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XVIII PA – Gv 6.24-35

Tra il ricordo e l'attesa irrompe il presente di Dio
 

La moltiplicazione dei pani che Giovanni ci ha raccontato la scorsa domenica, si è scontrata con l’incomprensione della folla che si blocca di fronte al miracolo e vuole fare Re Gesù che, di fronte a questo, si ritira in disparte in solitudine dicendoci così che, per quanto poco ci possa sembrare, non ci serve altro che quello che lui è perché la nostra storia si apra alla speranza di un mondo nuovo. 

La buona notizia per tutti sono le 12 ceste avanzate, con le quali ci viene assicurato che chiunque ha fame può incontrarsi con questo Dio capace di sfamare coloro che chiedono il pane dell’amore, della misericordia, della compassione. 

Oggi Giovanni ci propone di fare un altro passo.

La folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù”. La folla aveva seguito Gesù – secondo Marco a piedi anticipandolo sull’altra riva – e ora, non vedendolo più, si sposta di nuovo andandolo a cercare. Quando pensiamo di aver “trovato” Dio, cioè di averlo “definito”, bloccato in una situazione che a noi andava bene perché ci aveva “sfamati”, cioè avevamo trovato risposta alle nostre esigenze, lui non sta più là: è un Dio che va sempre cercato, sempre ulteriore all’idea che di lui ci possiamo fare. Anche la Chiesa, se desidera essere autenticamente discepola “non sta più là” perché lo segue e, quindi, cambia pure lei. Questo suo spostarsi ci ricorda quello che ci diceva Marco due domeniche fa: la chiesa è una comunità “strada facendo”, sempre in cammino per seguire il suo Signore e gli uomini che lui ama.

L’incomprensione della folla, Giovanni ce la racconta con tre domande alle quali Gesù risponde a sua volta ponendo degli interrogativi, cercando così di aiutarli a compiere passi ulteriori per capire l’agire di Dio.

Alla prima di queste domande “Rabbi, quando dei venuto qua?” Gesù risponde: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” e rilancia chiedendo di non fermarsi all’essersi saziati, ma di andare oltre, cercando di capire che cosa sottintende quel segno, proponendo loro una ricerca: “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna”.

In quel periodo si stava diffondendo l’idea di una vita oltre la morte ed era in corso il dibattito sulle condizioni per potervi accedere. La folla sa che, per averla, è necessario agire secondo le intenzioni di Dio (= la Legge mosaica) concretizzandole, ma intuisce che Gesù ha qualcosa di specifico in merito da annunciare ed allora la seconda domanda è allora obbligata: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” e Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”. 

La folla chiede delle cose da fare (al plurale); Gesù ne indica una sola al singolare: credere in lui. Qui Giovanni inizia a sviluppare il tema della fede in Gesù che la liturgia, riprendendo l’itinerario che Marco ci aveva fatto fare in merito, ci accompagnerà ad approfondire e sviluppare nelle prossime settimane.

E va bene, può essere” pensa la folla, però: “Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compì? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo” ed è la terza ed ultima domanda che troviamo in questo brano dell’Evangelo. 

Ma come, verrebbe da chiedersi, si sono appena sfamati in 5.000 con 5 pani e due pesci: non è loro sufficiente? Hanno già dimenticato? In realtà, secondo la tradizione profetica, un segno per essere probante deve essere annunciato in precedenza dal suo autore. Infatti non chiedono a Gesù di operare immediatamente un segno, ma di dire quale segno egli compirà. Certamente vedono in lui un personaggio investito di una missione che aveva mostrato un potere eccezionale da loro interpretato secondo le proprie attese, senza che Gesù avesse detto una parola. Qui invece lo sente dichiarare che credere nella sua persona significa compiere tutta la Legge perché attraverso l’immagine della manna, i galilei si riferiscono alla Legge donata al Sinài, della quale Israele fa il suo nutrimento quotidiano. 

Gesù risponde: il pane che viene dal cielo non è quello che vi ha dato Mosé, ma quello che vi dà il Padre mio: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Ancora una volta la folla chiede un’opera, ma Gesù presenta sé stesso come colui che discende dal cielo, il vero pane che dà la vita, non solo a Israele (come con la manna e la Legge) ma, allargando l’orizzonte, a tutto il mondo.

Come le altre due risposte, anche questa cerca di provocare in chi lo interroga un passo ulteriore per non fermarsi al segno, al fare delle opere o a chiedere a Dio stesso di compiere delle opere.

È importante notare come si modificano i tempi: tra il ricordo (della manna/Legge) e l’attesa (il nutrimento futuro promesso da Gesù), irrompe il presente di Dio, la realtà sostanziale dell’oggi.

Allora gli dissero: Signore, dacci sempre di questo pane”. È importante notare che qui i Galilei lo riconoscono come “Signore”

Gesù risponde: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Nel dirci che è lui il pane di Dio disceso dal cielo che dà la vita al mondo, contemporaneamente ci invita a fare quello che Dio fa per il mondo, nella nostra realtà: dare la vita, porre le condizioni perché tutti possano vivere in pienezza, senza trattenere nulla per sé stessi, condividendo quello che ciascuno di noi è ed ha. Certi che questo si moltiplicherà.

 

(BiGio)

Gv 6 24-35 - Tre appunti ...

 



Il fondamento dell’etica biblica è posto nel fare ciò che Dio fa, nell’agire come agisce Dio, comportarsi come Lui si è comportato, come Gesù ha mostrato.
Questa è l’opera di Dio, credere in colui che egli ha mandato.

Quale segno fai perché vediamo e possiamo crederti? La risposta di Gesù: Io sono il Pane della vita. Nutrire la vita è l’opera di Dio. Io sono il Pane della vita, il pane che alimenta la vita. L’uomo nasce affamato e il pane della vita sazia la fame, ma poi la riaccende di nuovo e sveglia in noi «il morso del più» (L. Ciotti), un desiderio di più vita che morde dentro e chiama, una fame di più libertà e più creatività e più alleanza.

Dio non domanda, Dio dà.
Dio non pretende, Dio offre. 
Dio non esige nulla, dona tutto.

Ma Dio non dà cose, Egli non può dare nulla di meno di se stesso. Ma dandoci se stesso ci dà tutto.
E ci chiama ad essere come Lui, nella vita datori di vita.
(da: www.insiemesullastessabarca)

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Riprendendo i temi che Marco ci ha lasciato, noi non solo siamo chiamati a fissare lo sguardo su Gesù non fermandoci sui segni (come rischiamo di fare anche di fronte all’Eucarestia) ma, sapendo che c’è dato solo Dio come risposta ai nostri bisogni che il Vangelo della scorsa domenica ci ha indicato, c’è anche chiesto di essere quella comunità di discepoli che sa di non poter “possedere” il suo Signore. Per questo continua ad essere alla ricerca, a non accontentarsi, a non rimane “statica” nei gesti che compie, ma continua a seguire Gesù facendo suo il suo modo di aver compassione di tutti quelli che incontra nel suo continuo spostarsi, strada facendo, di villaggio in villaggio.

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Una Comunità che pone le sue domande come la folla, ma anche ascolta le risposte del Signore per fare ulteriori passi, non solo per saper leggere i segni, ma anche per riuscire a cercare Gesù; non solo per fare delle opere, ma per credere; non solo per scoprire le proprie opere, ma sapendo che lei è la grande opera di che Dio sta realizzando.

Così facendo la Chiesa impara ad essere lei il pane buono per gli uomini ed essere lei un qualcosa che, non per suo merito, discende da Dio e che in questo modo è in grado di dare la vita al e per il mondo.

 

Divorate la parola e distribuite il pane

di David Maria Turoldo

Voglio fermarmi soltanto sul discorso del pane. Intanto il discorso del pane è un discorso fondamentale per tutti: al fondo di tutti i problemi è il pane. Anche oggi le guerre sono occasionate dal pane non diviso, dalla fame, dall’economia che diventa poi occupazione, rapina, diventa appropriazione indebita dei beni altrui, diventa scialo da una parte e miseria dall’altra, eccetera eccetera. I1 problema del pane è di una gravità unica ed è sempre fondamentale.

Anche oggi, se voi pensate, mentre io sto parlando, immagino di essere in paesi come l’Alto Volta, come il Bangladesh. Io sono stato in Bangladesh e sono fuggito via perché non riuscivo a inghiottire il boccone di pane perché avevo intorno cinquanta, cento bambini che mi chiedevano quel boccone, e uno era sfiancato, quell’altro era focomelico, quell’altro era con gli occhi bruciati dalla cataratta, erano tutti dei piccoli mostri a causa della miseria e tu dovevi camminare facendoti largo. Provate voi a fare il di- scorso del pane, fate il discorso del pane all’affamato!

Da noi il problema del pane in quanto pane l’abbiamo risolto. Non c’è nessuno da noi che muore di fame, anzi siamo strasazi. I nostri figli rischiano di non sapere neanche il gusto del pane perché ne hanno troppo.

Noi, da piccoli si andava dietro i frammenti, le piccole pagnotte, e le si toccavano e le si prendevano; anzi le si tenevano in bocca perché non andassero giù, per sentire il sapore e che perduras- se... Adesso dove trovate? Non sanno niente, non sanno neanche il sapore dei cibi che mangiano perché ne hanno troppi. Il problema del pane è risolto da noi, eppure questi ragazzi – diciamo ragazzi, perché io penso che voi tutti adulti abbiate qualche volta riflettuto su questo – sono così disperati, così scontenti, così insoddisfatti. Il nostro mondo è il mondo degli insoddisfatti, degli strasazi e insieme insoddisfatti.

Perché è vero che il problema del pane è decisivo, ma non è l’ultimo discorso, tant’è vero che: «non di solo pane, non di solo pane!», è l’antifona che sta oggi alla proclamazione del vangelo. «Non di solo pane vive l’uomo, bensì di ogni parola»!

Ecco, questo è un discorso da fare e da fare anche al lume di una ragione, di una scienza e di una economia naturale senza disturbare Dio e la fede. Questo è!

Ma se poi passiamo anche al problema della fede è certissimo che il problema fondamentale di Cristo – difatti, non per nulla la sua prima tentazione era la tentazione di convertire le pietre in pane – è il problema del pane. Tutta la vita di Cristo si svolge sotto il segno del pane. Nasce a Betlemme che è la città del pane perché Betlemme vuol dire: città del pane. È Lui il pane, diventerà Lui il pane, si farà Lui il pane degli altri! «Io sono il pane»; la parola di Dio è il vero pane.

Allora c’è un problema che sta al centro di tutta questa meditazione, di questa proposta liturgica di oggi: è il problema della Parola. La parola di Dio. Difatti: «non di solo pane, bensì di ogni parola».

E notate: è della Parola che dobbiamo nutrirci, e cioè la vera opera di Dio è credere, cioè è vivere e tradurre nella realtà la parola di Dio: nella tua esistenza, nella realtà.
Pensate se la chiesa—chiesa che poi vuol dire ecclesia, umanità fedele, umanità credente – traducesse questo. Ma già solo se i cristiani avessero il coraggio di dividere – loro soli – il pane, ce ne sarebbe a sufficienza per tutti. Pensate!

Se tu non hai una visione così umana e profonda, se tu non hai una visione che va oltre, che scavalca tutti gli egoismi e tutti gli individualismi, che ti fa sentire inserito come dentro l’umanità: uno coi tuoi fratelli: chi è nella fame, che non abbia io fame! Se non è questa visione non c’è soluzione.

Noi partecipiamo a un sistema dove non c’è soluzione, assolutamente! E ci saranno sempre più morti di fame e si ricorrerà, per salvarci dall’esplosione demografica, alla sterilizzazione, alla strumentalizzazione, all’avvilimento di ogni creatura. Non c’è soluzione, assolutamente!

«Io sono il pane, e chi mangia di me avrà in se stesso la vita. Io sono il pane e chi mangia di me non avrà più fame». Ecco la soluzione del problema. E «chi crede in me non avrà più sete», perché finalmente ha trovato la risposta.

Ecco il grande problema! Che sia così almeno di noi.

(da: www.insiemesullastessabarca)

Gesù distribuisce il pane

Ultima cena - Jacopo Tintoretto, 1592-94 (Venezia, San Giorgio Maggiore)


Nel vangelo di oggi Gesù si offre come il “pane della vita” facendo riferimento all’eucaristia. Nella raffigurazione dell’ultima cena del Tintoretto Gesù non ha forma statica, non mostra il pane per essere adorato, ma come nel racconto della moltiplicazione dei pani Gesù si muove, offre il pane in un banchetto che prolunga l’altare centrale della chiesa per arrivare a tutti.

«Caratteristica tipica della maturità del Tintoretto [predecessore del Barocco] è uno sviluppo fortemente teatrale della tessitura luministica, finalizzata non tanto ad animare la composizione, quanto a creare contrasti e a evidenziare la tensione dinamica dei corpi [...al fine] di coinvolgere emotivamente lo spettatore nell’episodio sacro» (Pallucchini, Rossi 1982)

La sua tecnica è rapida, le sue composizioni sono audaci e infrangono le regole prospettiche del Rinascimento.

L’effetto grandioso della tela - ultima opera del pittore - è dato dal punto di vista fortemente rialzato della prospettiva obliqua che amplia a dismisura lo spazio verso il fondo. La luce - proveniente dalla lampada a olio, dalle aureole di Gesù e degli apostoli, dagli evanescenti angeli che aleggiano sospesi tra il mondo terreno e l’ineffabile mondo celeste - accentua il carattere visionario della scena.

«Nell’arte di Tintoretto la luce non né fresca né legata in maniera armonica, bensì “esaltata” e talora febbrile, basta guardare [...] le drammatiche ombre proiettate dagli apostoli sul tavolo. [...] Gesù non siede al centro del tavolo, ma si trova comunque nel punto centrale del quadro, si osserva così un’ulteriore ambiguità che contrappone due realtà, quella interna l’immagine e un’altra esterna che coinvolge l’osservatore. Una simile ambiguità si osserva nel tavolo disposto di sbieco, che attribuisce al dipinto un effetto del tutto diverso da quello del Cenacolo di Leonardo, ed è correlata alla collocazione del dipinto alla destra dell’altare della chiesa. Difatti, visto dalla navata della basilica, il tavolo appare nel dipinto come un prolungamento dell’altare». (Curiger 2011, p. 469)

L’ambigua relazione tra realtà e miracolo trasporta l’osservatore in un momento di intensa poesia e di profondo misticismo. Scopo principale del dipinto è l’esaltazione della comunione - cibo celeste, segno di vita eterna - alla quale rimane estraneo Giuda, l’unico senza aureola, malvestito e relegato in solitudine al lato opposto del tavolo.

«Non siamo noi a poterci dare la vita da soli. Da quando veniamo al mondo, viviamo sempre per qualcun altro che “ci dà la vita”, fosse anche attraverso una carezza che ci rimette in piedi. Così, anche nel cuore della nostra fede: tu ricevi vita da Dio e senza di Lui la vita lentamente si spegne.

Dio si fa manna nel deserto degli Israeliti, Dio si fa pane in Gesù Suo Figlio. E Gesù, non a caso, parla di “pane di vita”. È un Dio che si siede alla tavola della tua vita, che condivide come un amico le cose che vuoi raccontargli, che fa festa con te perché ti ha a cuore e gli sei caro. E perché la tavola sia sempre imbandita, sia ricca non solo di cibo ma anche di amore, sia luogo di umanità e di relazione, dove impari con pazienza l’arte della vita vincendo la tentazione del fast food, ecco che Gesù stesso si fa pane, si fa carne, si fa sangue. Ti offre la sua compagnia, la sua presenza, la sua Parola, la sua stessa vita dalla quale ogni volta ricevi vita.



[...] Così, l’Eucaristia è un ricordo che si attualizza sempre: ti ricorda che se nei deserti della vita non muori di fame, se nonostante tutto non si sono ancora disseccate le sorgenti della speranza dentro di te, se il peso della vita quotidiana non ti ha schiacciato per sempre, se non ti sei mai rassegnato fino in fondo alla morte, è perché ricevi vita da Dio. Dio alimenta, nutre, dona la vita.

E quando mangi questa Pasqua, allora sei risorto anche tu. Hai una luce dentro anche se vivi momenti di oscurità. Hai una speranza che non dissecca anche quando l’aridità incombe. Hai amore incrollabile anche quando il mondo cade a pezzi intorno a te. E anche tu, diventi pane che si spezza per gli altri e genera vita».

Francesco Cosentino

(da: www.insiemesullastessabarca)

Piccola Rassegna Stampa: una selezione di temi .... (7 segnalazioni)

Questa piccola "Rassegna Stampafatta di indicazioni di articoli (con relativo link) su temi che si ritengono interessanti per le attenzioni spesso sollecitate nella nostra Comunità. Un breve sommarietto ne anticipano il contenuto così si può scegliere quello che eventualmente interessa. In ogni caso anche solo la titolazione e il sommarietto offrono una informazione.

 



La sinodalità, il camminare assieme è costitutivo dell’essere comunità

Non si può essere, secondo l’immagine di S. Paolo, un unico corpo senza camminare assieme. Ma la Chiesa ha questa consapevolezza?

https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2021/07/simona-segoloni-sinodalita-nella-chiesa.html

 

Non è “il tonfo della DAD”. I dati degli Invalsi dicono (molto) altro

Da giorni impazzano titoli e interpretazioni sui dati Invalsi, usciti giovedì mattina. Peccato che titolisti, giornalisti e anche parecchi politici dimostrino, ancora una volta, di non saper leggere con la giusta attenzione i report e le tabelle pubblicate dall’Invalsi, l'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI), e, soprattutto, di non conoscere il concetto di correlazione e di rapporto causa-effetto. “Adesso tutti semplificheranno questi dati in una sola parola, la DAD”, aveva commentato subito Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione, nel momento della presentazione dei dati Invalsi. Ma è davvero molto riduttivo, poco corretto e perfino un po’ disonesto, perché il punto è un altro. Perché i dati di quest’anno, disastrosi sì, senza se e senza ma, non sono del tutto inaspettati. Sono senza dubbio un netto peggioramento ma rispetto a una situazione già molto poco soddisfacente, dove pesano da anni disuguaglianze, povertà educative, profonde inadeguatezze. Ci sono seri problemi di discriminazione sociale nel nostro paese. E la pandemia ha agito su questo. Quando una crisi incrocia una situazione cronicamente fragile e poco adeguata, sia dal punto di vista infrastrutturale e ancor più da quello culturale, può solo avere un impatto tragico.

 

Cristiani, tornate a rischiare tutto 

intervista a Timothy Radcliffe a cura di Vittoria Prisciandaro in Jesus del luglio 2021

Immagino per un domani «Un mondo in cui si riscopre il piacere di discutere con le persone con cui non siamo d'accordo! Sogno dibattiti intelligenti in cui si discute per imparare l'uno dall'altro e non solo per vincere!».

 

Nutrire il mondo coi diritti umani 

di Carlo Petrini in La Stampa del 27 luglio 2021

Evento parallelo di 300 organizzazioni della società civile di tutto il mondo, in concomitanza con l'avvio del pre vertice sui sistemi alimentari di Roma. Obiettivi da perseguire: concreto cambio delle politiche alimentari globali e dei sistemi che da esse dipendono, salubrità del nostro sistema ambientale, giustizia sociale e convivenza tra i popoli.

 

Abolire il nemico 

di Raniero La Valle in www.chiesadituttichiesadeipoveri.it del 28 luglio 2021

Rifiutare l'idea del Nemico significa infatti anche escludere il carattere vendicativo della giustizia penale, che intende la pena come un risarcimento del male compiuto mediante l'inflizione di una sofferenza al colpevole... l'uscita dalla sindrome del Nemico non è solo una questione di etica pubblica, è una questione di sopravvivenza e ci sfida a passare a un'altra antropologia.... il proporre il vino nuovo del vangelo.

 

«Quella lunga notte con abuna Paolo chiusi nella cella del Daesh a Raqqa» 

di Riccardo Cristiano in Avvenire del 28 luglio 2021

Il racconto di un rifugiato siriano, fuggito nel 2015. Mesi di viaggio: «I volontari? Sono stati importanti per me. Non solo per il cibo, ma per la forza che ti danno, ti fanno capire che la tua vita ha un valore. E così io ora faccio il volontario, per la Croce Rossa». «Ero infermiere a Raqqa... una sera mi hanno arrestato... Poi portarono un altro prigioniero. Era Paolo...».


Gli invisibili della salate in busta

di Antonio Maria Mira - Avvenire . sabato 17 luglio 2021

Viaggio nella Piana del Sele, fra i braccianti sfruttati nei campi e aiutati dagli operatori della Caritas Don Martino: Con la pandemia la condizione dei lavoratori immigrati è ulteriormente peggiora


https://www.avvenire.it/attualita/pagine/gli-invisibili-delle-insalate-in-busta?fbclid=IwAR3YTGdpHwrC4XdrmsFzftTu1Tsu7VmGmGv0pHl0mTUimp_zi_hTLf_PyBk

Verso una Chiesa "policentrica"

Dal Foglio della Parrocchia S. Trinità di Mestre del 1 agosto 2021



 

29 luglio: Memoria di S. Marta (Lc 10,38-42)

Le due esigenze del discepolato: 

l’ascolto (shimmua‘) e il servizio (shimmush). Non l’una senza l’altra.

Due sorelle compaiono in questo vangelo, ed entrambe accolgono Gesù, ciascuna a modo suo. Entrambe si può dire che diventano sue discepole, e due sono le esigenze del discepolato: l’ascolto (shimmua‘) e il servizio (shimmushdel Maestro. Non l’una senza l’altra. Quale delle due ha la precedenza? Probabilmente è una domanda oziosa. L’ebraismo, come è noto, insiste molto sul fare: “Faremo e ascolteremo”, dicono i figli d’Israele sul Sinai, quasi anteponendo la prassi all’ascolto (Es 24,7). È un’istanza operativa che si esprime in mille cose da fare, in una moltitudine di precetti da mettere in pratica. Non basta escogitare, bisogna praticare. Anche per Gesù la casa dell’ascolto si costruisce sulla roccia della prassi. San Paolo, in voluta polemica con questo atteggiamento che gli appare legalistico, da parte sua insiste molto sulla virtù della fede che giustifica indipendentemente dalle opere, ma sappiamo bene che una fede priva di opere è morta, si isterilisce (san Giacomo). “La cosa principale non è l’esegesi, ma la prassi”, insegnano i Rabbini nei Pirqè Avot, ma Rabbi ‘Aqiva, il più grande di loro, fa giustamente eccezione. Una volta – si legge nel Talmud (Qiddushin 40b) – nella casa di Nitza a Lod, ebbe luogo una discussione tra Rabbi Tarfon e Rabbi ‘Aqiva su quale fosse la cosa più importante, se lo studio (talmud) o la prassi (maaseh). Contro il parere di Tarfon, che difendeva il punto di vista tradizionale, prevalse l’opinione di ‘Aqiva: “È più grande lo studio”. Ma la motivazione era proprio questa: “Perché lo studio conduce alla prassi”. Anche il fare, senza una dovuta riflessione, si risolve in superficiale attivismo. Non è dunque possibile stabilire delle precedenze: ascolto e prassi sono necessari l’uno all’altra. Più che altro, è questione di sensibilità personale, di una maggiore o minore attitudine, o forse anche di una diversità di carismi nella comunità cristiana.

Non credo che Gesù, incontrando queste due donne, faccia una preferenza o voglia istituire una nuova gerarchia di carismi all’interno della chiesa. Non si tratta di anteporre una vita “contemplativa” a una vita “attiva”, come spesso si è inteso leggendo questo brano, sulla scorta di una distinzione filosofica e non biblica. Il carisma giovanneo non è più grande di quello petrino. Quello monastico, per esempio, non è superiore ai dovuti incarichi istituzionali, anzi è del tutto marginale rispetto ad essi. Gesù non stabilisce una priorità tra le due sorelle, e non contesta Marta. “Marta, Marta” è un’espressione di grande affetto e di riconoscenza verso colei che lo ha ospitato e che si dà un gran daffare per servirlo. A Marta (il cui nome significa “Signora”) Gesù non toglie nulla in quanto padrona di casa, non rovescia le gerarchie familiari. Ma Gesù difende Maria, probabilmente la sorella minore, dall’accusa di essere una fannullona o di perdere tempo. Difende chi è più debole, perché il molto fare, in certi casi, può degenerare in una qualche forma di prepotenza. L’unica cosa necessaria è l’amore per il Signore, sia che si ascolti la sua Parola, sia che lo si serva nei fratelli e nelle sorelle.

fratel Alberto

(Monaco di Bose)




Suggerimenti di lettura: Questo bacio vada al mondo intero

 


Durante la pandemia, la domanda su dove fosse Dio è stata posta da più parti.

Qualcosa del genere ha fatto Colum McCann, valente scrittore irlandese trapiantato negli Usa, in un suo stupendo romanzo, Questo bacio vada al mondo intero (Rizzoli), nel quale ha raccontato la New York post-11 settembre attraverso un affresco di personaggi. Uno di questi è padre Corrigan, un prete di strada che vive a fianco di prostitute e derelitti. E proprio vivendo nella condizione di estrema povertà sorge in questo religioso l’interrogativo su Dio. La sua risposta ci spiazza: «Corrigan voleva un Dio pienamente credibile, un Dio riconoscibile nel sudiciume del quotidiano. Il conforto che traeva dalla cruda e fredda realtà – corruzione, guerra, povertà – era che la vita poteva elargire piccole meraviglie. I magnifici racconti di un’esistenza ultraterrena o l’idea di un paradiso intriso di miele non lo interessavano. Erano per lui l’anticamera dell’inferno. Invece, nella vita reale, lo consolava la possibilità di intravedere nell’oscurità una piccola luce, guasta e ammaccata, ma pur sempre una luce». Molti di noi se lo sono chiesto in questi mesi: 'Dove sei Dio?'. E la risposta che McCann ci dà è di guardare a quelle «piccole meraviglie» che sono stati gli innumerevoli gesti di solidarietà cui abbiamo assistito.

(Lorenzo Fazzini in Avvenire del 28 luglio)


Colum McCann

Colum McCann è uno scrittore irlandese. Vive da tempo a New York dove insegna al MFA program (scrittura creativa) all'Hunter College. È stato vincitore del National Book Award con il romanzo Questo bacio vada al mondo intero (titolo originale Let the Great World Spin), pubblicato da Rizzoli nel 2010. 
Scrive per The New York TimesThe AtlanticGQThe TimesThe Irish Times e anche per La Repubblica
Il suo romanzo Transatlantic (2013), è stato finalista al Man Booker Prize 2013.
Nel 2003 l'Esquire Magazine l'ha nominato uno dei migliori scrittori viventi.

Abbiate cura della casa di Dio, della madre terra, non in nome di un profitto, ma per amore di volti e persone

 Messaggio dell'Arcivescovo di Napoli don Mimmo Battaglia ai "grandi" del G20


“Sorelle e fratelli potenti, governanti di ricche nazioni e grandi Stati, nel darvi il benvenuto anche a nome della Chiesa napoletana in questa terra generosa e accogliente, vi chiedo perdono se in questo mio discorso oserò prendere la parola a nome vostro. 

Prendo indebitamente in prestito il vostro prestigio e l’attenzione che esso comporta per rivolgermi a quanti non godono di alcun privilegio e di alcun diritto. A nome vostro, sorelle e fratelli primi, parlerò agli ultimi.

Parlerò a voi, fratelli e sorelle, che siete i primi agli occhi di Dio, a voi vedove e orfani, stranieri e ammalati, anziani e soli, popolo dei diseredati, degli scartati; a voi che nessuno vuole e che nessuno considera: a voi voglio innanzitutto chiedere perdono a nome dei fratelli potenti, che reggono le sorti di numerosi popoli, per non aver ascoltato il vostro grido, il vostro dolore, per non aver dato un volto alla vostra sofferenza. Sono sicuro che non si offenderanno se a nome loro chiedo scusa.

In questi giorni, nella nostra amata città, si riuniscono quanti hanno diritto ad un nome e a un’opinione, coloro che ascolti in silenzio e che non osi interrompere, la cui parola si trasforma in azione se solo lo vogliono, se solo lo desiderano.

Allora dico ai poveri: gridate! Gridate il vostro bisogno di dignità e di uguaglianza! Gridate come la vedova che chiede insistentemente giustizia al giudice (finanche se il giudice fosse corrotto)! Non si arresti il vostro grido per ottenere giustizia da quanti hanno una parola efficace. Prima o poi, fratelli miei poveri, sorelle mie povere, questo grido si farà storia e come seme cadrà sulla terra buona. Non siate indifferenti a quanto accade intorno a noi, siate voce nel deserto per un mondo alla deriva. E tu, Chiesa di Dio, chiamata a difendere il diritto dei poveri, la dignità degli ultimi, unisciti al loro coro e alza la tua voce: questo è il tempo opportuno per la tua profezia.

Non si offendano i primi se parlo agli ultimi; se quando si tratta di emergenza climatica ed energetica, non penso al profitto, ma a nomi e persone, che a causa dell’abuso delle risorse sono costretti a migrare, vedono i loro paesi distrutti dalla guerra, si trovano privati dei diritti più elementari quali istruzione, lavoro e salute. A questi ultimi va il mio accorato appello: fratelli e sorelle, non cessate di denunciare l’ingiustizia che vi attanaglia, il sistema che vi distrugge.

Abbiate cura della casa di Dio, della Madre Terra, non in nome di un profitto, ma per amore di volti e persone.

Voi dite «crisi economica», io leggo «Antonio, Gennaro, Francesca, Annamaria…», nomi e storie di quanti hanno perso il lavoro per questioni di “revisione gestionale”, perché sono cambiate le esigenze di mercato a fronte della richiesta, perché la borsa è in calo e… tante cose che sono numeri e non persone. Penso alla Whirpool e ai tanti disoccupati della nostra città, del Sud e di tutti i Sud del mondo, che per il ricatto tipico dell’economia del consumo, vedete minacciato il vostro diritto al lavoro e a un equo compenso. Voi che non chiedete più del dovuto e a cui è negato anche il minimo, gridate, ché io, vostro fratello nella battaglia, grido con voi!

Infine, mi rivolgo ai giovani e, a nome dei miei fratelli e sorelle primi, vi dico: aiutateci! Siate aria fresca! Noi promettiamo di aprire le finestre del cuore, per permettere che la vostra voce possa portare frutto. Promettiamo che non ci sarà bisogno che ricorriate alla violenza per farvi sentire, che non vi costringeremo più alla sommossa perché la vostra voce giunga in alto. Sapremo farci orecchio attento, che non ha bisogno di eclatanti sommosse per essere richiamato all’attenzione. Da parte vostra, però, chiedo collaborazione e comprensione: che la nostra città sia esempio di grido pacifico, ma convincente, affinché all’ingiustizia non si aggiunga la violenza.

Mi perdonino i primi se ho parlato agli ultimi. Ma sono un vescovo della Chiesa di Cristo, un semplice servo di Colui che da primo si fece ultimo e che da ricco si fece povero. Il suo grido sulla croce ancora riecheggia nei secoli e si mescola senza distinzione al grido di ogni povero, di ogni popolo oppresso, di ogni ultimo della terra.

Che Dio ci benedica tutti, che benedica i primi e gli ultimi, e che ci renda strumento di conversione vicendevole per una nuova alba di giustizia e di pace.”

+ don Mimmo Battaglia

8 anni fa la scomparsa di Paolo Dall’Oglio, monaco odiato dal regime e dall’Isis


di Riccardo Cristiano in “Adista” Notizie, n 29 del 31 luglio 2021

Il 29 luglio del 2013 veniva sequestrato a Raqqa, in Siria, p. Paolo Dall’Oglio. Gesuita, espulso nell’anno precedente dalla Siria del regime di Bashar al-Assad, Dall’Oglio è stato sequestrato dai terroristi dell’Isis, presso i quali si era recato per tentare di ottenere il rilascio di alcuni ostaggi. La sua storia così è diventata una tragica ma perfetta sintesi della storia del popolo siriano: espulso dal regime, sequestrato dall’Isis. L’espulsione di massa, una vera e propria deportazione di milioni di persone all’estero o ai lembi estremi del Paese, è stata reale. Il sequestro da parte dell’ISIS è stato «politico»: da dieci anni sono spariti in rappresentazioni manichee: terrorismo/anti-terrorismo, antagonismo/ imperialismo, pan-arabismo/pan-islamismo. Così la storia del monaco italiano trasferitosi in Siria circa quarant’anni dopo aver scoperto l’antico monastero, Deir Mar Musa, che ha restaurato fondandovi una comunità monastica dedita al dialogo islamo-cristiano per avviare dal basso la ricostruzione di una vera fratellanza abramitica è stata inghiottita da un racconto che col passare del tempo non poteva che estinguersi: è vivo? È morto? E se è morto chi l’ha ucciso? Otto anni dopo queste domande rimangono intatte, gravi e quasi nulla si è fatto da parte di chi poteva per cercare una risposta.

Le vittime dell’Isis non hanno diritto neanche all’identificazione nelle fosse comuni rinvenute: troppo costoso. E così anche il mistero sul destino di Dall’Oglio, come di tantissimi altri, permane e ognuno si è accontentato della risposta che sente vera dentro di sé. Ma il dramma di quel 29 luglio 2013 non si risolve soltanto in queste domande: c’è un’altra domanda importante: «Perché solo lui è andato lì?». Dall’Oglio è stato espulso da Assad perché la sua è stata la sola voce levatasi in favore di tutti i siriani dalle Chiese locali. La voce di un monaco che prese sul serio l’accordo raggiunto dall’inviato dell’ONU, Kofi Annan, per il riconoscimento della libertà di espressione fece infuriare il regime. Ma a Dall’Oglio criticare il regime non bastava. Sapeva benissimo che era pronto l’assalto jihadista per dirottare il treno della rivoluzione.

Tra nichilismo religioso e Islam popolare

Raqqa nel luglio del 2013 non era caduta in mano all’Isis: la città era ancora in mano a quegli insorti che volevano una Siria diversa, una Siria per tutti. Ma l’Isis era lì, la sua penetrazione sembrava destinata a prevalere, tanto è vero che aveva già stabilito il suo quartier generale nell’enorme palazzo dell’ex governatorato, dove lui andò a chiedere di rilasciare quegli ostaggi. I rapporti tra Isis e insorti erano pessimi, la tensione nota: di lì a breve sarebbe sfociata nella battaglia campale, mai vista tra Isis e regime, tra Isis ed Esercito Libero Siriano. Chi poteva già allora fuggiva da Raqqa. Posso dire non di presumere ma di sapere che lo sapeva anche lui. Nei giorni precedenti la sua partenza per Raqqa lo chiamai nel Kurdistan iracheno, dove lavorava con la sua comunità per i tantissimi profughi su incarico del patriarca caldeo, Louis Sako. Mi fece capire che era evidente che l’Isis avrebbe fatto da detonatore del conflitto: «Esplode tutto». E Raqqa, che di lì a qualche mese sarebbe diventata la capitale dell’Isis, era una parola che da sola incuteva timore. Dunque c’è andato perché aveva deciso di essere accanto all’umanità di Raqqa. Erano uomini e donne abbandonati al loro destino, quello che avrebbe tradito una rivoluzione libertaria e segnato il nostro futuro. Dopo Raqqa sarebbero rimasti solo i dualismi manichei: terrorismo/anti-terrorismo, antagonismo/ imperialismo, pan-arabismo/pan-islamismo. L’idea di abbandono delle persone normali dall’islam, da parte della comunità internazionale, avrebbe creato un nichilismo islamico capace di travolgere l’islam popolare, che è sempre stato amico del mondo, mai suo nemico, come i regimi paranoici e gli araldi invasati dell’islam apocalittico, che si sarebbero nutriti proprio di quel nichilismo per usarne la sete di violenza ai propri fini.

Fratelli e cittadini

Già prima dell’inizio della rivoluzione siriana Dall’Oglio spiegava che il fondamentalista è colui che crede che al di fuori della propria verità ci sono solo false credenze e quindi una falsa umanità. Era il suo modo di presentare, a tutti i credenti e non credenti, una certezza che oggi troviamo affermata in un’enciclica, Fratelli tutti. O siamo fratelli, e quindi cittadini con pari diritti dello stesso Stato sovrano per via della nostra sovranità, o c’è qualcuno che è più uguale degli altri, perché possiede l’unica e assoluta verità. Non so se Francesco sapesse che proprio in Siria un primo ministro cristiano, Faris Khoury, aveva fatto sua la massima che ha citato al Cairo, quando ha incontrato le autorità egiziane: «La fede è per Dio, la Patria è per tutti». Anche Paolo disse che questa idea si poteva accettare, ma chiarendo di volere un Paese nel quale tutti ci si ama come ci ama Dio. Sapeva che un certo statalismo arabo divinizza il “Presidente”, il raìss, e questo rischio può essere scongiurato solo con la teologia del buon vicinato, il vero antidoto all’odio comunitario. Il dialogo tra persone, non tra raìss e patriarchi e muftì, è sempre stato il suo intento. Se non fosse andato a Raqqa, io ne sono sicuro, avrebbe sentito di aver tradito la sua visione per cui uno Stato supera la dimensione di apparato e diviene davvero un Paese se ci si ama come ci ama Dio. Ed è entrato nel quartier generale dell’Isis. Non è andato da turista, portava il peso di una visione, quella che lo ha sempre separato da ogni identitarismo.

Minori spariti: dati impressionanti

 


In Europa sparisce un bambino ogni 2 minuti.

Secondo uno studio della Commissione Europea, ogni anno in Europa sono circa 250.000 i bambini e gli adolescenti che scompaiono: un bambino ogni due minuti. Circa il 60% sono adolescenti che si allontanano da casa a causa di situazioni di abuso, violenza o disagio, il 23% è vittima di sottrazione nazionale e/o internazionale mentre il 10% è un minore straniero non accompagnato (arrivato in Europa senza il supporto di un genitore o di un tutore) a rischio di cadere vittima di tratta e sfruttamento. Inoltre, secondo i dati raccolti da Missing Children Europe, un caso su sei di minori scomparsi ha carattere transnazionale. 

 

In Italia i minori scomparsi: 7.672 nel 2020, quasi uno ogni ora  

Il commissario straordinario del governo per le persone scomparse, Silvana Riccio, conferma all'AGI che in Italia l'anno scorso sono scomparsi 21 minori al giorno. Poco meno della metà sono stati ritrovati ma all'appello mancano soprattutto tra gli stranieri che arrivano soli  

AGI - In Italia l’anno scorso sono scomparsi 21 minori al giorno, quasi uno ogni ora: poco meno della metà sono stati ritrovati, ma all’appello ne mancano sempre tanti, troppi, soprattutto tra gli stranieri che arrivano soli con i ‘viaggi della speranza’.

Alla vigilia della “Giornata internazionale dei bambini scomparsi”, fissata per martedì, il commissario straordinario del governo per le persone scomparse, Silvana Riccio, fa il punto con l’AGI su un fenomeno che, sebbene in calo, resta allarmante.

 “Nel 2020 – premette il prefetto Riccio – i minori scomparsi nel nostro Paese sono stati 7.672, dei quali 5.511 stranieri, il 71,8%. Quelli ritrovati sono stati 3.332, il 43,3%: dati che, letti nella prospettiva corretta, appaiono preoccupanti ma meno choccanti di quanto sembra: se si ‘spacchettano’, si scopre infatti che la percentuale di italiani ritrovati è decisamente superiore, intorno al 75%. E che i minori stranieri non accompagnati, che rappresentano larga parte degli scomparsi, sono scomparsi sì ma fino ad un certo punto”.

“La fascia d’età più rilevante – ricorda infatti il prefetto – è quella compresa tra i 14 e i 17 anni di età: parliamo di adolescenti, per lo più maschi, con una certa autonomia. Di ragazzi identificati solo con il nome al momento dell’arrivo, che magari arrivano con già in tasca numeri telefonici e indirizzi di parenti e amici e per i quali l’Italia è solo la tappa di un cammino che ha per destinazione finale altri Paesi, perlopiù Paesi del nord Europa”. 

Anche per quelli che finiscono nel circuito dell’accoglienza, “in strutture da cui è ovviamente consentito uscire, la tentazione di andare via alla prima occasione buona e di non fare più ritorno puo’ essere forte: è un segmento, non piccolo, al quale guardare con particolare attenzione perché il rischio concreto è quello che imbocchi una strada sbagliata. C’è chi va ad ingrossare le fila della manovalanza criminale, e viene ritrovato nelle piazze di spaccio, e chi cade nel circuito dello sfruttamento, e finisce a chiedere l’elemosina o a fare il lavavetri ai semafori”. La casistica dei minori italiani è sostanzialmente diversa.

“Molti sono allontanamenti volontari, vere e proprie fughe – sottolinea il commissario del governo per le persone scomparse - magari legate a problemi familiari, a forme di disagio giovanile, al rendimento scolastico. Ci sono i casi di sottrazione anche internazionale di minori tra genitori separati, legati ai matrimoni misti. E ci sono casi di scomparsa legati in modo diretto o indiretto al mondo della rete, a situazioni di cyberbullismo, di adescamento online o di estorsione sessuale: un mondo, questo, che la polizia postale monitora con attenzione sempre maggiore anche in considerazione del tempo sempre più lungo che ragazzi e bambini trascorrono davanti agli schermi di pc, tablet e smartphone, anche per gli obblighi della dad e per l’isolamento imposto dalla pandemia”. 

XVII PA – Gv 6.1-15

Un avvertimento: guai a fermarsi all'emozione di un evento per quanto straordinario
Siamo invece chiamati a tenere fisso lo sguardo su Gesù

 

Marco domenica scorsa ci ha consegnato il volto di una comunità cristiana che possa essere in qualche modo una anticipazione anche se imperfetta del Regno che viene. È una comunità definita dall’essere in cammino, in divenire che ha il compito di amare gli uomini che Dio ama lasciandoli liberi di andare e venire per le loro strade che possono essere molto diverse dalle sue, senza voler imporre loro il proprio percorso, senza pretendere di assimilarle perché il suo compito è di far si che incontrino il Signore sorprendendoci perché ci anticipano, e vedere il Signore che ne ha compassione.

La scorsa Domenica, una domanda ci si era posti dopo aver ascoltato l’Evangelo. Gesù aveva inviato i suoi ad andare con lui in un luogo solitario a riposarsi un po’ perché non trovavano nemmeno il tempo di mangiare per stare dietro alla folla che andava e veniva. Ma dove vanno non trovano il luogo deserto al quale aspiravano, ma popolato da una grande folla che li aveva anticipati e li attendeva, quella stessa dalla quale speravano di allontanarsi. 

Ma il Signore può promettere qualcosa che poi non mantiene, oppure siamo piuttosto noi che dobbiamo imparare qual è il riposo che lui ci offre perché l’ha promesso e al quale la folla non è affatto un ostacolo ma un’occasione?

Lo si scopre se si mette in parallelo quel fatto con il salmo responsoriale di domenica scorsa, il n. 23 che, tra l’altro, alludeva anticipando l’Evangelo di oggi

 

Mc 6, 34 – Gv 6,1-15

Ps 23

… erano come pecore senza pastore

Il Signore è il mio pastore

li fa sedere sull’erba verde

su verdi prati

Gesù dà da mangiare

davanti a me prepari una tavola

Tutti si sfamarono

Non manco di nulla

 

Qui c’è il “riposo” promesso; ma cos’è?

 

Innanzitutto la “compassione” di Gesù. Il verbo greco reso con “si commosse” indica il movimento delle viscere che la vista della folla provoca in Gesù; è un verbo riservato unicamente a Gesù e a Dio.

I discepoli trovano il riposo quando scoprono la misericordia che Dio offre al popolo che ama, misericordia di cui è portatore l’”insegnamento” che sfocerà nella moltiplicazione dei pani che viene proclamato nell’Evangelo di oggi nella versione di Giovanni ma, anche in Marco è la continuazione del brano di domenica scorsa.

 

Giovanni però ci invita a concentrare la nostra attenzione su Gesù: “in quel tempo Gesù andò sull’altra riva, una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che lui faceva sugli infermi. Gesù salì sulla montagna e se mise a sedere con i suoi discepoli”. 

Noi siamo invitati adesso a fissare l’attenzione su Gesù. L’iniziativa è tutta sua per l’intero brano. Qui non insegna, ma alza gli occhi, vede la grande folla è sollecita i discepoli a porsi la domanda di come sfamare tutta quella gente: ha bisogno della loro collaborazione e del contributo di quello che un ragazzo può mettere a disposizione, disposizione cinque pani e due pesci. Fa sedere tutti sull’erba, benedice, fa distribuire,.

Prende il pane e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti; lo stesso fece con i pesci. Tre verbi: prendere, rendere grazie, donare. Il Vangelo non parla di moltiplicazione ma di distribuzione che lui fa e ce ne fu “finché ne vollero”. È un pane che non finisce e lui chiede raccoglierne gli avanzi.

Nell’Evangelo vediamo poi le due letture che vengono date a questo miracolo: quella della folla e l’altra di Gesù. La folla si ferma al fatto che è stata sfamata e vuole fare re Gesù che, invece, compresa questa intenzione, si ritirò in disparte, tutto solo.

Qui c’è un preciso avvertimento per noi: non ci si deve fermare all’emozione che può darci un evento per quanto straordinario, che sembra risolvere tutti i problemi della nostra vita, ma a continuare a tenere fisso il nostro sguardo solo questo Signore che sta con noi e ci chiede di condividere e far nostro il suo modo di stare nel mondo (in Giovanni siamo vicini alla Pasqua ....)

È importante comprendere che i segni e i miracoli ci sono dati per imparare che, per la nostra vita, è fondamentalesolo questo Dio. 

Filippo, presentando a Gesù i cinque pani d’orzo e due pesci, gli dice: “Ma che cosa è questo per tanta gente?” domanda che si potrebbe rileggere riferita a Gesù: “Che cosa è questo Dio che noi abbiamo potuto toccare e vedere, sappiamo tutto di lui e della sua famiglia? Ci sembra poca cosa per le esigenze così grandi come quelle della storia degli uomini!”.

Eppure questo Gesù ci chiede di guardare lui solo, perché solo in questo Dio a noi così vicino da sembrarci troppo umano, noi possiamo cogliere il suo disegno di salvezza per la nostra storia.

 

Dalla distribuzione (nell'Evangelo si parla di "distribuzione e non di "moltiplicazione) che fa Gesù (e non i discepoli), ne avanzano 12 ceste perché il pane che Gesù dona non è solo per i 5.000 presenti, ma è per tutti. Il pane che ci dona non è come la manna nel deserto a beneficio solo del popolo d’Israele, ma è un dono che rimane a disposizione per chiunque abbia fame e sete di lui. 

 

Da questo Evangelo siamo invitati ad essere quella comunità che Marco ci ha delineato nelle domeniche precedenti, capace di fissare lo sguardo su Gesù, di porre la sua fiducia solo su di lui, a non considerare questo Dio troppo poco per la nostra storia, ma capire che questo Signore è capace di stare nella nostra realtà per sfamare, attraverso noi, tutti coloro che chiedono ancora oggi del pane. Non per portare la soluzione dei problemi dell’umanità, ma a indicarne la direzione. Noi siamo chiamati a fornire al mondo lievito più che pane, a fornire ideali, motivazioni per agire, il sogno che un altro mondo è possibile, partendo dal condividere quello che abbiamo anche se poco.


(BiGio)