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Joseph Ratzinger, vescovo emerito di Roma, ha terminato questa la sua presenza tra di noi

Joseph Ratzinger, ci ha lasciato nell’ultimo giorno dell’anno. Un giorno particolare, saliente, come lo è stata la sua vita.
 

L’uomo, il professore, il sacerdote Joseph Ratzinger sono vissuti l’uno accanto all’altro. In genere, la valutazione morale di un’esistenza non è data dalla media di tutti momenti della vita né dalla somma; quasi sempre, soprattutto nelle vite di donne e uomini con un compito da svolgere, il senso dell’intera esistenza dipende da pochi atti, qualche volta da un solo atto decisivo quello che svela il nostro destino. 
Non è stata facile l’attività pastorale e teologica di Joseph Ratzinger. Uomo del concilio ne è stato interpretee e protagonista, ma poi ha dovuto attraversare la più grande crisi della chiesa dal medioevo: la post-modernità e quindi la fine della Christianitas (che neanche il concilio aveva colto). La crisi, le paure, le incertezze e le ambivalenze di BXVI sono state quelle della sua chiesa.
Una chiesa che lui ga amato più di se stesso, e quell’atto straordinario di rinuncia (molto simile a quello di Celestino), ha fatto del suo pontificato qualcosa di grande - un gesto decisivo è il distallato di una vita intera, mai atto isolato. Perché con quel gesto ha portato, sua insaputa, la chiesa nella post modernità: come avviene raramente nella storia, si teme con la ragione qualcosa per tutta la vita, poi un gesto fa fare alla carne ciò che il logos non sapeva fare. 
Quelle dimissioni hanno posto fine alla visione sacrale del papato, lo hanno riportato alla sua dimensione evangelica di servizio, e così ha cambiato la storia dei futuri papi. E tornando Joseph Ratzinger dopo Papa Benedetto, ci ha detto, senza dirlo, che ogni uomo è più grande del proprio destino; così è morto come era nato, Joseph, Adam, figlio della terra, come tutti. 
Non è facile lasciare la terra col nome col quale ci siamo arrivati, portando in dote tutti gli altri nomi del cammino.
Grazie Papa Benedetto, grazie Joseph Ratzinger: grazie per l’amore immenso alla chiesa, grazie per essere riuscito ad uscire di scena da vero uomo umile, grazie per la Caritas in Veritate, forse l’enciclica papale con le parole più belle e buone sull’economia; grazie per aver custodito il vangelo, per aver custodito una voce. Buon volo padre, buon volo fratello.
(Luigino Bruni)

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Va riconosciuto a Ratzinger di essere stato una figura di enorme spessore, non facile da trovare in giro. Trovo significativo che ci si sia scambiata la notizia dicendo che "è morto Ratzinger", e non "è morto Benedetto XVI". 
Il significato per me è il seguente: si tratta di un raro caso di persona che è stata persino più importante per ciò che ha fatto prima di diventare papa (come teologo, non come Prefetto), che per il fatto di essere stato eletto al soglio pontificio. Chiamarlo per cognome significa riconoscere che è stato persino più grande come uomo che come papa.
(Angelo Grossi)

1 gennaio - Lc 2,16-21 - Maria Santissima Madre di Dio

In cammino nella vita con tre verbi: udire, custodire, vedere

Nella pagina dell’Evangelo di oggi, Maria si sorprende di quello che i pastori raccontano sia stato detto loro del suo bambino. Ma come, l’angelo nove mesi prima non glielo aveva già detto? Si può dimenticare un annuncio del genere? No, non si dimentica. 

Maria da una parte rimane sorpresa che altri ora lo sappiano e proclamino ad alta voce a tutti quello che a lei era stato detto nel segreto. Dall’altra custodisce e medita per comprendere bene e sempre di più quella “parola avvenuta” (è la traduzione letterale dal versetto 15 che precede il testo odierno) che il Signore aveva prima annunciato a lei e ora fatto conoscere ai pastori. Questi ultimi, differentemente da ciò che i più pensano, non vanno ad adorare un bambino, ma a “vedere” quella parola “udita” (come Israele aveva visto le parole pronunciate dal Signore sul Sinài – Es 20,18) e a raccontarla per poi tornare, “lodando Dio per ciò che avevano udito e visto”. 

Ma cosa avevano udito e visto? L’annuncio della salvezza per tutto il popolo. È un messaggio diverso da quello del Battista che invitava alla penitenza per avere la salvezza; ora quest’ultima è annunciata direttamente e in totale gratuità. È questo che li muove nella gioia di un cammino di conversione perché li porterà di fronte alla salvezza, a quel bambino deposto nella mangiatoia. Attenzione, in questo verbo c’è un richiamo forte che chiude le porte ad ogni sdolcinatura; è il medesimo verbo usato quando il corpo di Gesù, avvolto nelle bende del sudario, viene deposto nel sepolcro. Questo per dirci che non si deve dimenticare come la salvezza ora annunciata in questa nascita, è comprensibile solo alla luce dell’intera vita-morte-resurrezione di quel bambino. 

Nel buio di una notte una manciata di pastori, hanno udito una Parola (l’annuncio della salvezza), l’hanno accolta, ci hanno ragionato sopra (= meditato) e, richiamandosela a vicenda (= custodendola), hanno iniziato un cammino al termine del quale l’hanno vista. È un po’ anche quello che dovrebbe essere il cammino della nostra preghiera.

Questa è allora una delle cose che l’Evangelo di oggi ci richiama: la Parola è sempre “nuova” e capace costantemente di sorprenderci come ha stupito Maria. È però necessario accoglierla, custodirla e meditarla nel silenzio del proprio cuore, in un itinerario che dura una vita. Contemporaneamente però va testimoniata più che con le parole con la concretezza del nostro essere tra, con e per gli altri, per farla “vedere”, cioè rendendola reale.

È questo il cammino al quale ci invita l’Evangelo di oggi: saper accogliere, custodire, meditare ed annunciare ad alta voce ogni speranza, vivendola nella concretezza di ogni giorno, sapendola anche accogliere da chi sono oggi i pastori di quel tempo, cioè gli esclusi, gli emarginati, gli ultimi che ne sono i primi depositari.

Sulle orme di Maria e dei pastori, buon cammino in questo 2023 nella pace del Signore, che non è quella del mondo, nemmeno quella che attendiamo in Ucraina …

(BiGio)

Un volto sorridente

Quello di un Dio che si compiace della sua creazione, ma è anche un Dio dal volto accogliente, che non si stanca di attendere l’uomo e la donna, lasciando loro lo spazio per ricominciare dopo essersi smarriti. È un volto di Dio che libera i nostri giorni dalla paura e dal falso volto di Dio che noi ci siamo fatti: volto di un idolo che “pietrifica” l’uomo nel suo errore e nella sua lontananza da lui. 



La liturgia all’inizio dell’anno civile pone come primo brano della liturgia della parola un testo di benedizione (Nm 6,22-27): «Così benedirete i figli d’Israele». Il tempo della vita che sta davanti a noi viene introdotto e illuminato da queste parole che non sono un semplice augurio di buon anno, ma un atto misericordioso di Dio che ci prospetta un tempo rischiarato da un volto sorridente, uno sguardo accogliente, quel volto stesso di Dio che nel tempo in cui celebriamo il mistero dell’incarnazione si è rivelato in Cristo Gesù. Alla fine della benedizione, parola che YHWH stesso dona al suo popolo, Dio afferma non un auspicio, ma un fatto: «E porranno il mio Nome sui figli di Israele e io li benedirò» (Nm 6,27). Benedetti quindi per una presenza invocata, il “Nome”, che nelle Scritture ebraiche è un termine usato per parlare della presenza di YHWH salvaguardando la sua trascendenza. Ma questa presenza ha per la Bibbia delle caratteristiche ben precise che sanno illuminare i giorni dell’uomo, se accolte e scoperte.

Per due volte nel testo dei Numeri si parla del Volto di YHWH, un volto sorridente ed un volto accogliente. La benedizione di Aronne apre il tempo dell’Israelita nella sua vita nella terra che YHWH gli ha donato, invitandolo a scoprire nei suoi giorni un Volto di Dio sorridente, un Dio che guarda la sua creazione e vede che è cosa bella/buona… guarda l’uomo e vede che è molto bello/buono! La benedizione di Dio invita l’uomo a condividere nei suoi giorni lo stesso sguardo benevolo e sorridente di Dio sulla sua creazione e sull’uomo stesso, a non rinnegare quello sguardo originario sul mondo e sulla vita. Il volto sorridente di Dio è lo spazio nel quale si muovono e respirano i giorni dell’uomo… invito pressante a corrispondere a quel sorriso in una vita bella e buona, un’opera d’arte che corrisponda al sogno di Dio sul mondo e sull’uomo che ha fatto gioire il Creatore all’alba della creazione. Il secondo tratto di YHWH è un volto accogliente, che l’israelita è invitato a scoprire nel tempo della sua vita. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei profeti e di Gesù è un Dio che si compiace della sua creazione, ma è anche un Dio dal volto accogliente, che non si stanca di attendere l’uomo e la donna, lasciando loro lo spazio per ricominciare dopo essersi smarriti. È un volto di Dio che libera i nostri giorni dalla paura e dal falso volto di Dio che noi ci siamo fatti: volto di un idolo che “pietrifica” l’uomo nel suo errore e nella sua lontananza da lui. 

Da questi due tratti del Volto di YHWH, volto sorridente e volto accogliente, nascono la grazia e la pace. Scoprire il sorriso e la longanimità di Dio significa far fiorire la vita percepita come dono da accogliere, come pienezza da far sbocciare. Per ogni uomo la sfida è di saper discerne nel suo tempo il sorriso e l’accoglienza di Dio che danno respiro ai nostri giorni, fecondano la nostra vita e la ricolmano di pace vera. Una pace che nessuna guerra può intaccare, come nulla può “oscurare” il Volto sorridente del nostro Dio, un volto che ha preso la carne e i tratti del Volto di Gesù, la Grazia di Dio che si è manifestata a noi per insegnarci a vivere in sobrietà, giustizia e pietà (Tt 2,12). Come i pastori, che vanno “in fretta” e trovano un bambino che giace in una mangiatoia, e sanno scorgere in quella semplicità il sorriso di Dio per l’umanità… così i nostri passi veloci, nel tempo che ci sta davanti, possono giungere a scoprire i luoghi nei quali oggi il Verbo prende “carne”. Così potremo toccare e vedere il sorriso di Dio, che continua e che è “benedizione” per ogni uomo e donna semplice che lo sa riconoscere, e sa guardare sé stesso gli altri e il mondo con lo stesso sorriso, con la stessa accoglienza. Così il Nome di Dio, la sua presenza, abiterà i nostri giorni nel nuovo anno che si apre. In sé è solo un fatto di calendario, ma può diventare metafora che dice il senso del nostro tempo.

(Matteo Ferrari)

La benevolenza di Dio per noi è il lieto annuncio di oggi


Nel giorno dell’Ottava di Natale, che quest'anno coincide con il Capodanno, la liturgia celebra la Divina Maternità di Maria. Si tratta del mistero del Natale celebrato e contemplato sotto una prospettiva particolare. Il brano evangelico in chiusura narra la circoncisione e all’attribuzione del nome di Gesù (Lc 2,21). Si tratta di due particolari importanti, anche se Luca li tratta molto brevemente. Da una parte, la circoncisione indica l’appartenenza di Gesù al popolo di Dio. Egli «riceve il segno della fedeltà di Dio e della sua alleanza con Israele» (F. Bovon). Dall’altra, l’attribuzione del nome, secondo quanto aveva affermato l’angelo a Maria (cf. Lc 1,31), è un elemento molto importante perché indica la missione del bambino. Luca non si sofferma su questo aspetto, ma il nome di Gesù, che significa “il Signore salva”, unito all’evento della circoncisione, non è un particolare di secondaria importanza. Da una parte abbiamo la fedeltà di Dio, dall’altra questo bambino nel quale la fedeltà di Dio si rende presente in modo nuovo e definitivo, e il cui nome indica una missione di salvezza. È interessante notare come Luca, che nella seconda parte della sua opera – gli Atti degli apostoli – affronterà il problema della necessità o meno della circoncisione per coloro che aderiscono al vangelo provenendo dal paganesimo, non eviti all’inizio del suo Vangelo di narrare la circoncisione di Gesù. 

Nella seconda Lettura, tratta dalla Lettera ai Galati, si trova l’affermazione della nascita nella carne del Figlio di Dio attraverso una donna, Maria. Gesù è nato da donna e “sotto la legge”, cioè appartenente al popolo di Dio Israele. Paolo inoltre descrive anche l’effetto dell’incarnazione del Figlio di Dio, cioè l’adozione a figli, la partecipazione della sua figliolanza divina a coloro che credono in lui e aderiscono al suo Vangelo, grazie al dono dello Spirito. In questo consiste la salvezza che Gesù porta, nel fatto di non essere più schiavi ma figli.

Sia il brano evangelico che la seconda lettura sottolineano come la figura di Gesù sia portatrice di salvezza, come attraverso di lui la benedizione di Dio raggiunga l’umanità. Il tema della benedizione domina anche la prima Lettura tratta dal Libro dei Numeri. 

La benedizione è allora uno dei temi dominanti della liturgia della Parola di questa domenica.

(MF)

Il messaggio del Papa per la LVI Giornata Mondiale della Pace

Nessuno può salvarsi da solo.
Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace.

«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (1Tes 5,1-2).

Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.

Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle.

Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23).

Cosa, dunque, ci è chiesto di fare?


L'intero messaggio del Papa a questo link:

https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/20221208-messaggio-56giornatamondiale-pace2023.html



 

Il 2022 in 12 immagini: non solo l'anno della guerra

L’ISPI ripercorre quest’anno di rottura con una selezione di 12 immagini emblematiche, accompagnate dalle analisi dei suoi ricercatori, per cercare di comprendere se e come i frantumi potranno essere ricomposti nel corso del 2023.



L’anno della guerra. Difficile definire questo 2022 in modo diverso: l’invasione russa dell’Ucraina ha incrinato profondamente l’ordine internazionale, proiettandoci un una nuova fase dalle caratteristiche ancora non chiaramente definite. Molti equilibri sono andati in pezzi: l’Europa ha dovuto rimettere in discussione la sua intera politica energetica, mentre la visita a Taiwan di Nancy Pelosi, speaker della Camera USA, ha messo a repentaglio il fragile equilibrio nello stretto di Taiwan. Perfino l’inamovibile Cina e l’impermeabile regime iraniano sono scosse dalle proteste popolari, rispettivamente contro la politica per contenere il Covid e l’uccisione della giovane Mahsa Amini. A rimanere imperturbabili in questo mare in tempesta sembra siano solo altre crisi: quella israelo-palestinese, che ha visto quest’anno l’uccisione della giornalista di Al-Jazeera Shireen Abu Akleh; e quella climatica, con le alluvioni che hanno devastato il Pakistan tra agosto e settembre.

Una sintesi attraverso i seguenti temi:

La guerra in Europa - Senza gas russo - Clima estremo - Palestina ancora senza pace - Flashpoint Taiwan - Il ritorno di Lula - Addio alla Regina - Xi Jinping III - Iran: donna, vita, libertà - Etiopia: una pace possibile - Trump non è tornato - Zero Co vid non funziona



Tutto a questo link:


https://ispo-zcmp.campaign-view.eu/ua/viewinbrowser?od=3zfa5fd7b18d05b90a8ca9d41981ba8bf3&rd=166050cd47ce440&sd=166050cd478443a&n=11699e4c32f323a&mrd=166050cd47843fe&m=1

Fabbrica del clero cercasi

I seminari sono a un bivio. Non si può continuare la formazione in un modello ministeriale “esaurito”, perché “è stato creato nel XVI secolo”. Si rischia di formare presbiteri per una società che non c’è più, definita da una realtà sociale, culturale e socioeconomica completamente nuova. Siamo coinvolti in un processo non solo di immaginazione, ma anche di trasformazione che ci richiede, in un certo senso, di saper cogliere l’opportunità che ci viene data. Urge una riconfigurazione del ministero del presbitero, decentrandolo dalla sua esclusività di ministro, ponendo fine alla «cultura della separazione» tra futuri presbiteri, comunità cristiane e società. 


Si impone una riflessione onesta, libera da luoghi comuni e approfondita per essere in grado di allinearsi alle grandi sfide che il mondo affronta oggi nel servizio delle comunità e nel dialogo con i mondi diversi. non esistono soluzioni facili o progetti esemplari. Come si forma oggi un prete, come è organizzata la giornata di un candidato al ministero presbiterale? Lodi, colazione, poi il pulmino che riporta in seminario alla fine delle lezioni; pranzo, riposino e poi tempo per lo studio, Vespri e Messa, cena… Ma non si occupano di cucinare, di fare la spesa, di lavare e stirare i panni. A parte lavare i piatti e sparecchiare, il tempo è consacrato tutto alla preghiera e allo studio. Problemi pratici, gestionali e domestici pari a zero. Spesso neppure la fatica di prendere i mezzi pubblici e mescolarsi fra la gente. È una formazione di base più adatta ai monaci che non ai futuri preti, chiamati a confrontarsi con una realtà complessa e in costante cambiamento della nostra moderna “società liquida”. 

Un ulteriore elemento che favorisce la deriva clericale riguarda i processi istituzionali di nomina e assunzione di ruolo. In molti casi per il presbitero non si prevede una gradualità nell’inserimento in nuovi ambienti e incarichi, ma egli ha sempre un entry level troppo alto: arriva in parrocchia e, ancor prima di conoscere qualcuno, ha già un ruolo più elevato della maggioranza dei fedeli. Il principio evangelico, per cui chi sta sopra deve servire, viene di fatto smentito nella prassi organizzativa e poi ci si lamenta della malattia del carrierismo!

Senza contare la questione di come discernere la chiamata di Dio in questione. È solo un impulso interiore e personale, o anche una chiamata che viene dalla comunità? 


L'intera riflessione di Domenico Marrone, Docente di Teologia Morale Fondamentale e Teologia Morale Sociale, che giunge a intuire anche aspetti propositivi a questo link:
 

Francesco, il Natale e il futuro della Chiesa. Parla Borghesi

Le difficoltà che questo Natale ci pone davanti agli occhi, la guerra mondiale, l’isolamento, la mancanza di grandi utopie, indicano il bisogno che non solo i cattolici avrebbero di una nuova fase. Conversazione con Massimo Borghesi, uno dei più apprezzati studiosi del pontificato di Francesco, della sua biografia intellettuale e del dissidio cattolico


Che il clericalismo sia un problema Francesco lo ha detto più volte, ma per superarlo ora occorre intraprendere un cammino, direi territoriale oltre che simbolico. Per riuscirci Massimo Borghesi vede due urgenze: mettere mano alla formazione dei preti e aiutare i movimenti. Parlando di formazione del clero occorre intendersi: è una formazione culturale e spirituale, che li renda capaci di parlare con questo mondo, o per meglio dire, con il mondo nel quale si trovano. Qui in Occidente occorrerebbe dunque una formazione più a contatto con la realtà di una società, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni, che ormai sanno poco dell’annuncio evangelico e che quindi hanno bisogno di un clero capace di capirli, di interessarli e non di temerli. Accanto a una formazione rinnovata che porti quindi linfa vitale nelle parrocchie, servono i movimenti, l’espressione concreta del laicato cattolico che ha bisogno di nuova fiducia e anch’essi di linfa vitale, oltre che di regole. Questa tensione polare tra parrocchia e movimenti aiuterebbe nella concretezza della storia a rendere visibile una Chiesa anche non clericale, nella quale la proposta di Francesco diverrebbe sostanza. Il ruolo delle donne nella Chiesa non può essere ridotto alla discussione sul ruolo sacerdotale, ma questo allargamento diverrebbe possibile se il “potere” non fosse soltanto sacerdotale. 

L'intera interessante intervista di Riccardo Cristiano a questo link:


"La comunione che viene": Dalla Francia una domanda di depoliticizzazione culturale ed ecclesiale

Un libro singolare, netto, forte, giovane: è la traccia di una esperienza politica di cattolici francesci che lancia una sfida grande alle ricostruzioni tradizionali della identità politica ed ecclesiale, alle quali siamo più abituati in Italia. Presento qui, in due parti, alcuni tratti del volume, traendoli dalla Prefazione che ho scritto per la edizione italiana del testo.


Il fatto che giovani filosofi francesi, che si presentano come “semplici parrocchiani” e che sono entrati in relazione in due “caffè” di Lione e Parigi (il Simone e il Dorothy), offrano una rilettura complessiva delle sfide politiche per il cattolicesimo contemporaneo, con una miscela sorprendente di radicalismo evangelico, di raffinata analisi culturale e di passione per la tradizione cristiana, questo è, fin dal primo impatto, un dato che sorprende forse ogni lettore, ma in modo particolare il lettore italiano. Poiché la posizione che il discorso assume, nei confronti del compito politico, dell’analisi sociale, delle sfide per la teologia, del discernimento spirituale, gode di una libertà di giudizio e di una originalità di tratto che spesso, in Italia, è del tutto estranea al dibattito comune e preferisce rifugiarsi solo in piccoli angoli accademici, ma non certo nei caffè! Abbiamo avuto anche noi, un tempo, i nostri “caffè letterari e filosofici”. Oggi abbiamo dislocato altrove il pensiero. Tanto meno abbiamo “caffè parrocchiali” che ripensano la chiesa e il mondo. Né abbiamo, ordinariamente, il coraggio di intrecciare vangelo, cultura, sfide sociali e giudizi storici con quella freschezza che il testo che abbiamo tra le mani ci offre, con una “allure” tutta francese, ma con una serie di evidenze che attraversano tutto il campo della esperienza europea e mondiale. 

L'intero articolo di presentazione del libro di Andrea Grillo a questo link:

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/dalla-francia-una-domanda-di-depoliticizzazione-ecclesiale-3/?fbclid=IwAR0mI691JxrlMlKI9Ng6IYBtwizSANrIJWOqGDiuuun0jkWUlEyAayKrAy0

Il segreto del Natale e del futuro

Charles de Foucauld che conobbe “Gesù di Nazareth” solo attraverso “Gesù a Nazareth”. Perché fu nella normalità del contesto familiare a Nazareth, dove tutto era già dato come “umano” e non artificiosamente come “religioso”, che Gesù mosse i primi passi e imparò quel linguaggio, fatto di parole, gesti e affetti, che solo dopo avrebbe impiegato per rivelare niente meno che l’amor del Padre suo! Fratel Charles, volendo conoscere e seguire Gesù di Nazareth, si mise alla ricerca di quell’atmosfera sorgiva, di quel «monachesimo domestico», a Nazareth, quasi fosse stata quell’atmosfera il primo vero agente educativo anche per il Figlio di Dio!

Ebbene, Dio comincia sempre da ciò che è domestico, già dato come “umano”, prima di ogni altro artificio. La prima cappella è sempre la cucina di casa e la prima catechesi è sempre e anzitutto la parola di mamma e papà. Dunque, il primo vero agente educativo è quell’atmosfera, a casa come a scuola, nella  misura in cui porta in sé qualcosa di monastico, cioè di sorgivo, unificante e anti-idolatrico!

L’etimologia della parola catechesi infatti sembra alludere all’atmosfera di una vita più che a una lezione di un’ora! A monte abbiamo il verbo κατηχέω – katécheó che si compone di kata (che indica un movimento dall’alto al basso) e da ēxéō (da cui la parola “eco”) che vuol dire “emettere un suono”, “echeggiare”. Quindi, chi ascolta una catechesi, di fatto riceve una parola o l’eco di una parola che poi penetra e risuona fino a riempire la casa e rassicurare il cuore.


L'intera riflessione di p. Alberto Caccaro conosciuto in Cambogia a questo link:


Natale, il Patriarca Pizzaballa: “La violenza unico modo di parlarsi. Mancanza di fiducia origine di ogni conflitto in Terra Santa e nel mondo”

"La violenza in Terra Santa sembra essere diventata la nostra lingua principale, il nostro modo di comunicare. Quest’anno abbiamo visto crescere tanta violenza nelle strade e nelle piazze palestinesi, con un numero di morti che ci porta indietro di decenni".


Ricordando la recente dichiarazione degli Ordinari cattolici di Terra Santa (https://parrocchiarisurrezione.blogspot.com/2022/12/terra-santa-preoccupati-i-vescovi.html), ha posto in evidenza la crescente violenza del linguaggio della politica in Israele.
Purtroppo, la violenza non è solo nella politica: “La vediamo nelle relazioni sociali, nei media, nei giochi, nel mondo della scuola, nelle famiglie, e a volte anche nella nostra comunità. Tutto ciò nasce dalla sempre più profonda mancanza di fiducia che segna il nostro tempo. Non abbiamo fiducia in un cambiamento possibile, non ci si fida più l’uno dell’altro. E così la violenza diventa l’unico modo di parlarsi. La mancanza di fiducia è ciò che sta all’origine di ogni conflitto qui in Terra Santa, o in Ucraina e in tante altre parti del mondo”. Rulo della Chiesa in questi contesti così lacerati “è aiutare a guardare il mondo anche con il cuore, e ricordare che la vita ha senso solo se si apre all’amore. 

L'intero articolo sull'omelia del Patriarca a questo link:


Lettera di Natale: Primavera di umanità

La Lettera di Natale” 2022, dal titolo Primavera di umanità, ricorda innanzitutto con gratitudine don Pierluigi Di Piazza - fondatore del Centro Balducci di Zugliano e promotore dei periodici incontri dei preti della Lettera di Natale - che ci ha lasciati lo scorso 15 maggio. Tenendo fisso lo sguardo sulla sua profetica ed evangelica testimonianza accanto ai fragili della storia, i firmatari esprimono il desiderio di continuare a tener vivo in loro il medesimo impegno, che intravedono anche in tanti uomini e donne.


I firmatari non vogliono chiudere gli occhi di fronte a situazioni di indifferenza e di esclusione che vivono tante persone anche nei nostri territori: da un contesto sociale complesso e sofferto con l’aggravamento delle situazioni di povertà, alle migrazioni; dalle guerre in atto sul nostro pianeta e dalla sconsiderata corsa al riarmo aggravata dalla minaccia posta dalle armi nucleari, a una economia “che uccide”. Per questo fanno proprio il “Patto di Assisi” - riportato in calce - firmato qualche settimana fa da papa Francesco insieme a molti giovani economisti del mondo.
La Lettera propone l’impegno a vivere il Natale in una dimensione universale di fraternità e solidarietà verso esclusi ed emarginati con la medesima fedeltà di Hebe de Bonafini, morta qualche giorno fa a 93 anni, attivista argentina tra le fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo. In chiusura l’invito a fare proprie le parole del Vangelo nel dar vita a una vera e propria “Primavera di Umanità”.

La Lettera riflette sull'impegno nel quotidiano, sulle migrazioni e le loro narrazioni, sull'attuale contesto sociale complesso e sofferto, sulla guerra e la corsa al riarmo, sulla necessità di essere solidali con gli esclusi e gli emarginati.

Hanno firmato la lettera Alberto De Nadai, Albino Bizzotto, Antonio Santini, Fabio Gollinucci, Franco Saccavini, Giacomo Tolot, Gianni Manziega, Luigi Fontanot, Mario Vatta, Massimo Cadamuro, Nandino Capovilla, Paolo Iannaccone, Piergiorgio Rigolo, Pierino Ruffato, Renzo De Ros, Andrea Bellavite, l’Associazione “Esodo” di Venezia, il Centro “Ernesto Balducci” di Zugliano (UD), il Gruppo “Camminare Insieme” di Trieste



Natale: ma chi glielo ha fatto fare ... e perché lo ha fatto ...

“Ma chi gliel’ha fatto fare al Signore di lasciare il privilegio della condizione divina per assumere la debolezza della condizione umana? L’ha fatto per amore della sua creazione, l’umanità”

Solo un Dio pazzo poteva pensare di diventare un uomo. Ma chi gliel’ha fatto fare al Signore di lasciare il privilegio della condizione divina per assumere la debolezza della condizione umana?
In ogni tempo il sogno dei potenti è stato quello di diventare dèi, di elevarsi sopra di tutti (“Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono… mi farò uguale all’Altissimo”, Is 14,12.14). Raggiungere il Signore è stata anche la massima aspirazione di ogni persona religiosa: salire, spiritualizzarsi, per fondersi misticamente con il Dio invisibile. I potenti pensavano di raggiungere Dio e di essere al suo pari mediante l’accumulo del potere per meglio dominare il popolo; le persone religiose aspiravano a unirsi a Dio attraverso l’accumulo delle preghiere per presentarsi quali modelli di santità. Ma più l’uomo si separava dagli altri per incontrare Dio e più questi pareva allontanarsi, diventare irraggiungibile. 

Con Gesù si è capito perché. Con il Natale Dio diventa uomo, abbassandosi al livello di ogni altra creatura. Solo la “follia di Dio” (1 Cor 1,25) poteva spingere l’Altissimo non solo a diventare un uomo, ma a restarlo: “Svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Fil 2,7). Non si era mai sentito parlare di un Creatore che si abbassava al livello delle sue creature.

Il Signore l’ha fatto, per amore della sua creazione, l’umanità. Con la nascita di Gesù, Dio non è più lo stesso e l’uomo neanche. È cambiato completamente il rapporto tra Dio e gli uomini, e tra questi e il loro Signore. Con Gesù Dio non è più da cercare, ma da accogliere. L’uomo non deve salire per incontrare il Signore, ma scendere verso gli altri uomini, perché in Gesù Dio si è fatto uomo, profondamente umano e non chiede di essere servito, ma lui si è messo a servizio di ogni uomo.

Per questo, che una persona sia in comunione con Dio non si vede da quel che crede, ma da come ama, non da quanto prega, ma da quanto presta ascolto ai bisogni degli altri, non dai sacrifici verso Dio, ma dal sapersi sacrificare per il bene dell’altro. È questa la meravigliosa sorpresa del Natale del Signore: più l’uomo è umano e più scopre e libera il divino che è in lui, un Dio che non assorbe le energie degli uomini, ma gli comunica le sue, un Dio che non chiede di vivere per lui ma di lui, e, con lui e come lui, irradiare amore, tenerezza e compassione per ogni creatura, un Dio che non chiede di obbedire a un Libro ritenuto sacro, ma di considerare sacra ogni creatura.
(Alberto Maggi)

Dare alla luce

Il Natale è il compleanno di tutti e ciascuno, perché ci faremmo i regali altrimenti? L’ho capito meglio guardando un capolavoro di Raffaello in mostra al Museo diocesano di Milano per il periodo natalizio. 

Si tratta di un rettangolo di legno (predella) diviso in tre scene che faceva da base al dipinto collocato nella cappella degli Oddi in San Francesco a Perugia, da dove fu rubato dai Francesi a fine 1700, per poi finire a Roma nel secolo successivo. La pala lignea era stata commissionata nel 1502 al 19enne Raffaello da Alessandra Baglioni, moglie di Simone degli Oddi, per la cappella dove un giorno avrebbe voluto la sua sepoltura. L’artista, in piena fioritura, consegnò l’opera due anni dopo, dipingendo nella parte verticale la tomba vuota di Maria assunta in cielo, nella base orizzontale le tre scene del Natale: annunciazione dell’angelo (concepimento), adorazione di Magi e pastori (nascita) e presentazione al tempio (introduzione del bambino nella comunità). Lo spettatore vede quindi una giovane ragazza che dà alla luce un bambino a cui molti fanno festa. E che cosa ci sarebbe di straordinario? Raffaello mi ha risposto nella prima delle tre scene. Come?

Nella prima scena Raffaello dipinge la figura più bella di tutta la predella, quella di un ragazzo che entra di corsa nella stanza di una ragazza. Entrambi hanno l’indice alzato, segno che stanno parlando. Al centro della scena non ci sono loro ma uno spazio vuoto, che permette di guardare, attraverso una finestra spalancata, il paesaggio retrostante nel quale si intravede un ponte che conduce verso le torri di una città incastonata tra le colline. Di che parlano? Il messaggero (in greco angelo) le propone di diventare madre e lei chiede spiegazioni non essendo sposata. Nel mito antico quando un dio vuole una donna se la prende con la forza, qui no: dialogano. Lo spazio vuoto (innovazione di Raffaello: la tradizione pittorica voleva che al centro ci fosse un personaggio) che separa il messaggero e la ragazza è la libertà: la Vita propone, l’uomo dispone. Davanti alla ragazza c’è un libro aperto (impossibile in una casa di pastori di uno sperduto villaggio palestinese di duemila anni fa), simbolo di ciò che permette di coltivare l’ascolto, un’immagine della “vita interiore”: la voce della vita riesce a farsi sentire solo se c’è uno spazio aperto in noi, dove non c’è si è sordi alle chiamate e la vita diventa assurda (parola che viene appunto da sordo).

Perché nasca qualcosa in me e attraverso di me è necessario che io sappia ascoltare la parola nascosta nella mia esistenza. Gli indici alzati dei due personaggi rappresentano ... 

L'intera riflessione di Alessandro D'Avenia a questo link:

https://www.profduepuntozero.it/2022/12/15/ultimo-banco-141-dare-alla-luce/

La nostra preghiera nel giorno di Natale

Introduzione

Luce sugli alberi, luce sui davanzali, luce sulle strade, luce sugli addobbi, luce, luce e ancora luce! Isaiah però ci dice che "il popolo che camminava nelle tenebre avvisto una grande luce", quella che l'evangelista Giovanni chiama la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 

Nella notte e in questo giorno santo siamo chiamati ad essere luce del mondo, ad essere segni luminosi di pace e di speranza perché Dio si è fatto uomo. Isaia ci ha annunziato che "ogni calzatura di soldato e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati" mente, nella Messa del giorno, sempre Isaia invita a prorompere in canti di gioia perché il Signore ha consolato il suo popolo e ora il messaggero ce lo sta annunciando.

Oggi siamo chiamati ad essere segni luminosi di pace perché è frutto della condivisione del pane. Dio si fa uomo a Betlemme che significa "la città del pane" e per tre volte nel Vangelo della Messa nella Notte abbiamo sentito la parola "mangiatoia": è Dio che è venuto per essere mangiato, per essere spezzato, per essere condiviso. Non c'è vera pace se non c'è condivisione. Nel Giorno di Natale l'Evangelo pone l'accento che Dio, da sempre, è il Dio-con-noi, l'Emanuele ed è sempre al nostro fianco anche se spesso corriamo il pericolo di non riconoscerlo nelle tenebre della nostra appiattita introversione. Ma ci dice anche che questa non riuscirà a soffocarla.

 

All'inizio il saluto e l'augurio della Comunità Induista

"Siamo qui per augurarvi una lieta giornata di festa sapendo che senza riconoscimento reciproco, senza la fraternità, non c'è possibilità di incontro e di convivenza nella pace".

Questi auguri si sono aggiunti a quelli della Comunità Islamica pubblicati sul Foglietto del giornodi Natale (https://parrocchiarisurrezione.blogspot.com/2022/12/il-foglietto-la-resurrezione-di-natale.html)


 

Atto penitenziale

1 – Siamo qui per chiedere perdono, Signore, per i momenti in cui la conversione alla tua parola ci sembra una meta troppo ardua e difficile da raggiungere. Kyrie, eléison.

2 – Dio misericordioso che ci hai affidato il Creato, perdonaci perché stiamo dimostrando di non esserne degni custodi. Christe, eléison.

3 – Signore Gesù domandiamo la tua indulgenza per tutte le volte in cui non abbiamo saputo essere messaggeri di speranza e consolazione. Kyrie, eléison.

4 - Gesù cerchiamo il tuo perdono ogniqualvolta non crediamo alla tua venuta e al tuo essere in mezzo a noi. Christe, eléison.

 

Preghiere dei fedeli

1 – Per la Chiesa, perché possa essere sempre annunciatrice di “vera gioia” e portatrice di luce nelle situazioni di tenebra. Preghiamo.

2 – Signore, sostieni e consola Papa Francesco, asciuga le sue lacrime e donagli fortezza per continuare ad essere nostra guida di speranza e di pace. Preghiamo.

3 – In questa notte Santa, preghiamo per tutti i bambini del mondo: per quelli nati al sicuro di un ospedale circondati dall’affetto dei genitori, per quelli nati in mezzo al mare, per quelli che attraversano deserti o fili spinati per avere la speranza di una vita migliore, per quelli che domani mattina apriranno regali, per quelli che da mangiare lo cercano tra l’immondizia. Li affidiamo a Te Maria, custodiscili e fa che trovino persone che se ne prendano cura sinceramente. Preghiamo

4 – Davanti alle guerre e alle tragedie che affliggono il mondo ti preghiamo di darci la forza di non arrenderci, di non abituarci, di non lasciarci mai anestetizzare pensando che per fortuna non è toccata a noi. Donaci ancora la tua pace e la tua giustizia perché siano doni per tutti e di tutti i popoli. Preghiamo.

5 – Per la nostra comunità, perché possa continuare ad essere testimone preziosa di accoglienza e vocazione al bene degli ultimi. Preghiamo per tutte le nostre famiglie, i nostri cari, gli ammalati e i poveri, perché in questa notte benedetta siano illuminati e scaldati dalla gioia della venuta del Salvatore. Preghiamo.

 

Presentazione delle offerte

Portano il pane il vino chi la proclamato le due letture a significare che è la medesima Parola che diventerà, nel pane e nel vino, il Corpo e il Sangue di Cristo.  Portiamo anche le ceste per la raccolta delle offerte.

Nelle celebrazioni di questo tempo di Avvento abbiamo portato all’altare dei simboli: il falcetto, la lampada, i prodotti della terra (verdura e miele), gli scarponi, la rivista Scarp, l’immagine di Maria e l’immagine di Giuseppe, gli angeli. Questi simboli incorniciano stanotte la collocazione del Bambino Gesù nel nostro presepe. 

 



Natale 2022: ecco l'imprevisto ...

La “grande gioia” che ci annuncia l’angelo non nasce dalla soddisfazione per ciò che viviamo, non è il frutto della realizzazione di ciò che speriamo. È invece l’esito imprevisto e a volte scandaloso della capacità di vedere e udire come Dio conduce avanti la storia, come realizza la vita lì dove regna la morte



Qualsiasi cosa ci venga o ci sia stato detto, l’Avvento non è un periodo penitenziale; è invece tutto un richiamo ad una speranza certa, all’attesa sempre meno lontana da una gioia incombente, a visione di giorni di pace, di giustizia, di convivenza delle differenze, all’invito a farsi reciprocamente coraggio, a sostenersi, a saper guardare oltre, a riuscire ad ascoltare, ad appianare e smussare gli angoli delle nostre vite, dei nostri caratteri fino a non darsi pace finché non ci sarà giustizia.

Questo nei nostri tempi difficili nei quali risuonano difficoltà e situazioni che si speravano superate per sempre nella nostra Europa. Viviamo in una realtà che pare sempre più grigia, di rassegnata disperazione in chi ha perso tutto, in chi non ha più certezze, di chi vede quotidianamente la morte alla sua porta, di chi prova quel dolore che lacera il corpo e spezza il cuore.

Eppure la gioia cristiana non è illusione o vaneggiamento, non è fuga o irrealismo ma è proprio per chi non vede motivi in cui sperare, esultare: è in queste che Dio ci ricorda e ci mostra che egli viene, viene proprio dove non lo aspettavamo, proprio quando tutto ci portava a chiedere: “Per quanto ancora Signore dobbiamo sopportare tutto questo?”.

È una domanda che non attende risposta, almeno non una fatta di finte certezze. Ci deve invece servire per comprendere come stanno le cose, per chiederci cosa ancora ci manca per aprire gli occhi e le orecchie per riconoscere colui che è venuto viene e verrà.

Non ci sembra sufficiente quello che abbiamo, vorremmo un Dio capace di agire diversamente, viviamo in attese sempre di qualcosa di “diverso”, che dia una svolta alla nostra vita come se si trattasse della vincita ad una lotteria magari senza mai giocare, acquistare un biglietto. Desideriamo essere resi felici da qualcuno che ci mostri una strada piana se non in discesa, senza curve pericolose e tornanti; speriamo in una vita resa comoda e facile da qualcuno che faccia quello che vogliamo.

Invece nell’Evangelo di Luca della Messa nella notte (non della mezzanotte!), ci viene solo detto di “non temere” e ci viene dato “un segno” che è un non segno o, almeno, non quello che aspettavamo per risolvere i nostri problemi: “un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.

È l’invito a imparare a vedere e a udire fissando lo sguardo non sul nostro ombelico ma su quello che accade davanti a noi e che da tempo è stato annunciato solo che non fa notizia: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano e ai poveri, ai piccoli è annunciata la lieta notizia. Ogni storia, ogni vita porta il peso delle sue ferite e l’invito dell’Angelo (cioè di Dio) agli esclusi del tempo, ai diseredati, ai considerati impuri, a quelli che erano guardati con disprezzo ieri come oggi, è quello di guardare la vita rifiorire di nuovo “un germoglio spunterà dal tronco di Iesse” aveva profetizzato Isaia. Questo tronco secco siamo noi ma, nonostante la nostra cecità, Dio continua a riempirci della sua grazia, del suo amore, della sua misericordia fino a sperperarla finché non ci accorgiamo che una gemma vitale buca la nostra scorza arcigna e ci affrettiamo a curarla, ad irrorarla, a concimarla, perché cresca e porti quei frutti sperati.

Se questo non ci basta, se non ci è sufficiente quel bambino inerme e ancora aspettiamo altro, forse è perché non sappiamo sperare, attendere, avere progetti, desideri, bisogni al di là del nostro ego; forse è perché non sappiamo guardare attorno a noi e vedere il bisogno dell’altro da accogliere, affiancare, accompagnare, far fiorire quel un germoglio di vita nuova che Dio ha fatto germinare in loro.

La “grande gioia” che ci annuncia l’angelo non nasce dalla soddisfazione per ciò che viviamo, non è il frutto della realizzazione di ciò che speriamo. È invece l’esito imprevisto e a volte scandaloso della capacità di vedere e udire come Dio conduce avanti la storia, come realizza la vita lì dove regna la morte, come diffonde la luce lì dove domina il buio, come parla e crea relazione lì dove domina l’isolamento, come cura e sana la vita lì dove regna l’invivibilità, come riempie di gioia e lieto annuncio la vita dei poveri, i primi che lui dichiara “beati”. Ma tutto questo attraverso di noi, attraverso le mani degli uomini credenti o meno. Lo si può toccare con mano nelle favelas o nei barrios dove, come recita il titolo di un bellissimo libretto, "L’oro dei poveri è la solidarietà". Ma non serve andare lontano, basta guardare a chi fa accoglienza, a chi opera nelle mense e nei dormitori per i senza fissa dimora, a chi distribuisce vestiti a chi ne è senza, a chi segue tutte le situazioni di emergenza e sono opere che non si trovano nelle pagine dei giornali.

Nell’Evangelo della notte ma anche in quello del giorno di Natale c’è poi un avverbio di tempo che colpisce: “subito”. Subito “apparve una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio”, come anche subito i pastori decidono di andare a Betlemme per “vedere” quanto il Signore aveva fatto loro conoscere e c’è stupore con Maria che conserva tutto quanto le viene riferito “meditandolo nel suo cuore”; atteggiamento questo che fa coppia con quel "sogno" di Giuseppe: sempre di ascolto si tratta, cioè del momento principe della preghiera. 

Poi i pastori tornano alla loro vita, alla loro quotidianità portato e conservando nel cuore quello che hanno udito e vistoglorificando e lodando Dio.

Sono questi gli atteggiamenti che l’inaudito di Dio, ogni germoglio di vita nuova, ci viene chiesto di far nostri.

(BiGio)

 

 

È tempo di aprire
la vita alla gioia,
di esultare 
in questo deserto,
anche se arida 
ci appare la terra.
È tempo di credere
a promesse impossibili,
è tempo di dire,
con tutta la vita,
che ogni cosa che sembra morta
fiorisce ed esulta
e canta di gioia
al passaggio di Dio 
nella tua storia.
Egli viene e sarà primavera,
egli viene e risplende la gioia,
egli viene e sarai salvo,
E a tutti quelli che sono stanchi,
che non reggono il peso 
di questa terra, 
che hanno il cuore smarrito da tempo,
tu dona coraggio. 
Prendi per mano
chi è troppo deluso 
e non può sperare ancora.
Tu mostra a tutti 
il Signore che viene,
mostra che egli viene a salvarci.
E anche se la vita
ti ha reso cieco o forse sordo,
zoppo o forse muto,
questo è il tempo 
in cui il lamento
si trasforma in canto e gioia piena.
E tu, donaci di vedere e di sentire,
di annunciare e di saltare
perché per noi tu hai aperto una strada,
un sentiero che conduce a te.
E redimici ancora,
riscattaci sempre
dalle nostre miserie,
dalle nostre deluse 
infedeltà,
dalle nostre incerte 
speranze tradite.
Fa’ fuggire da noi la tristezza e il pianto
perché risplenda sul nostro volto
il grido di vita che tutti aspettano,
quello nascosto in tante urla, 
messo a tacere in tanti modi,
l’unico grido che bisogna gridare:
“Coraggio, non temete!
Egli viene a salvarvi!”

(cfr. Is 35,1-6a.8a.10)

 

Lieto Natale! Perchè ...

Perché l’uomo contemporaneo, uomo del “sensibile”, dello sperimentabile empiricamente, fa sempre più fatica ad aprire gli orizzonti ed entrare nel mondo di Dio? 

La redenzione dell’umanità avviene certo in un momento preciso e identificabile della storia: nell’evento di Gesù di Nazaret; ma Gesù è il Figlio di Dio, è Dio stesso, che non solo ha parlato all’uomo, gli ha mostrato segni mirabili di amore e di perdono, lo ha guidato lungo tutta una storia di salvezza, ma si è fatto uomo e rimane uomo. è paradossale: noi preferiamo credere ad un Dio che non si fa vedere che a un Dio che si incarna. Meglio credere ad un Dio idea, che assume la forma delle nostre idee su di Lui. Ma l’Eterno è entrato nei limiti del tempo e dello spazio, per rendere possibile «oggi» l’incontro con Lui. I testi liturgici natalizi ci aiutano a capire che gli eventi della salvezza operata da Cristo sono sempre attuali, interessano ogni uomo e tutti gli uomini. Quando ascoltiamo o pronunciamo, «oggi è nato per noi il Salvatore», non stiamo utilizzando una vuota espressione convenzionale, ma intendiamo che Dio ci offre «oggi», adesso, a me, ad ognuno di noi la possibilità di riconoscerlo e di accoglierlo, come fecero i pastori a Betlemme, perché Egli nasca anche nella nostra vita e la rinnovi, la illumini, la trasformi con la sua Grazia, con la sua Presenza. 

C’è poi un secondo aspetto. L’evento di Betlemme deve essere considerato alla luce del Mistero Pasquale: l’uno e l’altro sono parte dell’unica opera redentrice di Cristo. L’Incarnazione e la nascita di Gesù ci invitano già ad indirizzare lo sguardo verso la sua morte e la sua risurrezione: Natale e Pasqua sono entrambe feste della redenzione. Non crediamo ad un Dio Bambino per alimentare il fanciullo che è in noi. Noi crediamo ad un Dio adulto

La Pasqua la celebra come vittoria sul peccato e sulla morte: segna il momento finale; il Natale la celebra come l’entrare di Dio nella storia facendosi uomo per riportare l’uomo a Dio: segna il momento iniziale, quando si intravede il chiarore dell’alba. Ma proprio come l’alba precede e fa già presagire la luce del giorno, così il Natale annuncia già la Croce e la gloria della Risurrezione. Crediamo a questo Dio che raccoglie in sé l’inizio e la fine e il compiersi puntuale di ciò che rimane “per sempre”: la vita piena che è Lui in noi e noi in Lui. 

(don Fabiano Longoni)