Michele Di Branco)



Nella "Domenica della Parola" la nostra liturgia e la nostra preghiera

 

Introduzione alla Liturgia della "Domenica della Parola"

 

Siamo il popolo di Dio chiamato a gioire della luce del Signore, siamo il popolo di Dio chiamato a radunarsi per lodare le meraviglie che Dio opera nella nostra vita, siamo il popolo di Dio riunito per ascoltare la sua Parola, siamo il popolo di Dio raccolto attorno al Pane della vita.

Vogliamo oggi accogliere l’invito, rivolto da papa Francesco, di dedicare la Liturgia della III domenica del Tempo Ordinario alla Parola di Dio. 

Quest’anno ci viene chiesto di sottolineare l’unità delle tre parti della Liturgia e come la Parola Proclamata sia la stessa celebrata nella Liturgia Eucaristia, come pure nei Riti di Comunione e Conclusione.

Per questo oggi, come segno di particolare attenzione, il libro dei Vangeli sarà portato nella processione d’ingresso e posto sull’altare. 


Intenzioni penitenziali

 

Signore, tu ti proponi come luce per la nostra vita, ma noi spesso preferiamo le tenebre del peccato. 

Abbi pietà di noi.                    

 

Cristo, tu ci chiami a camminare insieme come fratelli, ma noi scegliamo di schierarci gli uni contro gli altri.

Abbi pietà di noi.                    

 

Signore, tu predichi la conversione e la tua vicinanza, ma noi rimaniamo distratti nella nostra comodità.

Abbi pietà di noi.                    

 

Introduzione alla Liturgia della Parola

 

Il titolo di questa Domenica della Parola è “Annunciatori della Parola” un’e­spressione tratta dalla Prima lettera di Giovanni: «Vi annun­ciamo ciò che abbiamo vedu­to».

Per “annunciare” siamo chiamati a “vedere” nelle nostre tenebre la “grande luce” portata da Gesù, al medesimo modo nella quale la videro tanti uomini di popoli, nazioni e religioni diverse che frequentavano la Via del Mare, nella Galilea delle Genti. Una realtà cosmopolita come la nostra. 

Qui Gesù “cammina”, “chiama”, “insegna”, “guarisce” ed “esorcizza” illuminando la vita di chiunque incontra. Invita anche a noi a seguirlo e a fare altrettanto. A chi accoglie il suo invito non promette nulla, ma affida una missione. Non chiede di cambiare mestiere ma di viverlo a favore degli altri.


 

Preghiera dei Fedeli

R.: Ascoltaci Signore

Padre, tu che hai mandato Gesù Cri­sto ad annunziare il lieto mes­saggio ai poveri, la liberazione ai prigionieri e a predicare il tem­po di grazia, fa diventare sempre più missionaria la tua Chiesa e la nostra Comunità. Aiutaci a renderci capaci di accogliere e abbracciare ogni uomo di ogni lingua, nazione, situazione di vita. R. 

Signore, tu che non ci chiedi di aderire a una nuova dottrina ma ad avere compassione di ogni uomo, aiutaci a renderci capaci come tu ci hai mostrato e insegnato a chinarci su ogni fragilità, aiutando e dando strumenti perché tutti possano trovare l’integrità della loro umanità. R.

 

Signore, tu ci chiami costantemente, aiuta chi accoglie il tuo invito a seguirti, di fare senza remore quanto tu chiederai, come fece il popolo di Israele sotto il Sinài che promisero di seguire la Torà che tu non avevi ancora dato. R.

 

Padre, aiuta noi e tutti i credenti di tutte le Chiese a cercare l’unità perché questa è la tua volontà in attesa di quando porrai definitivamente la tua tenda fra gli uomini, abiterai con noi e saremo i tuoi popoli e tu sarai il Dio-con-noi. R.

 

Padre, in questa Domenica della Parola ti preghiamo di aiutare papa Francesco a guidare alla luce della tua Parola che è la tua volontà, la tua Chiesa in questi momenti dove sembra prevalere il Divisore sull’unità. R.

 

 

Introduzione alla Processione di Presentazione delle Offerte

 

Il passaggio dalla Liturgia della Parola alla Liturgia Euca­ristica è scandito da un cam­biamento di luogo: dalla sede dell’Ambone all’Altare.

Per significare questo, due dei ceri ai piedi dell’Ambone sono portati solennemente dall’ambone all’altare, mentre gli altri due ceri ai piedi dell’ambone vengono spenti.

Nel gesto umile e semplice di presentare il pane e il vi­no si palesa un significato molto grande: si porta all’altare tutta la creazione che è assunta da Cristo Redentore e presentata al Padre per essere trasforma­ta nel suo Corpo e nel suo Sangue.

  

Riti di Comunione e di Conclusione


Quello che abbiamo offerto – il nostro cibo, la nostra vita, noi stessi e il mondo intero – lo abbiamo offerto in Cristo e come Cristo, perché egli stesso ha assunto la nostra vita. Tutto questo ora ci è restituito come dono di vita nuova e quindi come “cibo”.

Per questo ora pregheremo con solennità l’Antifona di Comunione che è un versetto l’Evangelo prima proclamato per affermare che la Parola avvolge ogni parte delle nostre celebrazioni:

Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce” (Mt 4,16)


Quando ci è stata consegnata la Comunione, al ministro che ce la offre dicendo: “Il Corpo di Cristo” abbiamo risposto “Amen” in modo forte e chiaro) perché con questo si esprimiamo: la nostra fede nel Signore – nella Chiesa – nella vita che siamo chiamati a vivere come quel “Corpo di Cristo” che diventeremo partecipando al Pane unico.

 

Preghiera Litanica dopo la Comunione:

Presidente

Tutti

Tu apri gli occhi ai ciechi

La tua Parola è luce ai miei passi

Con te non inciampa il mio piede

La tua Parola è luce ai miei passi

Tu m’insegni a vivere in libertà

La tua Parola è luce ai miei passi

La tua dottrina riempie mio cuore

La tua Parola è luce ai miei passi

Sento il tuo messaggio di gioia

La tua Parola è luce ai miei passi

Tu m’insegni giudizio e saggezza

La tua Parola è luce ai miei passi

I tuoi comandi sono un canto sulle mie labbra

La tua Parola è luce ai miei passi

Seguire te, Signore, è la mia gioia

La tua Parola è luce ai miei passi