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La violenza delle parole - Confronto con Vera Gheno

“La violenza delle parole”, titolo che richiama alla mente l’odio che spesso anima una cattiva comunicazione e ne è al contempo veicolato; tuttavia, Gheno ha scelto di partire dalla comunicazione come frutto dell’amore. Se la possibilità che l’umanità abbia sviluppato il linguaggio orale dalla necessità, per le madri, di rassicurare i loro neonati quando non potevano mantenere il contatto fisico con loro è solo un’ipotesi di ricerca, per quanto suggestiva, è invece palese che ciascuno e ciascuna di noi impara a parlare solo perché le persone che ha intorno a sé parla e, soprattutto, ci parla; del resto, è con la parola che annunciano la venuta al mondo di un nuovo essere umano assegnandogli un nome e sempre attraverso la parola è possibile rispondere alla domanda più importante: chi sono?


Proprio qui, però, si nasconde l’insidia principale della comunicazione. La parola può tanto definire, includere e identificare quanto stigmatizzare ed escludere, esercitando così un potere il cui effetto può essere, a seconda dei casi, dei contesti e delle intenzioni, generativo o distruttivo. A ciò si aggiunge il fatto che viviamo in una società sempre più complessa e difficile da comprendere, che esalta il punto di vista individuale e fornisce ampie possibilità di espressione: se da un lato questo permette a tante persone e categorie una presa di parola fino a poco tempo fa impensabile, dall’altro accresce le dissonanze e può provocare un senso di disagio quasi istintivo: l’essere umano è costitutivamente attratto dai suoi simili e tende a rifuggire la diversità.

Di fronte a questa realtà complessa, le parole non hanno certo il potere di modificarla; hanno però quello, non meno importante ...

L'intero racconto del contenuto dell'incontro a questo link:

https://www.monasterodibose.it/comunita/notizie/vita-comunitaria/15757-la-violenza-delle-parole-confronto-con-vera-gheno

La riforma liturgica sessant’anni dopo. Mons. Busca: luci, ma anche ombre da superare

Luci e ombre. Forse più le prime. Ma il bilancio della riforma liturgica, a 60 anni dal varo della Sacrosantum Concilium (SC) il documento conciliare che la codificò, e a 50 dalla nascita dell’Ufficio liturgico nazionale, è ricca di spunti di riflessione. Come dice il vescovo di Mantova e presidente della Commissione episcopale per la liturgia, Gianmarco Busca, al termine del convegno organizzato proprio dall’Uln per fare il punto sull’applicazione della riforma in Italia


La questione è se le liturgie sono vive, capaci di evangelizzarci e di aprirci all'incontro con DioIndubbiamente ci sono stati degli equivoci intorno alla actuosa partecipatio, alla partecipazione attiva, che spesso è stata banalmente ridotta al far fare a tutti qualcosa, mentre invece nella mens della SC l’idea è che sia una partecipazione intensa coinvolgente. La liturgia implica uno scatto, il passaggio di una soglia, l’ingresso in un mondo altro che è quello dell’umano trasfigurato dal divino. Perciò il silenzio, l’adoperare un linguaggio diverso da quello della strada restano fondamentali.

Nel convegno si è parlato di una liturgia in uscita per una Chiesa in uscita. Che cosa significa?
Significa una liturgia non autoreferenziale che ci proietta in un sacro separato, ma che è capace di ospitare il realismo della dimensione umana anche con il suo risvolto drammatico. Ad esempio, sarebbe una liturgia solo in entrata quella che cura una resa puramente estetica. La liturgia cristiana invece si fa  carico anche della non bellezza, dell’esperienza del male, del peccato, dell’incompiutezza.  Nel rito entra la vita e la vita deve entrare nel rito in una osmosi continua dei vissuti portati all’altare e deposti davanti a Dio.

L'intera intervista di Mimmo Muolo a questo link:


Da un Instrumentum Laboris a un altro: le costituzioni sinodali differite

L'organizzazione del testo della Relazione di Sintesi (=RS)  in tre parti e 20 capitoli offre un quadro amplissimo di materie intorno a cui, per lo più, si riconosce che occorre riflettere ancora. Lo “status quaestionis” elaborato in queste 20 caselle presenta sempre un andamento tripartito: convergenze, divergenze e proposte.

La Relazione di Sintesi (=RS) della Prima Sessione della XVI Assemblea del Sinodo dei vescovi apre un enorme “cantiere ecclesiale”, sul quale, almeno per un anno, si leggerà la scritta “lavori in corso”. Come era chiaro già al momento della scelta di una “duplice assemblea”, questo passaggio del 2023 ha avuto, come esito, la trasformazione del Vetus Instrumentum Laboris in un Novum Instrumentum Laboris. La produzione di decisioni, come era inevitabile, è stata rimandata al prossimo anno, dopo il confronto ecclesiale, che dal centro tornerà alla periferia e troverà nuovo slancio e nuove argomentazioni.

Non ci soni deliberazioni, ma ci sono alcuni orientamenti chiari ...

L'analisi di Andrea Grillo continua a questo link:

https://www.cittadellaeditrice.com/munera/da-un-instrumentumlaboris-a-un-altro-le-costituzioni-sinodali-differite/?fbclid=IwAR0964ZZCcLrSmfPfqZMQZ_8QHqovgFMx6JxL085zNRpZ00qt3bJYLuuRIA

Vito Mancuso: "Il vero problema non è il patriarcato ma il culto della forza di cui siamo schiavi"

Qual è la lezione da trarre dalla prevalenza del patriarcato in tutte le importanti civiltà del pianeta? La risposta, a mio avviso, è la seguente: l’adorazione della forza. Il patriarcato cioè rimanda, ben più che al maschilismo, al prevalere universale della forza. In quanto fisicamente più forte, il maschio è il sommo sacerdote di questa primitiva struttura archetipica la cui logica fondamentale è la forza, con ciò che ne consegue, cioè il potere da un lato e la sottomissione dall’altro. 

La violenza fisica fino all’assassinio non è che la più eclatante manifestazione di questa struttura, la quale, ancora oggi, pervade ogni ambito vitale. Ancora oggi infatti l’economia, il diritto, la politica, la tecnologia, la cultura, lo sport, la religione, sono esattamente questo in quasi tutte le loro manifestazioni: adorazione della forza. Se un maschio alza le mani contro una donna lo fa perché vuole che lei gli sia sottomessa, e probabilmente cerca di riscattare così i casi in cui a essere sottomesso deve essere lui, nell'ambito lavorativo, o tra gli amici o in altre cento situazioni. Neppure le donne però sfuggono a questa logica imperante e impersonale della forza. Anzi, oggi non poche di esse tendono sempre più a “maschilizzarsi”: lo si capisce dal linguaggio volgare, prima appannaggio dei maschi e ora non più, e anche dalla vera e propria violenza fisica che alcune di loro riservano ad altre donne, come capita purtroppo di leggere con una certa frequenza nelle cronache quotidiane. 

La vera questione non è quindi il fatto che uno sia maschio e l’altra sia femmina, il patriarcato o il matriarcato, anche perché vi sono uomini che non adorano anzi combattono la forza (vedi Gandhi) e vi sono donne che adorano e usano la forza (vedi Margaret Thatcher). Il punto focale riguarda piuttosto...

L'intera riflessione di Vito Mancuso a questo link:


Cosa significano gli incontri del papa con le vittime della guerra

L’incontro con parenti degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre e poi, nello stesso giorno ma non nella stessa occasione, con parenti di palestinesi sofferenti a Gaza per via dei bombardamenti, è un atto che risponde alla logica di non chiudersi, guardando il dolore, chiedendo a tutti di vedere il dolore dell’altro. Non dimenticando la sofferenza del popolo ucraino.

Non so se Papa Francesco legga i saggi del grande scrittore franco-libanese. Nativo del Libano e trasferitosi da decenni a Parigi, Maalouf è oggi il segretario dell’Accademia francese, dunque il custode d’ufficio della lingua francese. Eppure la sua lingua madre è l’arabo. Questa particolare condizione gli consente di sentirsi espressione di quel vasto mondo che chiama “i disorientati”, che non si sentono completamente a casa loro né qui né lì. Sarebbe un enorme valore aggiunto per tutti se i mondi non si chiudessero, cercando di escluderli e così disorientandoli. Questa condizione ha consentito a Maalouf di trovarsi in una particolare sintonia con il papa sulla questione dei respingimenti di tanti migranti, visto che lui ha scritto un libro, “il naufragio delle civiltà” che è esattamente quel che ha detto il papa a Lesbo e poi a Malta nei suoi discorsi sulla chiusura nei confronti dei migranti.

Ora che siamo in un’epoca di conflitti che si presentano come identitari, Maalouf ha scritto un libro intitolato “Identità assassine”. Mi sembra che questo titolo, e questo rischio, esprima bene l’azione pastorale e diplomatica di papa Francesco ...

La riflessione di Cristiano Riccardo continua a questo link:

https://formiche.net/2023/11/parenti-ostaggi-papa-gaza-israele-ucraina/





Se dal golpe nigerino nasce una rivoluzione

 Mamon o Mammona, secondo l’etimologia aramaica, significa ciò su cui si può contare, qualcosa che dà certezza e sicurezza. Questo è stato il dio denaro e potere scelto come protagonista nella fase politica del Niger prima che avvenisse l’ultimo colpo di Stato militare lo scorso 26 luglio. Molti osservatori hanno concordato nel definirlo, all’inizio, un colpo di Stato “di palazzo” e cioè concepito all’interno del sistema stesso.

Assai presto però, sotto la spinta e lo spirito di una parte consistente del “piccolo” popolo e di una porzione dei militari, il colpo di Stato si è gradualmente trasformato in qualcosa che, con esitazione, si potrebbe chiamare rivoluzione”. Una rivoluzione di “sabbia” ma pur sempre una rivoluzione, se per essa intendiamo la sconfessione del dio denaro o Mammona come orizzonte unico della politica nigerina. Le cose, cioè, vanno ben oltre ciò per cui erano state pensate e organizzate. C’è altro che, per certi versi, malgrado la giunta militare al potere, si sta disegnando nel regno del possibile per il popolo nigerino. Forse si tratta dell’ingenua stoltezza di dire no ai vari Mammona che hanno finora dato sicurezza alla politica per rischiare un futuro, appunto, di sabbia.

L'articolo di Mauro Armanino continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202311/231121armanino.pdf



Israele e Hamas. Nella parrocchia latina di Gaza dove non scende mai il buio della notte

L'esercito israeliano staziona nell'area della parrocchia latina della Sacra Famiglia dove sono ospitati oltre 700 sfollati cristiani, praticamente la gran parte della comunità cristiana gazawa. Stretti tra due fuochi, i cristiani locali hanno trasformato la parrocchia in un presidio di preghiera continua, come racconta al Sir suor Nabila Saleh: “L’unica arma che abbiamo per difenderci è la preghiera che ci dona la 'luce' per guardare avanti con fiducia

Sfollati nella Parrocchia latina di Gaza

“L’alba a Gaza arriva prima che altrove” perché, dicono gli sfollati cristiani nella parrocchia latina della Sacra Famiglia, “qui non scende mai il buio della notte. Il frastuono e i bagliori delle bombe e dei proiettili, il sibilo dei razzi, i fuochi delle esplosioni, infatti, illuminano ogni momento della notte, fanno paura e ci non ci danno un attimo di tregua”.

Nonostante ciò materassi, cuscini e coperte, al mattino, vengono ordinatamente risistemati lungo le pareti della piccola chiesa, nell’abside della quale campeggia una grande immagine della Sacra Famiglia. Il compound parrocchiale ospita oltre 700 sfollati cristiani e la vita al suo interno non è semplice.

Il reportage di Daniele Rocchi continua a questo link:

Un impianto fotovoltaico sul tetto della Parrocchia della CITA (Marghera) per una Comunità Energetica Rinnovabile e Solidale

Comunità energetica significa che i cittadini superano lo steccato dell’essere solo consumatori e diventano protagonisti. 

La Parrocchia della Risurrezione alla Cita (Marghera), facendosene promotrice di un impianto fotovoltaico da 20 Kw, contribuisce contemporaneamente alla salvaguardia del pianeta. 

Per informazioni su come partecipare telefonare a Giorgio 348 2301242


La Diocesi ha dato un importante contributo ma ha chiesto che i parrocchiani e amici della Comunità facciano la loro parte.
Per questo si chiede di fare una offerta minima di 50€ per un pannello solare

-  Il pannello potrà essere intestato, se lo desidera, a chi fa l’offerta.

-  serve anche liquidità per acquistare l’impianto subito, chi può faccia un prestito infruttifero che verrà restituito entro un paio di anni.

-  chi offrirà un pannello, avrà priorità nell’adesione alla comunità energetica solidale

La Cers Fratello Sole - Comunità Energetica, Rinnovabile e Solidale

Una grande opportunità, costruire una Comunità Energetica per risparmiare sui costi dell’energia.

A breve la parrocchia chiamerà altri soci a costituire la CERS, un progetto che coinvolgerà tante realtà, famiglie e comunità diverse. 
La Parrocchia installa un impianto fotovoltaico sovradimensionato per i propri consumi, per poter scambiare l’energia elettrica generata dall’impianto Fotovoltaico, ma non completamente consumata dalla Parrocchia, con altri membri della Cers che ne abbiano necessità.

Un nuovo modo di partecipare e risparmiare un po' sul costo della energia elettrica e rendere l’ambiente meno inquinato. 

Perché solidale significa condividere quello che la nuova normativa del Gestore della Rete elettrica rende disponibile per tutte le Comunità Energetiche.

Vivere in un edificio nel quartiere della Cita, vuol dire disporre di poco spazio sul tetto per installare impianti fotovoltaici ma in questo modo si può beneficiare dell’energia prodotta dalla parrocchia, e di altri produttori, i veri motori della Comunità Energetica.

Potranno aderire alla Cers tutti coloro che abitano in una zona servita dalla cabina secondaria, che vuol dire una parte del quartiere (oggi), ma a breve potranno aderire 

enezia). tutti coloro che abitano in una zona servita dalla cabina primaria (quasi tutta Marghera) e per vedere se abiti nella zona della Cers https://www.gse.it/servizi-per-te/autoconsumo/mappa-interattiva-delle-cabine-primarie

In sintesi, Comunità energetica significa che i cittadini superano lo steccato dell’essere solo consumatori e diventano protagonisti. 

Costruiamo dal basso questo cammino!


Per informazioni: Giorgio 348 2301242

Il filosofo ebreo milanese Assael: islam ed ebraismo devono ripartire dagli Accordi di Abramo

Il pensatore ebraico milanese, intervenuto alla tavola rotonda “L’armonia delle differenze”, che ha aperto ieri a Roma il Tertio Millennio Film Fest, analizza il futuro del percorso di pace in Medio Oriente, e non solo tra Israele e Palestina, interrotto dall’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. “L’islam deve ripensare il suo rapporto con l’ebraismo, come ha fatto la Chiesa cattolica con il Concilio”


Quello che è successo il 7 ottobre dopo l’attacco efferato di Hamas “è un attacco alla pace di entrambi i fronti, e oggi chi vuole l’espansione del conflitto sono solo due attori, Hamas stesso e i cosiddetti coloni che fanno scorribande criminali in Cisgiordania” a danno dei palestinesi. “Ma il percorso di pacificazione tra l’islam e l’ebraismo è già tracciato, è negli Accordi di Abramo” dell’agosto 2020, e con l’adesione molto vicina dell’Arabia Saudita “si stava completando, eravamo ad un passo dalla pace, prima dell’attacco”. 

L'intervista a cura di Alessandro di Bussolo è a questo link:



Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 26 novembre 2023

 



Nella Domenica di Cristo Re abbiamo pregato così...

Atto penitenziale

 

Per tutte le volte che non riusciamo a vedere il fratello come uomo da amare e rispettare, ma un nemico da uccidere, Signore Pietà

 

Non abbiamo fatto del male ai poveri, non li abbiamo umiliati o derisi, semplicemente non abbiamo fatto niente. Perdonaci Signore per omissione di fraternità, Cristo Pietà

 

Perdonaci Signore perché non riusciamo a essere costruttori di pace, ma per interessi e voglia di prevalere cerchiamo di sopraffare l’altro. Signore Pietà

 

 

Preghiera dei fedeli

 

1 Se chiudiamo gli occhi, e proviamo ad immaginare la scena….un Dio che cerca la pecora perduta, riconduce all’ovile quella smarrita, fascia quella ferita e cura quella malata, ha cura della grassa e della forte. Quanto amore ha il nostro re per l’uomo come una madre con il suo piccolo.

O Signore, perché sappiamo ogni giorno, col tuo esempio, a prendersi cura di chi si trova nelle difficoltà ed accoglierlo come fratello,

 

2 Nella Genesi il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello? La scena del vangelo di oggi risponde a una domanda antica quanto l'uomo: cosa hai fatto di tuo fratello?

Dio ci insegna che l’amore verso il prossimo, verso il fratello è l’essenza del vivere cristiano.

Il Signore non guarderà a me, ma guarderà attorno a me, a quelli di cui mi son preso cura.

O Signore, perché sappiamo vivere aperti al mondo e aiutare chi si trova nel bisogno 

 

 

3 Per tutti i re e i governanti della terra, affinché vedano con gli occhi del cuore le necessità dei loro popoli; decidano per la pace e sappiano garantire i diritti dei più piccoli, degli stranieri, dei malati e dei carcerati.


Domenica XXXIV PA - Mt 25,31-46

È quasi identica la risposta dei due gruppi di persone: “Quando ti abbiamo visto affamato, assetato …”, ma i secondi che chiudono con un “… e non ti abbiamo servito”; questo marca la differenza perché il Signore è venuto per servire, non per essere servito. 

Condividere la vita di Dio significa rispondere ai bisogni elementari delle persone. Non ci vengono chieste delle azioni straordinarie, ma solo azioni umanitarie.


(Le sette opere di misericordia di Caravaggio)

Siamo giunti al compimento (non alla fine!) di questo Anno Liturgico durante il quale la Liturgia ci ha accompagnato alla scoperta di Gesù di Nazaret, alla “lieta notizia” che ha annunciato, all’invito fattoci di partecipare fin da ora al Regno dei Cieli costruendolo mattone su mattone seguendo il suo esempio nell’annunciare il volto misericordioso del Padre.

Le ultime domeniche ci hanno consegnato quasi una sintesi attraverso quattro attenzioni da tenere sempre a mente per non perdere di vista l’obiettivo: un imperativo “Amerai” il Signore tuo Dio e il prossimo come te stesso; l’invito ad essere e rimanere sempre degli “anawim” cioè degli uomini che si pongono al servizio dell’altro secondo il cuore del Padre; il consiglio pressante a rimanere costanti nell’ascolto della Parola che è “luce ai nostri passi”; infine a non nascondere l’eredità che il Signore ci ha lasciato, il suo Spirito, ma a farlo fruttare attraverso tutte le capacità che abbiamo, poche o molte che siano.

 

La pagina dell’Evangelo di oggi è molto nota e le sue rappresentazioni fin dai primi secoli non si possono contare tanto sono numerose ma nelle quali è difficile scorgere il “lieto annuncio” di un Signore che ha fatto della misericordia la sua nota caratteristica. Appare piuttosto il volto serio di un re attorniato dalla sua corte che giudica insindacabilmente l’umanità intera dividendola in buoni e cattivi, in giusti e peccatori il cui destino per i primi è la vita eterna, per gli altri il supplizio eterno. Forse è il caso di chiedersi se questa lettura sia corretta o meno visto che contraddice il nocciolo duro del messaggio evangelico.

Dimentichi dell’inizio dell’Evangelo di Matteo nel quale Gesù esprimeva senza parafrasi alcuna il suo pensiero e che ha iniziato a parlare in parabole da quando si è spostato a nord del lago di Galilea, a questo punto dell’Anno Liturgico siamo così abituati a questo suo linguaggio che è facile cadere nell’errore di leggere questa pericope come se anche questa pagina fosse una parabola, ma non lo è affatto.

Qui Gesù usa un “topos” letterario, un motivo ricorrente comune a tutte le culture del medio oriente a iniziare da quella egizia: quello del giudizio dei morti. Questo allora significa che l’insegnamento di questa pagina va cercato altrove e non è affatto usabile per “far paura” come purtroppo da troppo tempo avviene con scopi tutt’altro che evangelici ma, direbbero i sociologi, meramente umani tesi al fine di trasmettere e di garantire il controllo sociale.

 

Certo, la festa di oggi ci invita a celebrare Cristo Re dell’Universo e l’iconografia ce lo fa vedere, come nell’abside centrale nella Basilica di S. Marco a Venezia, benedicente solennemente seduto su di un trono con i piedi appoggiati su di un parallelepipedo che rappresenta la creazione e l’Evangelo in mano. Immagine ricca di significati e messaggi teologici ma è proprio questo il “trono” nel quale Gesù ha mostrato la sua gloria o, piuttosto, è sua croce? Negli Evangeli, in particolare in quello di S. Giovanni, certamente la croce.

L’uomo al termine della sua vita è chiamato a confrontarsi con quella di totale donazione fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,8) che è stata quella di Gesù e, di fronte a questa, emergerà che tipo di umanità abbia incarnato: sarà stato pecora o capro? grano o zizzania? Un pesce buono o uno cattivo? Sono dualismi che Gesù ha proposto per dirci che durante la sua vita l’uomo è un po’ l’uno e un po’ l’altro, in parte opera facendo della propria vita un dono d’amore, in parte ha chiuso il suo cuore guardando solo ai suoi interessi.

Alla fine confrontandoci con lui si comprenderà quanto di quelle che chiamiamo “opere di misericordia” abbiamo operato. L’elenco che Gesù ne fa non è una sua invenzione: la si trova già nell’egiziano “Libro dei morti” ma anche in Giobbe e in Isaia. C’è una unica categoria di persone che aggiunge e sono i carcerati perché, anche in coloro che stanno pagando per i delitti che hanno commesso, c’è l’immagine del Figlio di Dio: nessuno ne è privo. È per questo che nel supplizio eterno, a bruciare nel fuoco della Geenna (la valle a sud di Gerusalemme dove bruciavano continuamente le immondizie), finirà tutto il male presente in ogni uomo mentre ciò che è stato compiuto secondo lo Spirito rimarrà salvato.

Questo ci viene attestato dal testo greco nel quale il termine tradotto come “supplizio”, in realtà significa “fare pulizia” ed è confermato dall’esempio che Gesù ha fatto parlando della vite e dei tralci: quelli secchi che non hanno portato frutto, vengono tagliati e bruciati.

 

Può sorprendere la quasi identica risposta dei due gruppi di persone: “Quando ti abbiamo visto affamato, assetato …”, ma i secondi che chiudono con un: “… e non ti abbiamo servito”; questo marca la differenza perché il Signore è venuto per servire, non per essere servito e, con questo atteggiamento, lui ha nulla da condividere. 

 

In una battuta l’insegnamento di questa ultima pagina dell’Evangelo di Matteo che la Liturgia quest’anno ci propone è che il condividere la vita di Dio significa rispondere ai bisogni elementari delle persone. Non ci vengono chieste delle azioni straordinarie, ma solo azioni umanitarie. Questo è possibile a tutti, a tutti i popoli, anche alle nazioni pagane che il termine greco indica. È questa la lieta notizia!

(BiGio)

Quando mai ti abbiamo visto?

L'esperienza religiosa dell'uomo ha cercato sempre un contatto, un dialogo, un incontro con Dio, per strade differenti, o attraverso le diverse religioni, con la varietà dei loro riti e dei loro templi.
Il popolo ebreo ha costruito il tempio di Gerusalemme come simbolo della presenza del Dio vivente e addirittura luogo della sua manifestazione. Deve essere risuonata terribilmente agli orecchi dei suoi discepoli la frase di Gesù: "In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta". Allora, dove si può trovare Dio? Dove si può vedere il suo volto, come invocava il Salmo: "Mostrami il tuo volto, Signore"?


Potremmo considerare questo testo come la rivelazione sul giudizio ultimo dell'umanità alla fine dei tempi. Ma il vangelo di Matteo vuole metterci di fronte alla realtà di oggi, per permetterci di guardarla oggi con gli occhi di Dio. Con gli occhi umani ci sono molte cose che non vediamo, o non vogliamo vedere. Ma Gesù, con la parabola del "giudizio delle nazioni", ci toglie il velo perché impariamo a vedere fin d'ora il volto di Dio, non dietro le nubi di incenso dei templi, ma nel fratello che ha fame, sete, è nudo, è in carcere, è migrante: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...". La presentazione solenne di Gesù come giudice in realtà vuole darci i criteri affinché noi stessi siamo i nostri giudici, con la capacità di discernere e valutare i nostri atteggiamenti. Gesù dichiara la sua solidarietà con i più piccoli, affinché lo riconosciamo e lo serviamo in loro. La maestà del "Signore" oggi è nascosta in loro. In loro si trova "il Dio con noi" e con loro si identifica: "In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". Non dice: “Come se l’aveste fatto a me”, ma “L’avete fatto a me”: direttamente a lui. La salvezza di ciascuno non dipende dal suo successo sociale, né dalla sua pratica religiosa, ma dalla sua solidarietà concreta verso i più bisognosi.
Per il discepolo di Gesù c'è un cammino di apprendimento: "Chi ascolta la mia parola e la mette in pratica". La Parola di Dio ci educa a riconoscere il Signore là dove si trova veramente e a lottare contro "le strutture di peccato", che producono emarginazione, fame, morte, giustificate a volte perfino in nome di Dio.
La sorpresa più grande sarà per coloro che non hanno conosciuto Gesù, e che senza saperlo lo hanno servito nei fratelli bisognosi, e negli stessi fratelli più piccoli, portatori della Buona Notizia. Tantissime persone hanno lottato, e molte hanno dato la loro vita, per "un regno di giustizia, di amore e di pace", ispirate dalla legge di Dio scritta nei loro cuori, ma senza aver conosciuto o accettato il vangelo. Per tutti l'abbraccio divino: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno".
E la dura condanna per chi non ha aperto il suo cuore alla solidarietà: "Via, lontano da me, maledetti", non vuole spaventarci aprendo davanti ai nostri occhi le terrificanti porte dell'inferno, ma trasmetterci la sapienza perché non sprechiamo il tempo presente e riconosciamo Gesù, oggi, in un elenco molto più ampio di fratelli e sorelle bisognosi: Ero orfano, vedova, ragazza madre, bambino speciale, donna maltrattata, divorziato, omosessuale, sfruttato, analfabeta, abusato sessualmente, disoccupato, senza documenti, tossicodipendente, discriminato a causa delle mie convinzioni o del colore della mia pelle, malato di Aids, clandestino, senza terra, perseguitato, torturato, deportato, scomparso... E perché lo cerchiamo anche nelle immense regioni del pianeta dove la vita umana non vale niente: popoli affamati, abbandonati, esclusi, nella terra inquinata, depredata, desolata, flagellata dalla guerra, e "il povero venduto per un paio di sandali".
Per sprecare la vita non è necessario fare il male. Basta non fare nulla di fronte all'immenso dolore del mondo.
(Bernardino Zanella)

Un po' di silenzio

Marco Travaglio ne Il Fatto Quotidiano del 21 Novembre 2023 chiude la sua riflessione sulla morte di Giulia Cecchettin con questa acuta nota:

Si potranno organizzare tutti i corsi scolastici di “educazione all’affettività”, sempreché si potesse insegnarla dalla cattedra in un’aula avulsa dai veri educatori dei nostri tempi: cioè i social network, la tv, il cinema, la strada, gli amici e tutti i “modelli” di riferimento” che oggi arrivano molto prima e molto meglio dei maestri, dei professori e dei genitori. E alla fine vincono, nella cacofonia che ha ucciso il silenzio.



Il giornalismo è un bel mestiere: ogni giorno scrivi e sfoghi ciò che hai dentro. Ma ci sono momenti in cui vorresti fare l’eremita, senza nessuno che ti chieda di dire la tua, di sfoderare una soluzione pronta cassa e a pronta presa. E questo accade quando una soluzione non c’è o, se c’è, è più grande di te. Per esempio di fronte al male assoluto nascosto in un ragazzo apparentemente normale che – almeno secondo le indagini – scanna l’ex fidanzata prima che si laurei e la getta in un burrone. Siccome ne parlano tv, social e giornali, bisogna parlarne sempre di più e ogni giorno aumentano gli spazi in cui se ne parla, anche se diminuiscono le cose da dire. Ne parlano i politici rinfacciandosi colpe più o meno vere o proponendo leggi più o meno utili o improvvisando mea culpa più o meno ridicoli pur di arraffare un titolo, un sommario, una didascalia che parli di loro. Ne parlano scrittori, artisti, psicologi, giornalisti: tutti con la loro panacea pronta all’uso, tutti sicuri che è colpa della famiglia, no delle madri, no dei padri, no della scuola, no della società, no del patriarcato, no dei politici, no della destra, no della sinistra, no del governo, no dello Stato, no delle leggi mancanti (ovviamente “bipartisan”) in una cacofonia che stona almeno quanto gli applausi ai funerali. E rende ancor più prezioso il valore del silenzio. Dinanzi alla morte si tace. Chi crede prega, chi non crede riflette, tutti dovrebbero tacere. Soprattutto se non hanno nulla di utile da dire.

Poi, con calma e sottovoce, potrebbero provare a stare vicino a chi è genitore, a chi è figlio, a chi è marito, o moglie, o fidanzato, o fidanzata, ad ascoltarlo, a parlargli della fatica della vita, del dolore da fallimento, dello smacco da rifiuto, della noia da bambagia, dell’elaborazione del dolore, del valore di battere la testa e di mordersi la lingua e di frenare le mani, della differenza tra l’amore e il possesso e fra la realizzazione personale e il successo (o, peggio ancora, la famoseria), della caducità dei sentimenti, del rispetto per la libertà dell’altro, dell’importanza di lasciarlo andare e di rimettersi in gioco, sempre con fatica, con rispetto e senza scorciatoie. Poi si potranno fare tutti i giri di vite che si vuole, ammesso e non concesso che i femminicidi uccidano perché non sanno che è vietato e si rischia l’ergastolo o poco meno.

Vecchioni: luci a San Pietro.

 Il cantautore ha partecipato alla Lectio Petri nella Basilica Vaticana, con i cardinali Ravasi e Gambetti, la storica Fattorini e l'attrice Beatrice Fazi. «L'Apostolo è uno di noi, esempio da seguire»


Luci a San Pietro. Roberto Vecchioni ride di gusto alla battuta e a sua volta ribatte: “Qui le luci durano tanto di più. E speriamo durino ancora a lungo”. Il cantautore è stato protagonista ieri sera, 21 novembre, della seconda Lectio Petri nella Basilica Vaticana, insieme con i cardinali Mauro Gambetti (arciprete della Basilica stessa), Gianfranco Ravasi (che ha tenuto la Lectio vera e propria), la storica Emma Fattorini e l’attrice Beatrice Fazi, che ha dato voce da par suo ad alcuni passi degli Atti degli Apostoli, poi commentati da Ravasi.

“Sì, San Pietro è una luce anche per me – confida Vecchioni ad Avvenire – È una figura meravigliosa. Mi piace perché è un uomo fallibile, vero. Non è uno che sta dietro Cristo per pura piaggeria. Sbaglia e sa chiedere perdono e questo ce lo rende vicino.


L'intervista a cura di Mimmo Muolo a questo link:

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/roberto-vecchioni-io-pietro-e-la-fede?fbclid=IwAR342Ac4nZjReFeETz8BPQiuTos_8NKfjL53HgD85-vsR-C4xAc13BSR1uw





Precursori della “Chiesa in uscita” Così l’Italia riscopre i suoi preti operai

«Spesso vi siete sentiti ai margini della vita ecclesiale. Ma senza di voi i modelli di evangelizzazione sarebbero più stantii»: lo ha detto il cardinal Zuppi incontrando i sacerdoti lavoratori. A 38 anni dallo “stop” della Cei a questa via innovativa.

«Ci avete insegnato che nella Chiesa ci si può stare sia da preti sia da operai, senza congiunzioni e forzature di sorta». Le parole del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, sorprendono e commuovono la platea di sacerdoti che hanno alle spalle – o conducono ancora – l’esperienza di prete operaio. E Zuppi aggiunge non solo il «grazie perché avete creduto in quel modello di servizio alla Chiesa e vi siete dedicati con tutto voi stessi», ma anche il riconoscimento che «spesso vi siete sentiti ai margini della vita ecclesiale. Dal centro si fa più fatica a comprendere le periferie». Parole forti, che in qualche modo cercano di ricucire uno “strappo” che risale a 38 anni fa quando l’esperienza del sacerdote nel mondo del lavoro venne progressivamente abbandonata...

Tutto l'intervento del Card. Zuppi a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202311/231116lenzi.pdf





Transessuali e figli di gay, ecco la pastorale accogliente

La Nota del Dicastero per la Dottrina della fede che consente di scegliere trans e persone omoaffettive per accompagnare ai sacramenti, non modifica la norma, ma è segno di una maggiore inclusività.

Più che la sostanza, il coraggio di aprire la strada a un lessico che riflette la realtà e le richieste concrete di tanti credenti. Più che la dottrina, che rimane la stessa, lo slancio umano e pastorale che supera gli schemi del passato, quelli contrassegnati dalla politica dei molti “no”, e sceglie una valutazione serena delle diverse situazioni in uno spirito di accoglienza e di integrazione. Ma con un punto di partenza ben chiaro. Ogni persona «indipendentemente dal proprio orientamento sessuale va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione». Sono le parole di papa Francesco in Amoris laetitia che, come già messo in luce su queste pagine, la Nota del Dicastero per la dottrina della fede accoglie e traduce in prassi pastorale concreta.

Non è un “libera tutti”, non si tratta di un’apertura indiscriminata verso scelte di vita che prescindono dalla coerenza della fede e contraddicono il Vangelo. Persone transessuali e omoaffettive possono essere madrine e padrini di Battesimo, ma anche testimoni di nozze a condizione che ...


L'articolo di Luciano Moia continua a questo link:

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/trans-padrini-e-madrine-una-pastorale-piu-accogliente?mnuid=522g32167g3ffd6cad0c9c5ff6fd3c264a93a2d951c66d50fd&mnref=s202%2Co13bd&utm_term=5053+-+https%3A//www.avvenire.it/chiesa/pagine/trans-padrini-e-madrine-una-pastorale-piu-accogliente&utm_campaign=L%27Avvenire+della+settimana&utm_medium=email&utm_source=MagNews&utm_content=Avvenire+Newsletter+09_11_22+%282023-11-11%29

La formazione del laicato/2. Proposte e speranze

Se il livello di preparazione teologica di base del laicato italiano è in parte imbarazzante, smettiamo di pensare solo a “come” comunicare, ma proviamo ad aprire qualche libro...

È necessario ritornare a pensare la formazione anche a livello teologico. Il presupposto (spesso inconsapevole) che abbiamo richiamato (qui) per cui sarebbe più importante curare la relazione rispetto ai tanti contenuti, più o meno complicati, di cui parla la fede, è assolutamente deleterio. Il principio dialogico-personalistico a partire dal quale la costituzione Dei Verbum ha riletto la rivelazione cristiana ci dice come la relazione umana sia al cuore della teologia, in quanto la verità del Vangelo si è manifestata nella storia di un uomo, Gesù, per dare senso alla vita e alla storia di ogni uomo e ogni donna, in ogni tempo, in ogni luogo. Lo studio, quindi, della teologia non può prescindere dal proprio destinatario, dall’umanità cui Dio ha voluto rivolgersi e che proprio per questo è direttamente chiamata in causa. Tutto questo, d’altra parte, non è qualcosa di immediatamente evidente. Il nostro passato – potremmo dire, forse, dal concilio di Trento – è segnato da una cultura che ha relegato la teologia nei seminari, come affare privato della vita clericale, sequestrando così la bellezza e la profondità del Vangelo, e riducendola a sua volta a dettami, dogmi e indicazioni moralistiche rivolte “a quelli fuori” dai seminari. Il modello della chiesa gerarchica, clericale, che si rivolge al “povero” laicato ignorante e bisognoso di “istruzioni per l’uso” ...

L'intera riflessione di Stefano Fernaroli alla seconda puntata (vedi qui) continua a questo link:




Cop28 (30/11-12/12): perché è significativa la presenza di papa Francesco

L’attesa per la venuta del pontefice alla Cop28 negli Emirati Arabi Uniti dopo cinque anni dalla presentazione del Documento sulla Fratellanza Umana con il grande imam shaykh al-Azhar Ahmad al-Tayyeb è molto significativa almeno per sentire una testimonianza autorevole di fede e aiutarci tutti insieme a superare il grande silenzio dell’omertà e della viltà ma anche il rumore irrazionale dei bombardamenti al cuore e alla ragione dell’umanità. L’intervento di imam Yahya Pallavicini, vice presidente della Coreis, Comunità religiosa islamica italiana

Tra la maggioranza di centinaia di autorità religiose che hanno partecipato questa settimana al Global Faith Leaders Summit di Abu Dhabi come evento ufficiale e collaterale che anticipa la Cop28 sono stati invitati anche esperti di crisi ambientale come il professor Jeffrey Sachs, docente dell’Università Columbia negli Stati Uniti d’America e direttore emerito del Earth Institute e tra i redattori del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.

Tra gli interventi aulici dei rappresentanti religiosi e le testimonianze tecniche di alcuni mediatori spirituali di correnti filosofiche, l’unico intervento che ha esplicitamente fatto concreto riferimento alla crisi e ai conflitti in Europa e in Medio Oriente è stato quello del prof. Sachs. Il grande silenzio, la paura di destare l’elefante nascosto nella cristalleria, ha condizionato ebrei, musulmani, cristiani, indù e buddhisti, dall’Indonesia al Libano, dall’India al Giappone, dall’Egitto alla Russia, dalle Americhe al Regno Unito.

L'intervento di Pallavicini continua a questo link:

https://formiche.net/2023/11/cop28/