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Sinodo 2023, tra le proposte finali un C9 come consiglio sinodale e molte questioni aperte

Un documento aperto, discusso fino all’ultimo, emendato a lungo, ma che si presenta con una maggioranza forte di due terzi per ogni punto. Ecco di cosa parla la relazione di sintesi del Sinodo 2023.

La riforma del C9 in un Consiglio Sinodale. La richiesta di istituire un Consiglio di Patriarchi e arcivescovi maggiori delle Chiese Orientali Cattoliche presso il Santo Padre. Le proposte di approfondire vari cammini, da quelli del diaconato femminile a quelli riguardanti l’identità di genere, e persino la poligamia in Africa (ma è un punto su cui c’è stata vasta contrarietà). E la consapevolezza che “la Parola di Dio viene prima della parola della Chiesa”. Si presenta in 42 pagine, 3 parti (Il volto della Chiesa sinodale”, “Tutti discepoli, tutti missionari”, “Tessere legami, costruire comunità”) e ogni paragrafo diviso in convergenze, questioni da affrontare e proposte il testo di sintesi del Sinodo sulla sinodalità, o per meglio dire su comunione, missione e partecipazione.

Dopo aver discusso 1251 emendamenti al testo, averlo profondamente cambiato in varie parti, aver probabilmente deluso alcuni gruppi di pressione (non c’è ad esempio il termine LGBT), specialmente sulla questione del maggior peso delle donne nella vita della Chiesa che ha avuto un numero alto di no, i padri sinodali consegnano un testo che è, come nelle previsioni del prefetto del Dicastero della comunicazione Paolo Ruffini, “transitorio”. E c'è una forte spinta alla questione della "ospitalità ecumenica", ovvero della comunione, un tema che tocca anche i matrimoni interconfessione, mentre, in vista del 1700esimo anniversario del Concilio di Nicea nel 2025 c'è una forte spinta a cercare di stabilire una data di Pasqua in comune tra cattolici e Chiese di rito orientale.

Molti i temi che restano allo studio, ci sono ...

La sintesi di tutte le proposte a questo link:

https://www.acistampa.com/story/sinodo-2023-tra-le-proposte-un-c9-come-consiglio-sinodale-e-molte-questioni-aperte?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=280296985&_hsenc=p2ANqtz-9jYfumRKX_-1ypIc-2WUqoyAJ0OlkLnNr1NuPjKjfwM3UZsUApJcaxty8K9OMU8Fw5tc3R4krKGS9MIC5FuNupz5IvKg&utm_content=280296985&utm_source=hs_email


A questo link l'integrale relazione di sintesi della prima sessione di questo Sinodo:

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/10/28/0751/01653.html

Cresce il disagio giovanile, ma non c’è sostenibilità senza salute mentale

Sono in aumento depressione, abuso di alcol, violenze. In particolare tra le giovani generazioni. Investire sul benessere psicologico è però vitale per la comunità. La Fondazione Guido Carli in prima linea per “Sostenibili futuri”: il primo dicembre la Convention inaugurale a Montecitorio. Il commento della presidente Romana Liuzzo

“Io invece, in mezzo a tanto fervore d’interezza, mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”, fa dire Italo Calvino al narratore bambino de Il visconte dimezzato, quando si festeggia perché lo zio Medardo torna uomo intero. Abbiamo appena celebrato il centenario della nascita dello scrittore, che intuì e descrisse mirabilmente la malinconia dell’incompletezza che oggi sembra diventata endemica, soprattutto nelle nuove generazioni.

Non c’è da sorprendersene. Pandemia, crisi climatica ed economica, guerre: le incertezze generano malessere e, nell’età in cui prendono forma i progetti per il futuro, possono rivelarsi un dardo avvelenato. Pericoloso per sé e per gli altri.

L’Unicef ci ha appena ricordato che nel mondo oltre un adolescente su 7 tra i 10 e i 19 anni convive con un problema di salute mentale diagnosticato. È giovane la maggior parte delle 800mila persone che ogni anno muoiono per suicidio, che è la prima causa di morte tra i 15 e i 19 anni.

L’indagine globale Ipsos per il World Mental Health Day 2023, che si è celebrato il 10 ottobre, ha rilevato come i giovani soffrano di stress e ansia più degli anziani. Oltre un terzo della Generazione Z (il 36%), i nati tra la fine degli anni Novanta e il 2010, afferma di essersi sentito depresso per settimane.

In Italia non va diversamente, anzi....

Il commento continua a questo link:


Nella XXX Domenica Anno A abbiamo pregato così

Questo quadro presentato durante la celebrazione è opera di un ragazzo palestinese di Gaza al quale il padre ha suggerito di non prendere in mano un mitra ma un pennello

Introduzione

In questa XXX domenica del Tempo Ordinario Gesù continua ad essere messo alla prova, prima dai sadducei ora è la volta dei farisei, con la domanda di un dottore della legge su: “Qual’è il grande comandamento?” (Mt 22,36). Il Vangelo di Matteo non riporta l’inizio di questo, ossia “Shemà Israel” - “Ascolta, Israele”, che troviamo nel Deuteronomio (Dt 6, 4-5) e nel vangelo di Marco (Mc 12,29). Nella Bibbia erano e sono presenti ben 613 precetti ed i giudei discutevano molto su quale fosse il comandamento più grande e tra questi i più importanti. La domanda posta a Gesù riguarda ognuno di noi, perché è come se ci venisse chiesto: “Cosa ci rende cristiani, cosa dobbiamo fare per seguire Dio?”. Gesù risponde citando il grande e primo comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande ed il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.” (Mt 22,37-38).  Il verbo utilizzato da Gesù per connotare l’Amore è agapào, che vuol dire preferire, prediligere l’amore gratuito senza pretese né aspettative. Gesù afferma con forza che non esiste contrapposizione tra l’amore di Dio e l’amore per gli uomini, citando oltre al Deuteronomio (Dt 6, 4-5) anche l’insegnamento del Levitico (Lv 19,17a.18): “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello. Non vendicarti e non serbare rancore contro i figli del tuo popolo. Ama il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (TestoCEI2008). Insegnamento profetico se guardiamo la Terra Santa, dove l’odio e la vendetta soppiantano il dialogo e la ricerca della pace. Ma chi è il mio prossimo? A quel tempo prossimo era sinonimo di parente, ossia di coloro che facevano parte della stessa famiglia, dello stesso clan, dello stesso popolo. Per Gesù il prossimo è colui a cui mi avvicino o che si avvicina a me, anche se di diversa religione, razza o colore della pelle. Nella prima e seconda lettura viene ricordato l’amore verso gli stranieri, le vedove, gli orfani, i poveri. Per compiere ciò, Gesù ricorda che bisogna prima amare Dio in modo vigoroso, totalizzante, con tutto il cuore, anima e mente e con tutte le proprie forze e poi mettersi al servizio dei fratelli e delle sorelle. Una testimonianza di questa fede è l’amore vero e durevole di Dora e Franco, che festeggiano oggi 60 anni di matrimonio, e soprattutto il loro amore verso i figli, i nipoti, parenti ed amici tutti. La totalità della persona umana è coinvolta in questo amore verso Dio e verso il prossimo. NellaTraduzione interconfessionale in lingua corrente della Bibbia (Tilc), cioè quella fatta insieme da cattolici e protestanti, si legge: “Tutta la legge di Mosè e tutto l’insegnamento dei profeti dipendono da questi due comandamenti” (Mt 22, 40).

Atto penitenziale

Signore ti chiediamo perdono per tutte quelle volte che non abbiamo accolto la Parola di Dio e abbiamo chiuso le nostre orecchie, il nostro cuore e le nostre menti

Kýrie eléison

Cristo ti chiediamo perdono per tutte quelle volte che ci siamo allontanati dalla luce di Dio ed abbiamo abbondonato il bene

Christe eléison

Signore ti chiediamo perdono per tutte quelle volte che abbiamo dimenticato l’amore verso gli stranieri, le vedove, gli orfani ed i poveri

Kýrie eléison

Preghiere dei fedeli

Preghiamo dicendo: Padre, ascoltaci!

Per la Chiesa perché sia sempre nel mondo la testimonianza credibile dell’amore di Dio per gli uomini ed il segno di salvezza.  

Preghiamo: Padre, ascoltaci!

Per tutti gli uomini e le donne di buona volontà perché contribuiscano ad eliminare dal mondo guerre, sopraffazioni, ingiustizie e divisioni con le soluzioni diplomatiche e con la forza amorevole della non violenza, in particolare per la bombardata Terra Santa e per la martoriata Ucraina.

Preghiamo: Padre, ascoltaci!

Ti ringraziamo Signore per la bella testimonianza di fede di Dora e Franco, che oggi festeggiano 60 anni di matrimonio, siamo grati per il loro esempio di amore e fedeltà, per aver costruito una famiglia solida e amorevole, per averci insegnato che l’amore vero, agapào del grande e primo comandamento, è in grado di superare qualsiasi ostacolo e per averci mostrato che il vero amore è quello che perdura nel tempo.

Preghiamo: Padre, ascoltaci!

In questo giorno gioioso non vorremmo dimenticare coloro che ci hanno preceduto presso la casa del Padre, ed in particolare Elina, che ci ha lasciato giovedì scorso, preghiamo perché la sua anima sia sempre avvolta dalla luce del Signore, vorremmo anche ricordare tutte le persone vedove e tutti coloro che hanno perso una persona cara perché possano sempre essere avvolti dall’amore e dalla tenerezza di Maria Santissima.

Preghiamo: Padre, ascoltaci!

Per tutti noi che oggi abbiamo ascoltato la Parola di Dio, perché l’amore e la sollecitudine verso tutti i fratelli e le sorelle che incontreremo, siano sempre il segno del nostro amore verso Dio.

Preghiamo: Padre, ascoltaci! 

Monizione all'Antifona di comunione

L’antifona di comunione sottolinea la continuità e l’unità della celebrazione: dalla mensa della Parola alla mensa Eucaristica. È un versetto del Vangelo proclamato proprio per dire che la Parola, Eucarestia e Comunione compongono un’unità inscindibile. Così come abbiamo sottolineato il passaggio dalla Liturgia della Parola alla Liturgia Eucaristica, con il cambiamento di luogo della celebrazione, dall’ambone all’altare, accendendo le candele all'altare a quella dell'ambone.

 

Oggi si sono anche festeggiati i 60 anni di matrimonio di Dora e Franco


 

 

 

 

 

 

 

Il Foglietto "La Resurrezione" di domenica 29 ottobre



 

"La Cina al centro". Ci si trova di fronte a un nuovo tornante della storia? Maurizio Scarpari prova a rispondere.

Un’ideologia imperiale durata 2000 anni, un leader autoritario – Xi Jinping – che la ripropone per spostare il baricentro della leadership mondiale da Washington a Pechino e sovvertire l’attuale ordine globale. Ma il realizzarsi di queste ambizioni richiede qualcosa che la Cina di oggi non è in grado di esprimere: quella forza di attrazione che solo una cultura fondata sulla libertà di pensiero e di espressione può avere. 


Cina contro Occidente, autocrazie contro democrazie? Quali sono le ragioni storiche e culturali alla base del modello di potere cinese, ritenuto da Xi Jinping superiore a quello delle democrazie liberali? Impossibile rispondere senza legare l’attualità alla storia imperiale. Il progetto di Xi è infatti quello di porre la Cina al centro, com’era nella concezione cinese prima dell’arrivo delle potenze occidentali, e di tornare a occupare la scena del mondo, da protagonista. Lo scontro non è solo economico e politico, ma anche culturale e valoriale: a essere messi in discussione sono infatti gli stessi principi liberali, fondamento delle democrazie di un Occidente oggi sempre più in preda a una forte crisi identitaria. Contrapponendo un nuovo assetto internazionale a quello creato dai vincitori della Seconda guerra mondiale, la Cina di Xi si avvicina adesso alla Russia di Putin. Ci troviamo di fronte a un nuovo tornante della storia? Riuscirà il mondo a evitare un nuovo conflitto mondiale? Sono alcune delle domande che si pone il sinologo veneziano Maurizio Scarpari nel suo ultimo libro “La Cina al centro”

A questo link attraverso China Files un estratto per gentile concessione dell’editore Il Mulino:



Mt 22, 34-40 - XXX PA

Nei testi più antichi della Scrittura raramente l'amore viene attribuito a Dio. Gesù invece lo definisce come la pietra angolare sulla quale si fonda tutta la Legge e tutti i Profeti

 


Lungo questo anno liturgico siamo stati accompagnati prima alla scoperta di Gesù, poi del suo messaggio, quindi nelle sue istruzioni su come vivere con e nella Comunità dei discepoli. È iniziato infine un percorso per introdurci alla comprensione di cosa sia quel “Regno dei cieli” al quale siamo chiamati a partecipare e realizzare nel nostro oggi. 

In queste ultime domeniche, prima della festa di Cristo Re, attraverso il racconto di alcune dispute ci viene presentato una sintesi del messaggio evangelico in forme apodittiche. La scorsa settimana in quel “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” mentre, in questa XXX Domenica, al centro viene posto non tanto il “Comandamento più grande” come ci propone il testo liturgico, quanto quale sia il “Comandamento, quello grande nella Legge”.

 

Abbiamo visto come, per cercare di mettere in difficoltà Gesù, i Farisei si erano alleati con gli Erodiani con i quali normalmente non correva proprio del buon sangue e assieme avevano inviato una delegazione di loro discepoli ma si era dimostrata del tutto inefficiente al compito affidato. 

Questa domenica i Farisei cambiano “formazione”, anche questa volta unendosi a degli “avversari” in campo teologico e spirituale: gli Scribi. Non mandano però dei semplici discepoli, bensì un Dottore della Legge, un esperto teologo, il miglior biblista che avevano a disposizione. Lo scopo è sempre quello di screditare Gesù agli occhi dei suoi discepoli e di coloro che avevano iniziato a seguirlo. Questo aveva tolto loro autorevolezza e, quello che a loro più importava, il potere che fondavano sul “si è sempre fatto così” e sul “si è sempre detto così”. 

Sono posizioni che possiamo individuare senza alcuna difficoltà anche oggi nella Chiesa, non solo ad alti livelli nelle discussioni teologiche o tra vescovi “aperti” e quelli “tradizionalisti”, ma anche nelle nostre Comunità. È esperienza di tutti quanti “radicalismi” piccoli o grandi ci sono nelle convinzioni e nella spiritualità di ciascuno che a volte difendiamo a spada tratta. Anche nel Sinodo in corso sono presenti e, se si sta seguendo il dibattito in fieri, lo si distingue senza dover scendere a comprendere grandi sottigliezze.

Questo Dottore della Legge non chiede a Gesù quale sia il più grande fra tutti i Comandamenti, ma “quale è il comandamento, quello grande nella Legge”. Lo fa interrogandolo “per metterlo alla prova”: è la medesima azione che il diavolo aveva fatto nel deserto subito dopo il Battesimo. All’epoca c’era un grande dibattito su quale questo fosse tra i 613 precetti che hanno sviluppato il Decalogo sminuzzandolo per renderlo aderente ad ogni azione del credente. Per lo più il consenso si accentrava su quello che anche Dio rispetta: il riposo sabbatico (in proposito il Talmud afferma che quando per due sabati di seguito tutti gli ebrei rispetteranno completamente il Sabato, il giorno seguente verrà il Messia). 

Erano certi che Gesù lo avrebbe detto e di rimbotto gli avrebbero chiesto perché allora lui non lo rispettava e c’era la possibilità della pena di morte per chi non lo faceva.

Gesù però non risponde come lui si aspettava e va alla radice riproponendo il nucleo fondante dell’intero suo messaggio che vuole liberarci da una concezione di sudditanza, di paura verso Dio e guidarci alla presa di coscienza del suo amore incondizionato, quindi: “Amerai…”

Questo verbo nella sua radice ricorre 248 volte nel Pentateuco ed è sorprendente che, nei testi più antichi, l’amare raramente viene attribuito a Dio. Gli vengono piuttosto attribuite reazioni e azioni “forti” come lo sdegnarsi, l’ordinare, il comandare, il fare alleanza, il pentirsi. È però vero che quella radice contiene anche delle sfumature erotiche, inammissibili in Dio.

Bisogna attendere i Profeti per avere la similitudine del rapporto tra Dio e il suo popolo come l’amore in una coppia di sposi (Osea), come anche quella del padre e della madre quando il popolo si lamenta: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato” e Lui risponde Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Ma anche se queste donne si dimenticassero, io di te non mi dimenticherò mai” (Is 49,14-15).

Nella sua risposta Gesù si richiama allo Shemà (Deut 6,4-5) che gli ebrei pregano tre volte al giorno: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima (qui in Matteo Gesù modifica il testo) con tutta la tua mente”. Chi ama una persona viene guidato dal desiderio di conoscere sempre di più e sempre più intimamente la persona amata. È questo che fa passare dall’innamoramento all’amore nella sua pienezza. Non è solo emozione come non lo è la fede. Per questo è importante la frequentazione della Scrittura, approfondirla, studiarla, farla risuonare nella nostra vita facendola propria.

A sorpresa Gesù poi ne aggiunge un secondo facendo riecheggiare Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. È l’amore che deve guidare il credente non l’obbedienza. Questo ultimo termine negli Evangeli non è mai usato come un atteggiamento da avere verso Dio; a Gesù obbediscono gli spiriti impuri, le onde, il vento … non chiede mai obbedienza ai discepoli, chiede di seguire il suo esempio, di amare come lui ci ha amato. Quindi non un semplice sentimento, ma il farsi prossimo nella concretezza del bisogno dell'altro.

“Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e tutti i Profeti”, sono la pietra angolare sulla quale trova fondamento tutta la Legge (il Pentateuco) e tutti i Profeti: l’amore verso Dio che non può non tradursi nell’amore verso i fratelli. È quello che attesta anche S. Giovanni nella sua prima lettera al cap 4,7-13.

(BiGio)

(BiGio) 

Amerai

A volte, in momenti di oscurità e di smarrimento, ci interroghiamo sul senso della vita. La vita ha il senso che noi stessi le diamo. Possiamo perderci in piccoli obiettivi e in uno scopo egoistico e meschino. Anche un orizzonte religioso chiuso in sé stesso, presuntuoso e intollerante, può costituire uno scopo meschino. 

Gesù, invece, ci offre un cammino che può dare senso pieno alla nostra vita. 



Negli ultimi giorni della sua vita, il dialogo tra Gesù e i suoi avversari diventa più teso e conflittuale. Un dottore della legge, del gruppo dei farisei, chiede a Gesù: "Nella Legge, qual è il grande comandamento?". Potrebbe sembrare una domanda innocente. 

Ma la domanda dell'avvocato fariseo è maliziosa nei confronti di Gesù. Vuole "metterlo alla prova", come aveva già tentato il diavolo nel deserto. Cerca la stessa cosa: far cadere Gesù. Potrebbe essere che egli aderisca a qualche corrente di pensiero poco ortodossa e non autorizzata. Offrirebbe qualche ragione per la sua condanna. 

Gesù riprende con fermezza la migliore tradizione religiosa: "Il grande e il primo comandamento" è: "Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente": tutta l'energia, tutta la vita orientata in Dio. Nulla che non sia centrato su di lui. L'unico Signore è Dio. Nessun Cesare, nessun sommo sacerdote o scriba possono sostituirlo. 

E qual è il modo per obbedire concretamente a questo supremo comandamento? Saranno le celebrazioni del tempio? La solennità del culto e dei riti? I riti sono una manifestazione necessaria per l'essere umano. Ci esprimiamo con un'infinità di riti, religiosi e civili. Anche la più semplice convivenza familiare ha la sua ritualità.

Ma Gesù completa l'indicazione del "grande e primo comandamento", richiamando un secondo comandamento, simile al primo: "Amerai il tuo prossimo come te stesso": l'amore di Dio si traduce e si manifesta concretamente nell'amore del prossimo, un prossimo non limitato, secondo la concezione ebraica tradizionale, solo ai parenti, a quelli della propria razza e religione. Un amore non ridotto a una dimensione solo sentimentale ed emotiva, o egoistica, ma proiettato alla ricerca del bene dell'altro, della sua libertà e pienezza di vita, al di là della simpatia e dell'affetto. Con un criterio, una misura dell'amore: "Come te stesso". L'amore con cui ci prendiamo cura della nostra vita, ci nutriamo, proteggiamo la nostra integrità, cerchiamo il nostro benessere e quello dei nostri figli, lo stesso amore dovremmo avere lavorando per il bene e la felicità degli altri, specialmente di quelli che non hanno accesso a condizioni di vita degna o non sono rispettati e protetti nei loro diritti. L'Antico Testamento indica e contiene questa forte esigenza, di una fede che si traduce in opere: "Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti". Dall'amore di Dio non deriva il culto rituale, ma un amore concreto per l'essere umano, che è immagine di Dio. Fedeltà a Dio nella fedeltà all'uomo.

Purtroppo molte volte non sappiamo amare bene neppure noi stessi. Non siamo sempre in grado di accettarci e perdonarci. Ci sono persone che trascorrono tutta la vita senza riconciliarsi con sé stesse. Non ci perdoniamo. E cerchiamo la felicità per strade sbagliate. Ci sono deviazioni ed eccessi che a volte rovinano la nostra pace e la nostra stessa salute. Gesù lo sa bene ed è per questo che, alla fine della sua vita, durante l'Ultima Cena, indica una nuova misura per l'amore agli altri: "Come io vi ho amato". Ci ha amati fino all’estremo. Per amare gli altri, tutti gli altri, senza nessuna discriminazione, dovremo guardare lui e ripetere il suo stesso amore in tutte le nostre relazioni: questo è il vero culto a Dio e il modo per adempiere "il grande e primo comandamento".

(Bernardino Zanella)


Oro nero, nativi e Fbi: Scorsese racconta l’America tra western e cronaca - Un film assolutamente da vedere e gustare

Un libro d’inchiesta del giornalista David Grann, una delle tante pagine della storia americana insanguinate di razzismo e distruzione ambientale: parte da qui Killers of the Flower Moon. Al centro, le vicende della Nazione Indiana Osage, tra petrolio, soprusi e terre usurpate. Tra gli interpreti, Leonardo Di Caprio e un Robert De Niro in stato di grazia

«Date un po’ di rispetto al cinema». Martin Scorsese tira dritto in mezzo alle lamentele per i 206 minuti (quasi tre ore e mezza) del suo ultimo film Killers of the Flower Moon e regala al pubblico che avrà ancora voglia di entrare in una sala l’ennesimo viatico per un mondo altro, dove perdersi e scoprire un senso, dove interrogarsi e trovarsi di fronte alla necessità di un racconto.

Più di un western, più di un gangster movie, ben oltre una storia d’amore: uno Scorsese in purezza, come quel sangue puro degli Osage che li rende i legittimi proprietari di una terra e delle sue ricchezze.

Ma andiamo con ordine, tentando di imbrigliare l’entusiasmo con quello spirito critico che dovrebbe guidare la cronaca: entusiasmo per la magnificenza delle immagini che scorrono sul grande schermo, per l’incantesimo lanciato da interpreti stupefacenti, capaci di scomparire nelle pieghe delle infinite sfumature di un carattere, lì dove nulla è tutto male né tutto bene, per la costruzione di una nuova gigantesca epica in cui ingordigia e tradimento riversano sugli animi tanto veleno quanto il petrolio fuoriuscito dalle viscere riverserà sulla Terra.

La recensione di questo splendido film con due sequenze finali che sono due perle di rara bellezza a questo link:

https://www.sapereambiente.it/primo-piano/oro-nero-nativi-e-fbi-scorsese-racconta-lamerica-tra-western-e-cronaca/





Disagio psicologico, colpiti sei italiani su dieci

Donne e giovani tra gli 11 e i 26 anni i più colpiti. Il Terzo Settore chiede alle istituzioni una strategia complessiva di supporto socio-sanitario, e ai media collaborazione per mettere a fuoco le cause profonde del problema.


Sei italiani su dieci convive da anni con uno o più disturbi della sfera psicologica, in particolare donne (65%) e i giovani della Generazione Z (75%, con punte dell’81% nel caso delle donne). È la drammatica fotografia del nostro Paese scattata dall’ INC Non Profit Lab, il laboratorio dedicato al Terzo Settore di INC – PR Agency Content First, attraverso la ricerca “L’era del Disagio”, realizzata, in collaborazione con AstraRicerche, tra gli italiani e le Organizzazioni Non Profit con il patrocinio di RAI Per la Sostenibilità-ESG.
«Con questo studio vogliamo aprire un confronto per cercare di comprendere meglio il fenomeno e fornire indicazioni concrete alle istituzioni che nel nostro Paese possono e devono occuparsene – spiega il Vicepresidente di INC, Paolo Mattei. – La pandemia ha creato la “tempesta perfetta” per far esplodere un male oscuro che covava, da decenni, nella nostra società. E sarebbe sbagliato cercare di risolvere la complessità del fenomeno, scaricandone la responsabilità su un fattore imprevedibile ed eccezionale come la pandemia.


La presentazione della ricerca continua a questo link:



 

Israele e Gaza: un caso esemplare di disinformazione e il ruolo del giornalismo

Ogni guerra è sinonimo di atrocità. In risposta a quelle atrocità, in ogni guerra l'opinione pubblica a un certo punto si unisce per chiedere la fine dei combattimenti e cercare una soluzione. La battaglia di narrazioni e di informazione in un conflitto polarizzante come quello israelo-palestinese non è purtroppo nulla di nuovo. Mai come questa volta, però, misinformazione e social media hanno un ruolo nel dividere l'opinione pubblica, fomentare la violenza e il prosieguo del conflitto. 


La misinformazione polarizza le narrazioni, fa perdere ogni verità condivisa e punto di accordo. Eppure un punto comune dovrebbe essere semplice da trovare: ogni perdita civile è una perdita enorme e va evitata. In questo clima in cui nessuno crede a nulla, in cui ci aggrappiamo alle nostre opinioni preconcette e alla nostra verità di parte, nessuno dei due belligeranti ha un incentivo a perseguire una de-escalation. Al contrario, tanto Israele quanto Hamas possono "giustificare" i crimini di guerra commessi (Human Rights Watch ha già condannato entrambe), utilizzando il dubbio per incolpare sempre e comunque l'altra parte. Episodi controversi (il macabro e assurdo dettaglio sui bambini decapitati, l'esplosione all'ospedale Al-Ahli o lungo il corridoio di evacuazione tra nord e sud della Striscia di Gaza) alimentano il whataboutism, il rispondere a una accusa con un'altra accusa. Tanto più che nella nebbia informativa creata dalla misinformazione - e dal fatto che l'accesso mediatico a Gaza è altamente ristretto- ricercatori indipendenti, specialisti di OSINT (intelligenza a fonti aperte) e operatori umanitari fanno fatica a trovare prove e risposte che assegnino responsabilità chiare

Di cosa si parla in questo articolo di Marie Durrieu (dottoranda associata in in scienze politiche e relazioni internazionali presso l'Institut de Recherche Stratégique de l'École Militaire, Sciences Po):

       1) Cos'è e come funziona la misinformazione 

       2) Un esempio: il caso dell'ospedale Al-Ahli 

A questo link:




La significativa lettera del card. Pizzaballa: Avere il coraggio della pace significa non permettere che odio, vendetta, rabbia e dolore occupino tutto lo spazio del nostro cuore

Stiamo attraversando uno dei periodi più difficili e dolorosi della nostra storia recente. Da ormai più di due settimane siamo stati inondati da immagini di orrore, che hanno risvegliato traumi antichi, aperto nuove ferite, e fatto esplodere dentro tutti noi dolore, frustrazione e rab-bia. Molto sembra parlare di morte e di odio senza fine. Tanti “perché” si accavallano nella nostra mente, facendo aumentare così il nostro senso di smarrimento.

Carissimi, il Signore vi dia pace!

Avere il coraggio dell’amore e della pace qui, oggi, significa non permettere che odio, vendetta, rabbia e dolore occupino tutto lo spazio del nostro cuore, dei nostri discorsi, del nostro pensare. Significa impegnarsi personalmente per la giustizia, essere capaci di affermare e denunciare la verità dolorosa delle ingiustizie e del male che ci circonda, senza però che questo inquini le nostre relazioni. Significa impegnarsi, essere convinti che valga ancora la pena di fare tutto il possibile per la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la riconciliazione. Il nostro parlare non deve essere pieno di morte e porte chiuse. Al contrario, le nostre parole devono essere creative, dare vita, creare prospettive, aprire orizzonti.

Ci vuole coraggio per essere capaci di chiedere giustizia senza spargere odio. Ci vuole coraggio per domandare misericordia, rifiutare l’oppressione, promuovere uguaglianza senza pretendere l’uniformità, mantenendosi liberi. Ci vuole coraggio oggi, anche nella nostra diocesi e nelle nostre comunità, per mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni.

L'intera lettera a questo link:

https://www.lpj.org/it/posts/letter-to-the-entire-diocese.html?fbclid=IwAR3wQ3Y-XCz6aRIwGDSstsqwxgwRu7wbPLpAvnuUVpj0QwORGl3B5vGNY2g

Sinodo 2023, il punto. Verso la lettera al popolo di Dio

La “Lettera al popolo di Dio” dei padri e delle madri sinodali non è una novità. Da sempre, il Sinodo dei vescovi ha inviato, al termine dei suoi lavori, un messaggio al popolo di Dio, o una lettera, o un documento che comunque si riferisse ai fedeli di tutto il mondo. Allo stesso tempo, questa lettera deve avere qualche novità, perlomeno nella stesura. Non può essere uguale al documento di sintesi che sarà invece approvato alla fine del Sinodo. Deve, soprattutto, dare il senso dei lavori del Sinodo.

Se il documento di sintesi sarà, nelle parole del prefetto del Dicastero della Comunicazione Paolo Ruffini, “transitorio”, il messaggio al popolo di Dio dovrebbe rappresentare la direzione che si vuole dare al processo sinodale. Ci saranno i grandi temi della pace e delle migrazioni, e probabilmente anche un atto di unione con il Papa e di adesione al magistero petrino, tema che è venuto fuori nell’ultima settimana di dibattito. Tutti gli altri temi saranno parte del dibattito. Ma va considerato che il messaggio è un messaggio, e non un documento di sintesi. Il tema sarà più importante del contenuto, perché non ci saranno tutti i contenuti.

Intanto, si guarda già al futuro. Il Cardinale Jean Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo, aveva già parlato di una “road map”verso la seconda tappa del Sinodo nel suo discorso inaugurale. Per ora, il Sinodo raccoglierà varie proposte, e sarà da comprendere se ci saranno nuove tappe continentali di ricezione dei risultati di questo sinodo o altre iniziative locali più leggere. La volontà della Segreteria generale del Sinodo sembra essere quella di avere una presenza forte e pervasiva nei processi, e dunque tutto dipenderà da quello che la Segreteria richiederà ai vari organismi regionali e continentali.

L'intero punto sul Sinodo e i prossimi passi a questo link:


Hamas non sono i palestinesi ma si fonda sulla loro disperazione. Un excursus storico e tre interviste a un esponente di Hamas, uno dei Fratelli Mussulmani e uno della Jiad Islamica per conoscere il loro pensiero

Sul campo, da cui sono appena tornata, c'è un chiaro senso di crescente disperazione e di violenza latente tra la popolazione palestinese. Nessuno parla più di "pace", ma piuttosto di "fine dell'occupazione", mentre i giovani evocano la "resistenza, con ogni mezzo". Questo è il contesto in cui Hamas ha compiuto il suo attacco. Ha usato questa disperazione per legittimarsi e ottenere il sostegno di una parte dell'opinione pubblica palestinese.


In questo articolo di Marie Durrieu (dottoranda associata in scienze politiche e relazioni internazionali presso l'Institut de Recherche Stratégique de l'École Militaire, Sciences Po) si parla di:

        - Gaza, una prigione a cielo aperto
        - La Cisgiordania, un territorio smembrato
        - Disperazione quotidiana
        - Stallo politico, violenza latente
        - L'ascesa di Hamas
        - Lo spostamento dell'asse geo-politico

L'articolo, una traduzione dall'originale pubblicato in inglese su The Conversation con licenza Creative Commonsè a questo link:

https://www.valigiablu.it/hamas-palestinesi-disperazione/

Tre interviste:
a un esponente di Hamas, dei Fratelli Mussulmani e della Jiad Islamica: Osama Hamdan uno dei quattro alti funzionari di Hamas in Libano, Amr Darrag tra i leader dei Fratelli Musulmani, è uno dei mediatori più influenti e Ihsan Ataya il rappresentante della jihad islamica in Libano 

Per leggere le tre interviste e  conoscere le loro posizioni vai a questo link:

https://drive.google.com/drive/folders/11XGir2VSUY_gVSUP8fFlKCz0YjoU9Mja?usp=sharing


Per inquadrare il conflitto Israele – Hamas è utile comprenderne il percorso dal suo nascere ad oggi

“Hamas, con mio grande rammarico, è una creazione di Israele”, afferma Cohen, un ebreo di origine tunisina che ha lavorato a Gaza per più di due decenni. Responsabile degli affari religiosi nella regione fino al 1994, Cohen ha visto il movimento islamico prendere forma, sconfiggere i rivali palestinesi laici e poi trasformarsi in quello che oggi è Hamas, un gruppo militante che ha giurato la distruzione di Israele.


Invece di cercare di frenare gli islamisti di Gaza fin dall’inizio, dice Cohen, Israele per anni li ha tollerati e, in alcuni casi, incoraggiati, come contrappeso ai nazionalisti laici dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e alla sua fazione dominante, Fatah di Yasser Arafat. Israele ha collaborato con un religioso paraplegico e mezzo cieco di nome Sheikh Ahmed Yassin, proprio mentre egli stava gettando le basi per quello che sarebbe diventato Hamas. Sheikh Yassin continua a ispirare i militanti oggi; durante la recente guerra a Gaza, i combattenti di Hamas hanno affrontato le truppe israeliane con le “Yassin”, primitive granate a razzo così chiamate in onore del religioso.

 Questo articolo, comparso a gennaio 2009 sul Wall Street Journal a firma di Andrew Higgins racconta le origini e lo sviluppo di Hamas. A questo link:

Quale futuro per Israele e Gaza

Dopo la Shoà inflitta dall’Europa del Novecento al popolo ebreo, il mondo ha detto “Mai più!” e stabilito che i popoli non devono uccidersi l’un l’altro ma farsi concittadini e fratelli. Con la fondazione dell’ONU il mondo si è poi chiarito le idee sul delitto di genocidio e la sua singolarità rispetto a ogni altra forma di carneficina, eccidio o strage: una differenza tanto forte da inventargli un nome nuovo, dato che non esisteva la parola né la fattispecie del crimine di genocidio prima della risoluzione delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1946 seguita poi dalla Convenzione internazionale del 1948. 

Questa definiva il genocidio, indipendentemente dal fatto che fosse perpetrato in tempo di pace o in tempo di guerra, come ciascuno degli atti che venisse commesso “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”. Tra questi atti era esplicitamente citato “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”. Crimine veniva considerato anche “il tentativo di genocidio” e non venivano chiamati “scudi umani”, quali vittime dell’attacco, i membri del gruppo uccisi o esposti a “lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale”.

Istruiti da tale statuizione, possiamo chiamare per nome gli avvenimenti che stanno dilaniando Israele e Gaza, dalla turpe carneficina di Hamas alla terra bruciata frutto della punizione collettiva di Israele, fino alla strage degli innocenti malati e feriti nell’ospedale di Gaza
In piena guerra è impossibile fare un bilancio complessivo delle vittime; si sa per certo che 1200 israeliani sono stati uccisi nel raid di Hamas e circa 200 sono gli ostaggi. Quanto ai palestinesi, l’intera popolazione di Gaza, fatta oggetto della ritorsione israeliana, assomma a 2.200.000 persone, di cui più della metà sono minori e non hanno alcuna responsabilità per le gesta di Hamas, essendo nati dopo che questa nel 2006 aveva vinto le elezioni.
Purtroppo né l’Europa, né l’Occidente sono in grado di fare alcunché per alleviare le sofferenze in atto e promuovere la riconciliazione e la pace. Da noi non c’è che una rissa per demonizzare gli uni o gli altri, non c’è una visione capace di prospettare un diverso futuro. È chiaro invece che, fallita la soluzione dei due popoli in due Stati, inutilmente perseguita nei passati decenni, occorrerà mettere in campo nuove idee e proporre nuovi ordinamenti anche al di là dei modelli esistenti. Non è detto che la sovranità degli Stati debba continuare ad essere quella incondizionata del modello hobbesiano, né che i conflitti identitari si possano risolvere solo nella perdita delle rispettive peculiarità religiose e culturali secondo il modello della laicizzazione occidentale. E se da un lato l’identificazione di Israele come Stato ebraico potrebbe volgere a una interpretazione più magnanima e anche più fedele al cuore delle Scritture di quanto sia l’attuale forma dello Stato di Israele, nell’Islam può diventare cultura comune e immune dalle sacche di estremismi violenti la visione di recente enunciata nel documento islamo-cristiano di Abu Dhabi e nella lettera che 126 leaders e sapienti musulmani nel 2014 inviarono ad Al-Baghdadi e all’Isis, rivendicando il primato delle misericordia nel Corano e una lettura storicizzata delle passate guerre religiose con l’affermazione che l’Islam non avanza con la spada: “È proibito accomunare la “spada”, e quindi la collera e il rigore, alla “misericordia” – diceva la lettera – “Non è altresì lecito subordinare l’idea di “misericordia per tutti i mondi” (attribuita a Maometto) “all’espressione “inviato con la spada”, perché ciò sarebbe come dire che la grazia è subordinata alla spada, cosa che è evidentemente
falsa. .. La Misericordia che Muhammad rappresenta per tutti i mondi non può essere condizionata al fatto che egli abbia impugnato la spada (in un tempo, un contesto e per una ragione specifici). Non si tratta qui soltanto di una sottigliezza accademica...”.

Non c’è dunque nulla che si deve fare che sia fuori della cultura ebraica e di quella musulmana; al contrario c’è scritto in Isaia 61, lo ha riproposto Gesù nella sinagoga di Nazaret, ed è affermato nella teologia islamica. E anche il Papa è d’accordo contro tutta la tradizione della Cristianità armata, “da Costantino ad Hitler”, come dice lo storico Heer ben noto a papa Francesco.

Se non si mettono in campo queste alternative, nemmeno noi ci salviamo. Perché tutti siamo responsabili, “Sono tutti traviati, tutti corrotti, non c’è chi agisca bene, neppure uno” (Salmi), “tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti, non c’è chi compia il bene, neppure uno) (Paolo). Sono detti sapienziali, laici, non confessionali. 

(Raniero La Valle)