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Italia: in forte ribasso la pratica religiosa confermato dai dati

I dati più recenti (e attendibili) sulla pratica religiosa in Italia riguardano l’anno 2022 (anno perlopiù libero dalle restrizioni del lockdown) e illustrano il seguente scenario: chi partecipa ad un rito religioso almeno una volta alla settimana (per i cattolici, la messa alla domenica) è circa il 19% della popolazione; per contro, sono assai più numerosi quanti in quell’anno non hanno mai frequentato un luogo di culto (31%), se non per eventi particolari, come i riti religiosi di passaggio (battesimi, matrimoni, funerali).


Messi insieme, i «praticanti assidui» e i «mai praticanti» ammontano al 50% degli italiani, il che significa che l’altra metà della popolazione rientra in quel vasto gruppo di persone che frequenta un luogo di culto in modo discontinuo (circa una volta al mese o più volte l’anno) o occasionale (una tantum), magari nelle grandi festività.

I dati qui esposti provengono dall’Indagine multiscopo dell’ISTAT (svolta su un campione assai ampio e rappresentativo di popolazione italiana – qui il grafico coi risultati) che, tra le varie informazioni, rileva anche la frequenza con cui le persone si recano in chiesa o in un altro luogo di culto.

Questi dati sulla pratica religiosa, dunque, non concernono soltanto le chiese e le messe cattoliche; ma, per la particolare configurazione religiosa del nostro paese, nel quale ancor oggi circa il 70% della popolazione dichiara un’appartenenza al cattolicesimo, sono ampiamente applicabili a ciò che succede in campo cattolico.

Alla domanda dell’ISTAT hanno risposto direttamente i soggetti con più di 14 anni, mentre per i minori dal 6 ai 13 anni la risposta è stata fornita dai genitori. ...


 Il noto sociologo Franco Garelli illustra i dati dell'inchiesta a quello link:


http://www.settimananews.it/societa/italia-forte-ribasso-pratica-religiosa/

Italiani, “gente di poca fede”

Nel libro “Gente di poca fede”, il sociologo Franco Garelli indaga su come sta cambiando il rapporto degli italiani con la fede e la religione.

Un titolo suggestivo, ma bifronte, che si applica a ciò che succede nella maggioranza della popolazione. Da un lato, segnala la stanchezza religiosa che da tempo sta vivendo il cattolicesimo nel nostro paese, visto che ancor oggi molti italiani non spezzano il legame con la “casa madre” (e la tradizione) pur standosene perlopiù ai margini. Dall’altro, richiama il detto di Gesù che la fede debole è un tratto dell’umano di ogni epoca, per la difficoltà di tutti (avvertita anche dai cristiani più virtuosi) di rapportarsi a un grande messaggio religioso.

Quindi, “gente di poca fede” non è uno stigma, quanto la presa d’atto che – per molti – la modernità avanzata non ha sradicato i riferimenti religiosi, ma li ha resi più fragili e incerti. Una fragilità che si confronta giorno dopo giorno sia con la presenza dinamica di nuove fedi e culture, giunte a noi attraverso la rete e le migrazioni; sia con il diffondersi nel paese delle posizioni ateo-agnostiche.

L'intera intervista al sociologo Franco Garelli a questo link:

http://www.settimananews.it/religioni/garelli-italiani-gente-poca-fede/



Il senso del viaggio del papa in Mongolia, per “sperare insieme”

 Andare in Mongolia non è un’eccentricità, ma una scelta ecclesiale molto chiara e che si aggiunge a quella di ridare smalto all’impegno cattolico in Asia. Incastrata tra Cina e Russia la Mongolia presente in sé delle sfide rilevantissime. 


Perché il papa attraversa il mondo per andare in un Paese tanto lontano quanto sconosciuto come la Mongolia e popolato da appena 1500 cattolici? In realtà la storia potrebbe parlare anche in Mongolia di una presenza antica, che risale ai tempi dell’impero mongolo, al XIII secolo. Ma poi i cattolici vi sono tornato nello sventurato Ottocento, poi è cominciata la stagione del comunismo e solo nel 1991 sono state stabilite relazioni diplomatiche. Il cristianesimo e il cattolicesimo ovviamente sono dunque apparsi quasi di conseguenza logica un qualcosa venuto da fuori e da lontano. Si trova anche in questo il senso del motto del viaggio, “Sperare insieme”, cioè la negazione di ogni intento annessionista o omologazionista, ma anche la conferma di una fratellanza nella società mongola e in quella dei popoli.


L’analisi di Riccardo Cristiano continua a questo link: 





Tre domande sulla violenza maschile

Da dove nasce la violenza maschile? Chi è responsabile della violenza maschile? Cosa possiamo fare per eliminare la violenza maschile? Tre domande a cui dare alcune risposte dopo l’ennesimo caso di violenza sulle donne.

Sono successe cose. Le motivazioni della sentenza per una violenza sessuale - accertata - che ha visto assolvere i due stupratori perché l’errata percezione della volontà della ragazza avrebbe impedito, e cito testualmente, di “ritenere penalmente rilevante la loro condotta”. In sintesi: sì, hanno abusato di lei, non hanno rispettato la sua volontà e violato il suo consenso, ma è colpa del porno e non colpa loro.

Poi c’è stata lo stupro di gruppo avvenuto a Palermo, che per ora sembra quello che in America chiamano “open and shut case”, sette ragazzi di cui uno minorenne che si gettano - e sono parole loro, prese dai loro messaggi - come “cento cani su una gatta” e ne abusano per “farle passare il capriccio”, perché “la carne è carne”, poi se ne vanno tranquilli in rosticceria

. E quando scoprono che lei li ha denunciati, si ripromettono di cercarla e prenderla a testate. 

E prima ancora il bidello dei dieci secondi, le reazioni alle accuse a Leonardo La Russa, i casi delle molestie nell’ambiente della pubblicità, insomma, ci troviamo in un momento.

La novità rispetto al solito, mi pare, è questa: con ogni incidente di questo tipo che finisce in cronaca, aumenta il numero degli uomini che entrano in maniera visibile e centrata nella conversazione sulla cultura maschile e sulla responsabilità degli uomini nel cambiamento. C’è qualcosa nell’aria ...


L'intera riflessione di Giulia Blasi, scrittrice e conduttrice programma radiofonici, continua a questo link:


 

Gli ultimi scontri a Tripoli ci ricordano che in Libia comandano le milizie e l’incontro tra la ministra degli Esteri e il suo omologo israeliano

Decine di morti e feriti a Tripoli per un regolamento di conti tra bande rivali. La Libia è ancora un hotspot di caos nel Mediterraneo allargato. Con il passare del tempo, i gruppi armati libici si sono sviluppati e sono diventati parte delle istituzioni di sicurezza statali, ricevendo finanziamenti anche dal governo. Da lì le milizie hanno messo le mani su altre realtà economiche e di potere nel Paese. La mancanza di un governo centrale forte ha permesso la proliferazione di questi gruppi armati

Il comandante della 444a brigata, Mahmoud Hamza, la cui detenzione ha scatenato scontri mortali a Tripoli, è stato rilasciato. Qualche decina di morti (da 27 a 55 dicono le fonti libiche) e un centinaio di feriti ci ricordano, se ce ne fosse bisogno, che la Libia è uno stato in mano alle milizie. Gruppi armati fino ai denti che rappresentano centri di potere di vario genere — dagli idrocarburi al traffico di esseri umani — e che si spartiscono il territorio e il diritto a controllarlo. Senza elezioni da un decennio, con governi imposti dalle istituzioni internazionali come (debole) soluzione per trovare una via di stabilizzazione, la Libia è ancora un bubbone tra Nordafrica e Sahel, che ha tuttora un posto nelle dinamiche del Mediterraneo allargato e di chi ha interesse a renderle caotiche.
Mentre la calma è apparentemente tornata a Tripoli, i fatti di questi giorni sono solo l’ultimo di una serie di scontri di questo genere, e rappresentano un quadro di instabilità sostanziale. Le milizie hanno assunto una posizione via via più dominante nel sistema/Paese libico, anche perché i vari fronti politici si sono legati a esse per ricevere protezione e garantirsi posizioni. Il governo che Abdelhamid Dabaiba guida attraverso un mandato, scaduto, ricevuto tramite le Nazioni Unite, è per esempio molto connesso alle milizie, e la permanenza dell’incarico è stata anche frutto di una sistemazione con i gruppi mediata dallo stesso primo ministro. In questa fase in cui si stanno creando i presupposti per un nuovo esecutivo — frutto di un accordo Est-Ovest che potrebbe anche portare alle elezioni — e con Dabaiba non intenzionato a lasciare, le tensioni aumentano. Lo sfogo militare in Libia è (per quanto assurdo) quasi una conseguenza naturale.         
Il panorama delle milizie libiche ha le sue radici nei gruppi informali di combattenti sorti in seguito al rovesciamento del lungo regime del dittatore Muammar Gheddafi nel corso della rivoluzione del 2011. 

La corrispondenza di Emanuele Rossi continua a questo link:


L’incontro tra la ministra degli Esteri e il suo omologo israeliano a questo link:


Nicaragua: padre Sosa (gesuiti), “Sorpresa e dolore per l’ingiusta misura del sequestro e della confisca dei beni dell’Università Centroamericana di Managua”

L’Università Centroamericana del Nicaragua (Uca) sarà sottoposta a sequestro e trasferimento dei suoi beni mobili e immobili allo Stato nicaraguense, così come dichiarato dalla Compagnia di Gesù, fondatrice dell’Ateneo, che ha reso nota anche la notifica da parte del decimo Tribunale Penale di Managua, con la quale si accusa l’Uca di essere “un centro di terrorismo, che organizza gruppi criminali”.


La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù nega le accuse contro l’Università, definendole “totalmente false e infondate” e affermando che “si tratta di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario”. La Compagnia di Gesù, nel suo comunicato, ritiene anche “il governo del Nicaragua responsabile di tutti i danni contro gli studenti, il personale docente e amministrativo e gli altri lavoratori dell’Università, e il patrimonio culturale del Paese, che derivano da tale accusa ingiustificata e dall’ordine di sequestrare tutti i beni immobili, mobili ed economici dell’Università a favore dello Stato”. L’Uca ha quindi sospeso le sue attività accademiche e amministrative fino a quando non sarà possibile riprenderle normalmente.
L’Uca nasce nel 1963 ad opera dei gesuiti come istituzione educativa senza scopo di lucro, autonoma, di servizio pubblico e di ispirazione cristiana. L’Associazione delle Università affidate alla Compagnia di Gesù in America Latina (Ausjal), di cui fa parte, descrive la decisione del governo nicaraguense come un attentato all’autonomia universitaria, alla libertà accademica e ai diritti umani. “Chiediamo alle autorità nicaraguensi – dichiara l’Osservatorio della democrazia dell’Ausjal – di cessare immediatamente l’occupazione dell’Uca. Chiediamo anche che si permetta alla comunità accademica di riacquistare la sua libertà e la sua capacità di contribuire allo sviluppo intellettuale e sociale del Paese”.

(Agensir)

Goa, i nazionalisti indù chiedono l'arresto di un sacerdote per una omelia

A un sacerdote dello stato indiano di Goa è stata concessa la "libertà provvisoria" dopo che la polizia ha registrato un procedimento penale contro di lui per aver "ferito i sentimenti indù" in una omelia


A un sacerdote cattolico dello stato indiano di Goa è stata concessa la "libertà provvisoria" l'8 agosto dopo che la polizia ha registrato un procedimento penale contro di lui per aver presumibilmente "ferito i sentimenti indù" con le sue osservazioni su un re indù durante una messa domenicale a luglio.

Gruppi indù avevano inscenato manifestazioni davanti alla stazione di polizia chiedendo che venissero formulate accuse penali contro padre Bolmax Pereira, parroco della chiesa di San Francesco Saverio a Chicalim, nell'arcidiocesi di Goa.

Pereira ha spiegato nella Messa postata su YouTube che il re indù del XVII secolo Chatrapati Shivaji "era un eroe nazionale ma non un dio".


L'articolo continua a questo link:

https://www.acistampa.com/story/goa-i-nazionalisti-indu-chiedono-larresto-di-un-sacerdote-per-una-omelia?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=269918273&_hsenc=p2ANqtz--3ZwjTlLwtzx_gaFkh6RfznWPepbCN7ET3PNM6-KoEKnwN4syt3QQqG42JnYpeWl042qktpkBR5cqsuvOHBe6XIjwv6w&utm_content=269918273&utm_source=hs_email





Domenica XXI PA - Mt 16,13-20

Oggi la Liturgia ci propone Gesù che prova a verificare quanto abbiamo realmente compreso della sua missione e quindi della sua identità, perché ciò che facciamo dice chi siamo molto più delle narrazioni che facciamo di noi stessi. Poi svela a Simone di Giuda la sua realtà: è il primo mattone (non la roccia), della Comunità.

Nelle domeniche precedenti la Liturgia ci ha proposto Gesù che cerca di far comprendere ai suoi discepoli quale sia la sua missione dalla quale dipende anche la comprensione di chi sia lui.

In Galilea ha parlato apertamente scontando incomprensioni e contestazioni; ha allora iniziato a parlare in parabole prendendo spunto dalla natura e dalla vita quotidiana: non è andata molto meglio. Certo, i discepoli avevano affermato di aver capito però quando sono passati sull’altra riva, quella dei pagani, hanno fatto resistenza. Non avevano intuito la pedagogia di Gesù che a quel punto li accompagnava ad annunciare che il Regno dei Cieli anche tra i non ebrei invitandoli ad accoglierlo. L’insistenza della donna fenicia li aveva infastiditi, l’elogio della sua fede da parte di Gesù lasciati perplessi.

 

Oggi la Liturgia ci propone Gesù che prova a verificare quanto abbiamo realmente compreso della sua missione e quindi della sua identità, perché ciò che facciamo dice chi siamo molto più delle narrazioni che facciamo di noi stessi.

Si trova con i discepoli molto a nord in territorio pagano, vicino alle sorgenti del Giordano sul monte Hermon, in una zona molto fertile e rigogliosa nella quale uno dei figli di Erode, Filippo, aveva fondato la sua capitale nella parte da lui ereditata del regno alla morte del padre. I discepoli hanno ben presente chi sia il re in questa zona che, come tutti i potenti, è considerato una persona fortunata, ricca che vive negli agi.

Ecco allora che la prima domanda che Gesù pone loro su chi lui sia per la gente. È un invito a dire cosa vedono in lui, cosa rappresenti per loro e, questo, quasi in controluce a quel Filippo considerato invidiabile: chi non avrebbe voluto essere al suo posto? In fin dei conti anche noi a volte desidereremmo essere al posto di qualcuno che consideriamo essere più riuscito di noi per capacità, posizione, ricchezza, fascino o altro.

Rispondere a questa domanda significava anche riferire che cosa si attendessero da lui. Filippo poteva elargire ricchezza, posizioni privilegiate, vita sfarzosa; ma cosa si attendevano le persone da Gesù? Certamente nulla su questo piano e allora?

I discepoli, al plurale (quindi si può immaginare che intervengono in più di uno), riferiscono che riconoscono in lui una autorità non mondana e che il popolo vede delle somiglianze con il Battista, con Geremia, con Elia o comunque un profeta. Quindi vedono un ebreo con la schiena diritta che vive semplicemente, oppure uno che contesta il potere del tempio e una religione fatta di riti o, ancora, uno che rifiuta ogni compromesso e che è disposto ad andare avanti per la sua strada fino alla fine.

C’era già da rimanere soddisfatti a queste risposte che esprimono un mix nel quale è riconoscibile lo stile di vita di Gesù. Ma non si accontenta e desidera ora capire cosa i discepoli si aspettino da lui e questo dipende da chi pensino lui sia: avranno capito? In fin dei conti si era svelato bene quando aveva camminato sulle acque andando verso la barca agitata dalle loro mille tensioni e dubbi (i venti che la scuotevano). Giobbe lo dice chiaro: è solo Dio che cammina sulle onde del mare.

Quindi: “Ma voi, chi dite io sia?” Voi che mi state seguendo, davvero volete unire la vostra vita alla mia? ma avete davvero capito quale è la mia missione? Il Padre vi ha invitato ad ascoltarmi, cioè a condividere con me la vostra vita fino ad identificarvi con me, fino ad essere la mia voce, fino diventare le mie mani.

Qui risponde solo Simone figlio di Giona: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio il vivente”. Gesù a questo punto gli dice che è “beato” non perché ha fatto quell’affermazione (non sono certo le sue aspettative umane di una vita piena di soddisfazioni che lo ha portato a farla), bensì perché ha saputo cogliere il dono di conoscenza che il Padre gli ha fatto. 

Anche per noi non sono percorsi filosofici che ci portano alla fede, ma è un dono offerto a tutti che alcuni colgono, altri non se ne rendono conto, ma che viene riproposto continuamente senza stancarsi: non siamo forse quella perla preziosa nascosta che il Padre cerca ponendo una attenzione costante fin tanto che non viene scoperta?

Allora Gesù svela l’identità di Simone a lui stesso e lo chiama Pietro ma attenzione all’equivoco imperante nella storia della Chiesa: in greco “pètros” è un sasso, un mattone mentre, “pètra” è la roccia solida che nella Scrittura è un attributo esclusivamente di Dio. Pietro allora è solo il primo mattone sul quale Gesù costruisce la comunità che professa la sua fede nel Messia, Figlio di Dio, morto e risorto, ma la roccia sulla quale è costruita la casa rimane Lui, non altri.

Certo, affida a Pietro le chiavi e dei compiti ma non per questo ne diventa il “padrone” e, poco più avanti (tra due domeniche sarà proclamato nell’Evangelo), questi stessi compiti saranno affidati all’intera comunità.

Inoltre quel primo mattone subito dopo dimostrerà che non aveva affatto capito di quale Messia si trattasse e Gesù gli darà del “satana” (domenica prossima). Ma proprio per questo quel pescatore galileo diviene il primo fra i discepoli, perché ha sperimentato sulla sua pelle la misericordia e il perdono del Signore anche dopo averlo disconosciuto durante la Passione. Questo fa di lui un testimone vero della misericordia di Dio, che è tutto il messaggio della Chiesa. 


Ma per noi, chi è Gesù?

(BiGio)

Nel riconoscere l’identità di Gesù Pietro riceve la propria

Sarà lo scorrere del tempo, sarà la nostra vita a manifestare se davvero abbiamo accolto e fatta nostra la rivelazione del Padre: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”


Il vangelo di Matteo, come quello di Marco, precisa la collocazione geografica della confessione di Pietro. Gesù si trova a Cesarea all’estremo nord di quella che era considerata terra di Israele; la città era stata ricostruita verso il 3 a.C. da Erode Filippo, che le dato il nome di Cesarea in onore dell’imperatore Cesare Augusto. Di fronte a questa città, Gesù interroga i discepoli: “Gli uomini chi dicono che sia il Figlio dell’uomo?”. I pareri sono tanti e diversi. Lo erano attorno ai discepoli, lo sono attorno a noi. 

Ma Gesù poi rivolge la domanda direttamente ai discepoli: “Voi, chi dite che io sia?”. Lo chiede ai discepoli, lo chiede a ciascuno di noi. Pietro risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. È giunto a questa confessione di fede dopo un lungo cammino dietro a Gesù, con Gesù e i suoi discepoli;è   confessione che nasce dalla rivelazione del Padre che è nei cieli. Pietro l’ha accolta, ma dovrà passare molto tempo prima che la faccia veramente sua, prima che comprenda fino in fondo il senso di queste parole. Dovrà lasciarsi abitare da questa domanda, attraversare cadute e smarrimenti, e proprio al cuore dei momenti di crisi, imparerà a capire che il Cristo è il Figlio del Dio vivente, del Dio che vive accanto a noi tutti giorni fino alla fine del mondo e che vuole troviamo la vita nel suo Figlio. Pietro è uno dei piccoli a cui il Padre si è rivelato (cf. Mt 11,25); Gesù dichiara che su di lui, “pietra” edificherà la sua chiesa. 

Nel riconoscere l’identità di Gesù Pietro riceve la propria, confessa la sua fede/fiducia nel Signore, riceve fiducia da parte del Signore, ma deve restare piccolo, soltanto a questa condizione può restare pietra su cui viene edificata la comunità cristiana. E invece, immediatamente dopo l’annuncio che gli è stato rivolto, Pietro si sente grande, talmente grande da voler essere lui a indicare la via al Signore, una via senza passione e senza croce. Immediata e decisa la risposta: “Torna dietro a me, Satana!”. Simone può avere due nomi: Pietro e Satana. Affascinante l’evangelo, meravigliose le Beatitudini, ma Pietro, come anche noi, vorrebbe un vangelo senza croce. 

Pace, amore: chi non li desidera? Ma Gesù sa e annuncia ai suoi che la sua via di amore incontrerà il rifiuto da parte degli uomini; Pietro e noi con lui ci ribelliamo: “Non sia mai, Signore: questo non ti accadrà mai!”. Dietro a quel “non ti accadrà mai”, c’è il “non ci accadrà mai”. Rifiutiamo la via seguita dal Signore. In questi versetti risuona l’annuncio della passione, morte e resurrezione. Gli uomini daranno la passione e la morte, ma il Dio vivente richiama alla vita. La morte non è l’ultima parola. 

“Voi chi dite che io sia?”: la domanda ci accompagna lungo il corso della nostra vita. Sarà lo scorrere del tempo, sarà la nostra vita a manifestare se davvero abbiamo accolto e fatta nostra la rivelazione del Padre: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.

(sr Lisa di Bose)

La porta, il gemito, la luce. Il funerale di Michela Murgia

La sua volontà era ferma e chiara: Michela Murgia ha voluto che il suo fosse un funerale politico e che fosse celebrato nel rito religioso, cattolico. Le esequie di sabato 12 agosto, nella chiesa romana degli artisti in Piazza del Popolo hanno tenuto insieme a modo loro i due elementi di questa volontà che non era affatto velleitaria, superficiale, ma esprimeva la duplice, indivisibile corda del cuore di Michela, del suo profilo di credente, del suo carattere di cittadina e del suo mestiere di scrittrice.


Certo, non mancano voci di sciacalli: quelli che imperversano nell’insinuare che tutto questo era ostentativo, sbordante, fuori luogo. Non ci si libera facilmente dai tanti povericristi che, nello spazio virtuale e non solo, appesi al chiodo della loro ignoranza e logorati dalla malafede, disseminano zizzania, sporcano i pensieri, minaccino la convivenza.

Ma chi come me era lá, nella gremita chiesa o nell’assolata piazza antestante, ha visto un’altra cosa, ha raccolto un altro messaggio, è stato attraversato da altri pensieri. Più puliti, più veri, più sani. Vivendo le ore intense di quel pomeriggio d’agosto, come amico da anni di Michela e a lungo in conversazione con lei su teologia, etica, forme di vita, ho capito e pensato ancora più a fondo la verità del legame tra i due aggettivi, da lei voluti per il suo funerale: politico e religioso. La cifra comune ai due sfondi è che non si vive da soli; per questo neppure si muore da soli. E che non ogni insieme crea comunità, ma solo quello che si esprime nella cura reciproca. Ci sono insiemi che – lo aveva scritto Michela tempo fa – producono gregge, ammassano le volontà, spengono le identità. E ci sono forme dello stare insieme che diventano vere perché prendono a cuore il sogno comune di una convivenza giusta, rispettosa di ciascuna e di ciascuno, nelle diversità che si mettono in sintonia. Proprio questo gioco di comunità è il terreno condiviso dall’esperienza religiosa e dall’esperienza politica. E fa di ambedue risorse che possono convivere, che non si escludono a vicenda. Al contrario, esse ...

La riflessione di Antonio Autiero (Professore emerito di teologia morale all'Università di Münster) continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202308/230815autiero.pdf





Riconoscersi in una donna

Un bellissimo libro che ho avuto modo di leggere quest’estate mi offre d’altra parte una chiave di lettura particolare per un evento – la morte di Michela e, in particolare, il suo congedo con un funerale tanto religioso da essere politico e tanto politico da essere religioso – di cui è stato detto tutto il male possibile da chi non l’ha conosciuta né c’era e che resta invece impresso nella mente e nel cuore di chi c’era come un momento alto di fede in Dio e negli «uomini che egli ama» (Lc 2,14). Comprese, magari, anche le donne!


Lo ha scritto con grande efficacia Antonio Autiero su La Stampa del 15 agosto: quando le parole della liturgia e il racconto della vita, sia pure in modo ancora un po’ incerto e goffo forse, si snodano le une accanto alle altre e si intrecciano le une alle altre, il popolo piange e dice amen perché si crea la comunità di coloro che sentono di essere lì perché sono stati «convocati»: dalla vita e dal Dio della vita.

Del resto, nel libro della legge di Mosè che viene proclamata da Esdra, sacerdote e scriba, a coloro che erano tornati dalla deportazione non ci sono certo scritti solo i dieci comandamenti, possibilmente nella versione del Catechismo di Pio X come alcuni similcredenti analfabeti biblici pretendono, ma si tratta piuttosto, come ritengono alcuni studiosi, del Pentateuco attuale dove sono raccolte, accanto a tante norme, anche tante storie, più o meno mitiche e, soprattutto, più o meno edificanti e tante aspirazioni intramontabili. Ed è a tutto questo grande racconto che il popolo dice «amen» piangendo (Ne 8,1-8).

La riflessione della teologa Marinella Perrone continua a questo link:

 

La Chiesa si interroga sulla teologia queer di Michela Murgia

Come i gatti sulla soglia. «Quando la porta è chiusa piangono perché venga aperta, quando la porta è aperta si mettono dall’altra parte e piangono per rientrare», raccontava Michela Murgia: «È una condizione di molti credenti, che dentro la Chiesa soffrono per angustia, per mancanza di respiro, spesso per un limite palese di adeguamento allo stare nel tempo presente... dall’altro lato quando stai fuori piangi perché la porta si riapra».


La scrittrice era ospite del pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma per un atto accademico in onore della teologa Marinella Perroni, l’amica che ha ispirato la scrittrice sarda a «perdonare alla Chiesa il fatto di non essere all’altezza della parola di Dio soprattutto in relazione alle donne», ha scritto la stessa Murgia anni dopo, sul numero speciale di Vanity fair che ha diretto poche settimane fa: «La Chiesa deve fare ancora passi da gigante ma io posso starci dentro e fare in modo che magari quei passi possano andare più veloci». La professoressa ora si schermisce: «Che responsabilità mi ha assegnato... quando ci incontravamo – racconta – parlavamo di fede e teologia, da donne, da femministe, da intelligenti, sentendoci dentro la Chiesa... semplicemente perché è casa nostra. Credo che questo atteggiamento per Michela fosse la possibilità di recuperare una Chiesa – non una fede! – con la quale sentiva a fatica di poter essere in comunione».

Si erano conosciute tredici anni fa in una sperduta parrocchia della Sardegna. Tennero una conferenza sull’opportunità di «risarcire» le donne nella Chiesa, il prete accennò una protesta dicendo che nella sua parrocchia le donne erano valorizzate. «Con perfetto tempismo un’anonima voce femminile si levò dalla platea e scandì seccamente questa memorabile chiosa: “Per pulire, don Marco!”»....

L'articolo di Iacopo Scaramuzzi continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202308/230818scaramuzzi.pdf



Forum della Via della Seta. Ecco perché Xi non invita Macron, Scholz e Meloni

La presenza di Putin è un deterrente per i vertici europei. Ma il tabloid cinese Global Times ribatte: alcuni di loro non sono stati neppure invitati. Un favore al leader ma anche a loro


Fervono i preparativi per il terzo Belt and Road Forum, che d ottobre celebrerà il decennale dal lancio dell’iniziativa infrastrutturale (ed espansionistica) inaugurata dal leader cinese Xi Jinpingmeno di un anno dopo il suo insediamento. L’appuntamento è a ottobre. Tra i leader annunciati c’è Vladimir Putin. Nei giorni scorsi sia Aleksandar Vučić, presidente serbo, sia Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (una delle entità della Bosnia-Erzegovina), hanno fatto sapere di essere pronti a incontrare il leader russo.

Potrebbe essere un favore da parte di Pechino ai leader europei: non vi abbiamo invitato così non dovete dirci di no vista la presenza di Putin. Ma potrebbe anche essere un favore di Pechino a Pechino, considerato quanto osservato da Barkin e l’importanza per il Partito comunista cinese di inviare segnali di compattezza e forza tanto all’esterno quanto all’interno in un momento economicamente e politicamente complicato.

E in questo caso l’Italia ha una posizione particolare....

L'articolo di Gabriele Carrer continua a questo link:

Diplomazia pontificia, Papa Francesco e la Georgia, Papa Francesco e l’Ucraina

La scorsa settimana si è celebrato il 15esimo anniversario della invasione russa dell’Ossezia. È una guerra congelata, che forse dice in controluce quello che può succedere in Ucraina. E intanto il Papa lavora per una mediazione per la pace

L’invasione russa dell’Ossezia, quindici anni fa, doveva essere un campanello di allarme. Di fatto, quello che succede nelle regioni della Georgia, che ha perso il 20 per cento del suo territorio a seguito dell’invasione russa, potrebbe essere un esempio di quello che può succedere in Ucraina, laddove la Russia ha invaso con la scusa di difendere una minoranza e ora si trova in una guerra da più di 500 giorni.

Intanto, Papa Francesco avrebbe dato la sua benedizione agli Emirati Arabi affinché si impegnino ad organizzare un incontro tra il presidente ucraino Zelensky e quello russo Putin a margine del COP 28 di Abu Dhabi. Dopo aver così dato alla Cina una sorta di riconoscimento internazionale nel suo ruolo per la mediazione, con la preparazione del viaggio del Cardinale Zuppi nel Paese, il Papa riconosce anche agli Emirati un ruolo chiave. ...

L'articolo di Andrea Gargliarducci continua a questo link:

https://www.acistampa.com/story/diplomazia-pontificia-papa-francesco-e-la-georgia-papa-francesco-e-lucraina?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=270077819&_hsenc=p2ANqtz-_gmwxmaIFcpIXxXQnzARyNIWxxjGjGryi2jT119xWliFhJQ63vqlFZMWBHGFkmfDXEtOlfCeV4LanSIbVdUVukzWxfXA&utm_content=270077819&utm_source=hs_email



"Il pomeriggio del cristianesimo". La sintesi di un libro interessante e stimolante

All'inizio dell'estate si era consigliato la lettura di questo libro.
Qui si presentano alcuni paragrafi conclusivi nei quali l'autore sintetizza le sue proposte sperando di invogliarne la lettura integrale.




A questo link:

https://docs.google.com/document/d/1sNULPxGB1sMpXLUzrIXShmcCtlryIyz-/edit?usp=share_link&ouid=114460325361678368396&rtpof=true&sd=true



Israele spiazzato dalla mossa palestinese di Riad

La mossa saudita di ampliare le credenziali dell’ambasciatore in Giordania sulle questioni palestinesi e sulle attività consolari a Gerusalemme Est mette in difficoltà Israele. Stress test mentre Washington negozia la normalizzazione tra Riad e Tel Aviv

Il dialogo in corso da tempo per trovare una normalizzazione nei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, tramite l’aiuto statunitense, ha avuto nei giorni scorsi una complicazione. I funzionari israeliani sono stati colti alla sprovvista dall’annuncio saudita di nominare un inviato per la Palestina che avrebbe anche il ruolo di console generale a Gerusalemme.

Riad ha reso pubblico che sarà l’ambasciatore ad Amman, Nayef al Sudairi, ad andare a ricoprire il doppio ruolo per la questione palestinese e per gli affari consolari israeliani. Israele ha escluso domenica qualsiasi eventuale missione fisica a Gerusalemme per quello che diventerà il primo inviato saudita presso i palestinesi. Un post sui social media della sua ambasciata ha detto che sarà anche “console generale a Gerusalemme”.

Riad dice che la decisione sarà un modo per facilitare il dialogo sulla soluzione a due Stati ...

Il report di Emanuele Rossi continua a questo link:

https://formiche.net/2023/08/israele-arabia-saudita-palestina/



La controffensiva ucraina, la ‘linea Surovikin’ e la prossima fase dell’invasione russa

Quella di adattamento è una delle capacità distintive della guerra contemporanea, una di quelle che può fare la differenza tra vittoria e sconfitta. Ne è la dimostrazione il modo in cui, nelle ultime settimane, si sta sviluppando la controffensiva che le forze armate ucraine hanno intrapreso all'inizio di giugno contro la forza d'invasione russa.

Per capire quanto la capacità di adattamento di entrambi gli eserciti sia decisiva nell'orientare l'andamento di questo conflitto è necessario riavvolgere il nastro del tempo di qualche mese quando, nel novembre del 2022, le truppe della Federazione Russa, comandante allora dal generale Surovikin, abbandonano, in quello che la leadership del paese invasore definisce "un gesto di buona volontà", la riva sinistra del fiume Dnipro.
La realtà è più aspra di quanto le dichiarazioni ufficiali diano ad intendere....

L'attenta e curata analisi a cura di Flavio Pintarelli continua a questo link: https://www.valigiablu.it/controffensiva-ucraina-a-che-punto-e-agosto-23/



Nagorno-Karabakh. Blocco del corridoio di Lachin. Appello del Patriarca Minassian, “è un crimine contro l’umanità e nessuno fa nulla”

“Avevano promesso di mantenere la via aperta e invece il corridoio è rimasto circondato e bloccato ormai da 6/7 mesi. È un crimine, un crimine contro l’umanità. Ci sono bambini, vecchi, malati, persone affamate. E di fronte a questo scenario di disperazione, nessuno fa nulla. Si dichiari almeno che è in atto un nuovo genocidio”. È Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, patriarca di Cilicia degli armeni, a lanciare un grido di denuncia su quanto sta accadendo attorno al corridoio di Lachin. E aggiunge: “L’Europa, gli Stati Uniti, la Russia, tutte le grandi potenze mondiali sono testimoni di un genocidio del 21° secolo ma non fanno nulla”, dice. “Anche nel 1915, gli ambasciatori di tutto il mondo erano presenti, sono stati testimoni di quello che stava accadendo ma non hanno fatto nulla per fermare il genocidio. Oggi quella storia si ripete”


“Arrivano notizie sempre negative. Avevano promesso di mantenere la via aperta e invece il corridoio è rimasto circondato e bloccato ormai da 6/7 mesi. E’ un crimine, un crimine contro l’umanità. Ci sono bambini, vecchi, malati, persone affamate. E di fronte a questo scenario di disperazione, nessuno fa nulla. Si dichiari almeno che è in atto un nuovo genocidio”. Raggiunto telefonicamente dal Sir, Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, patriarca di Cilicia degli armeni, lancia un grido di denuncia su quanto sta accadendo attorno al corridoio di Lachin, un piccolo fazzoletto di terra del Caucaso meridionale (11.458 chilometri quadrati) di cui nessuno purtroppo parla. Il Lachin è l’unico collegamento terrestre tra il Nagorno-Karabakh e la Repubblica d’Armenia, ed è di fatto bloccato dall’Azerbaigian dal 12 dicembre 2022. Nonostante la dichiarazione trilaterale del 9 novembre 2020, la circolazione regolare di persone, veicoli e merci è gravemente compromessa e ciò mette a rischio la vita di 120 000 armeni, di cui 30 mila sono bambini, che vivono nel Nagorno-Karabakh.

Nei giorni scorsi, anche il Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc) e la Conferenza delle Chiese europee (Cec) sono scesi in campo inviando una lettera congiunta all’Unione europea, per chiedere di attivarsi affinché sia immediatamente tolto il blocco. I due organismi ecumenici parlano di “livelli tragici” di “privazioni e sofferenze prolungate dei civili”, di “popolazione stremata, completamente isolata, senza cibo, medicine, elettricità e carburante”


L'articolo di denuncia di M. Chiara Biagioni continua a questo link:


https://www.agensir.it/europa/2023/08/11/blocco-del-corridoio-di-lachin-appello-del-patriarca-minassian-e-un-crimine-contro-lumanita-e-nessuno-fa-nulla/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2




Polveriera Africa: anche il Senegal rischia un conflitto

Ousmane Sonko, a capo del partito Pastef, all’opposizione è stato arrestato e ha iniziato uno sciopero della fame

Non si placano le tensioni in Senegal. Il leader dell'opposizione senegalese Ousmane Sonko, a capo del partito Pastef, arrestato qualche settimana fa, ha iniziato uno sciopero della fame il 30 luglio scorso. Giunto all’ottavo giorno di astinenza dal cibo, è stato ricoverato in un ospedale di Dakar a causa di un serio aggravamento delle sue condizioni generali.

Il suo partito, dopo aver annunciato il ricovero, ha puntato il dito contro le autorità governative colpevoli, secondo il Pastef, di una vera e propria persecuzione nei confronti di Sonko che mira a sconfiggerlo con campagne di diffamazione e a suon di condanne per reati che non avrebbe commesso, data la crescita smisurata del suo consenso nel paese da un paio di anni a questa parte.

L'articolo di Luca Attanasio continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202308/230810attanasio.pdf



XX Domenica PA - Mt 15,21-28

Ora è “il tempo opportuno per un altro passo, per l'accoglienza anche di chi il Deuteronomio votava allo sterminio, quei popoli disprezzati, popoli che non hanno nessun diritto, se non quello di essere sottomessi e dominati.


Abbiamo lasciato i discepoli che, dopo aver visto camminare sulle onde del mare in tempesta Gesù, la risposta positiva alla richiesta di Pietro di raggiungerlo, il suo timore di non riuscirlo a fare, il salvataggio da parte del Signore, si erano prostrati dichiarando “Tu sei veramente il figlio di Dio” e, nel loro concepire l’essere figlio di, significava non tanto l’essere stati generati da qualcuno, ma l’assomigliarvi nella sua essenza. Realtà che era stata confermata dal Padre stesso nella Trasfigurazione.

I venti forti che scuotevano la barca erano la ritrosia dei discepoli di andare sulla sponda opposta del lago, terra abitata dai pagani e la non comprensione del perché Gesù volesse andarvi quando era stato lui stesso ad invitarli a non fermarsi tra quelli, ma di annunciare l’Evangelo solo “alle pecore perdute di Israele”.

 

Oggi la Liturgia ce li fa ritrovare in quelle terre verso Tiro e Sidone abitate da persone che, con un’espressione molto dura, gli israeliti paragonavano ai cani perché non circoncisi, cioè pagani che adoravano degli idoli fatti da mani d’uomo di pietra o altri metalli.

Quando “ecco una donna cananea”, cioè fenicia, uno di quei popoli che, secondo il libro del Deuteronomio (20,16-17), devono essere votati allo sterminio, quindi popoli disprezzati, popoli che non hanno nessun diritto, se non quello di essere sottomessi e dominati.

Questa donna “si mise a gridare: Pietà di me, Signore, Figlio di Davide”, cioè la donna lo invoca come quel messia tradizionale atteso che, come il re Davide attraverso la violenza e la sua potenza, avrebbe conquistato di nuovo il regno di Israele, sottomettendo e dominando tutte le popolazioni pagane. Ma Gesù “non le rivolse neppure una parola”.

La donna però continuava ad invocare pietà, allora “i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Mandala via perché ci viene dietro gridando!»” infastidendoci. La Cei traduce “esaudiscila” ma il termine usato è un imperativo significa esattamente “cacciala, mandala via” ed è lo stesso verbo che Matteo ha adoperato nell'episodio della condivisione dei pani, quando i discepoli vogliono “mandare” via la folla senza avere, né mostrare alcuna solidarietà con questa.

Strano questo atteggiamento di Gesù normalmente pronto a rispondere ad ogni appello ma, questa volta, desidera far fare un preciso cammino alla donna e ai discepoli. Rivolgendosi a questi ultimi ripete l’invito che aveva fatto loro quando aveva delineato la loro missione: lui è stato mandato solo alle pecore perdute della casa di Israele.

La donna riprende ad invocarlo, questa volta lo chiama solo “Signore” tralasciando l’identificazione con il tipo di Messia davidico: è un passo avanti ed allora Gesù le risponde direttamente che “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cani”. I discepoli assistono al dialogo: un maestro che parla direttamente con una donna e inoltre pagana, c’è da rimanere contaminati e, in ogni caso, concordano con la risposta datale.

La donna accetta la sfida, sa di essere considerata dagli ebrei una bestia, un cane ed insiste affidandosi totalmente a Gesù dicendo: “eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”, il suo percorso è completo, ora è il tempo che pure i discepoli capiscano.

Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri. E da quell’istante sua figlia fu guarita”.

Gesù risponde così ad un pregiudizio che è sempre molto attuale; facilmente non si sente dire “prima noi e poi gli altri”? tanto da farlo diventare uno slogan politico eretto a programma di governo. Di fronte ai problemi dei migranti, rifugiati o profughi per fame, malattie, persecuzione, guerre c'è l'imperativo: prima noi e poi se rimane qualcosa anche a loro. 

Da notare che è la fede della donna che fa allontanare dalla figlia il demonio che è la figura del pregiudizio religioso che discrimina le persone. È questo che Gesù spera i discepoli abbiano compreso: non lo ha fatto con dei ragionamenti, ha messo loro di fronte la grande fede di questa donna.

Dopo non essere stato compreso dai suoi, come abbiamo visto Gesù “cambia passo”, cambia linguaggio, passa a parlare in parabole. Ma ora ha compreso che è “il tempo opportuno” per annunciare che il Regno dei cieli è vicino, già tra di noi, anche a chi non è della casa d’Israele. Per questo è venuto sull’altra sponda del mare. Sapendo che i discorsi sarebbero stati inutili, coglie la prima concreta occasione utile per farlo comprendere ai discepoli che era giunto il momento di allargare lo sguardo, di guardare oltre ai muri etnici e religiosi.

La donna rivela nella sua risposta un’intelligenza e un’abilità dialettica straordinaria, sa poco della sapienza ebraica ma ha capito che c’è una benedizione che hanno i figli e spera che qualche briciola cada anche sui pagani. Allora lei non risponde come forse avremmo risposto noi, risentiti a causa dell’insulto; ha capito la pedagogia di Dio che, seppur passo a passo, non esclude nessuno. 

Anche noi abbiamo dovuto attendere il Concilio Vaticano II per capire che la salvezza non passa solo ed esclusivamente attraverso l’adesione alla Chiesa. Abbiamo dovuto attendere papa Francesco che sta tentando di spingerci fuori dei nostri tranquilli recinti ed aprirci alla scoperta dei semi di salvezza che il Padre continua a spargere con generosità ovunque, farli crescere e portarli a compimento. Ne siamo capaci?

(BiGio)