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Numeri spaventosi

I numeri sono spaventosi: 680 morti sul lavoro nel 2021da Gennaio al 28 Settembre 

Marco Revelli su La Stampa del 29 settembre si chiede che cosa li provocano e perchè non si riesca a fermare questa strage e scrive:

Certo, si dovrebbe – e potrebbe – aumentare il numero degli ispettori del lavoro per moltiplicarne gli interventi. Accrescere sensibilità e bagaglio culturale di datori di lavoro e dipendenti. Irrigidire le sanzioni per chi trasgredisce le più elementari norme di sicurezza. Ma forse sarebbe opportuno andare più a fondo sulle cause della mattanza. Scandagliare più attentamente le ragioni di questa moltiplicazione delle vittime (a volte fattesi carnefici di se stesse, come nel caso del piccolo imprenditore morto ieri nel proprio capannone cadendo da una scala). E chiederci se alla base non ci sia direttamente il male più profondo del nostro tempo: la fretta. La condanna a correre anche se può costare caro. L'ansia, fattasi angoscia, dell'accelerazione per fare più velocemente oggi che ieri, per "crescere" di più, per "performare" di più, per guadagnare di più...

Forse una vera "politica della sicurezza" dovrebbe passare, oggi, per la scoperta del valore esistenziale di un uso consapevole e riflessivo del tempo, che lo sottragga all'abuso dissennato che troppo spesso se ne fa ignorando la saggezza atavica degli antichi che ritenevano, appunto, che il tempo appartenga al Dio più che agli uomini, e che per questo vada rispettato, pena la sua cruenta vendetta.


"Giovani, risollevate il mondo" il messaggio di Papa Francesco per le GMG diocesane del prossimo 21 novembre

È denso il messaggio del Papa per la Giornata mondiale della gioventù 2021: «La pandemia ha dimostrato le nostre fragilità. Ora come san Paolo, alzatevi e testimoniate le opere che Dio sta compiendo in voi»

La XXXVI Giornata mondiale della gioventù quest’anno sarà celebrata a livello diocesano, per la prima volta nella solennità di Cristo Re, il prossimo 21 novembre. Il messaggio, diffuso ieri, è stato firmato lo scorso 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce.


“Alzati! Ti costituisco testimone di quel che hai visto!” (cfr. At 26,16)             .

Carissimi giovani!

Vorrei ancora una volta prendervi per mano per proseguire insieme nel pellegrinaggio spirituale che ci conduce verso la Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona nel 2023.

L’anno scorso, poco prima che si diffondesse la pandemia, firmavo il messaggio il cui tema era “Giovane, dico a te, alzati!” (cfr Lc 7,14). Nella sua provvidenza, il Signore già ci voleva preparare per la durissima sfida che stavamo per vivere.

Ma grazie a Dio questo non è l’unico lato della medaglia. Se la prova ci ha mostrato le nostre fragilità, ha fatto emergere anche le nostre virtù, tra cui la predisposizione alla solidarietà. In ogni parte del mondo abbiamo visto molte persone, tra cui tanti giovani, lottare per la vita, seminare speranza, difendere la libertà e la giustizia, essere artefici di pace e costruttori di ponti.

Il versetto a cui si ispira il tema della Giornata Mondiale della Gioventù 2021 è tratto dalla testimonianza di Paolo di fronte al re Agrippa, mentre si trova detenuto in prigione. Lui, un tempo nemico e persecutore dei cristiani, adesso è giudicato proprio per la sua fede in Cristo. A distanza di circa venticinque anni, l’Apostolo racconta la sua storia e l’episodio fondamentale del suo incontro con Cristo.

Paolo confessa che nel passato aveva perseguitato i cristiani, finché un giorno, mentre andava a Damasco per arrestarne alcuni, una luce “più splendente del sole” avvolse lui e i suoi compagni di viaggio (cfr At 26,13), ma solo lui udì “una voce”: Gesù gli rivolse la parola e lo chiamò per nome.

Approfondiamo insieme questo avvenimento. (...)

“Alzati e testimonia!”

Nell’abbracciare la vita nuova che ci è data nel battesimo, riceviamo anche una missione dal Signore: “Mi sarai testimone!”. È una missione a cui dedicarsi, che fa cambiare vita.

Oggi l’invito di Cristo a Paolo è rivolto a ognuno e ognuna di voi giovani: Alzati! Non puoi rimanere a terra a “piangerti addosso”, c’è una missione che ti attende! Anche tu puoi essere testimone delle opere che Gesù ha iniziato a compiere in te. Perciò, in nome di Cristo, ti dico:

- Alzati e testimonia la tua esperienza di cieco che ha incontrato la luce, ha visto il bene e la bellezza di Dio in sé stesso, negli altri e nella comunione della Chiesa che vince ogni solitudine.

- Alzati e testimonia l’amore e il rispetto che è possibile instaurare nelle relazioni umane, nella vita familiare, nel dialogo tra genitori e figli, tra giovani e anziani.

- Alzati e difendi la giustizia sociale, la verità e la rettitudine, i diritti umani, i perseguitati, i poveri e i vulnerabili, coloro che non hanno voce nella società, gli immigrati.

- Alzati e testimonia il nuovo sguardo che ti fa vedere il creato con occhi pieni di meraviglia, ti fa riconoscere la Terra come la nostra casa comune e ti dà il coraggio di difendere l’ecologia integrale.

- Alzati e testimonia che le esistenze fallite possono essere ricostruite, che le persone già morte nello spirito possono risorgere, che le persone schiave possono ritornare libere, che i cuori oppressi dalla tristezza possono ritrovare la speranza.

- Alzati e testimonia con gioia che Cristo vive! Diffondi il suo messaggio di amore e salvezza tra i tuoi coetanei, a scuola, all’università, nel lavoro, nel mondo digitale, ovunque.

Il Signore, la Chiesa, il Papa, si fidano di voi e vi costituiscono testimoni nei confronti di tanti altri giovani che incontrate sulle “vie di Damasco” del nostro tempo. Non dimenticate: «Se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 120).


Vale la pena di leggere per intero il messaggio; questo è il link:

https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/youth/documents/papa-francesco_20210914_messaggio-giovani_2021.html



Giovani increduli, adulti assenti. Come dare un volto nuovo alle parrocchie.

Intervista a don Armando Matteo che, in questi anni, ha saputo analizzare la complessità del nostro tempo. La sua proposta.


Nel 2017 aveva parlato del difficile rapporto tra i giovani e la fede in un libro dal titolo eloquente, che aveva suscitato grande dibattito: «La prima generazione incredula» (Rubbettino). Già in precedenza, in un saggio intitolato «L’adulto che ci manca»(Cittadella), aveva esplorato i motivi per cui oggi è difficile educare e trasmettere la fede. Temi ripresi nella sua pubblicazione «Pastorale 4.0» (Ancora editrice) in cui parla di «eclissi dell’adulto» e di come riorganizzare la vita delle parrocchie: nei mesi scorsi, il volume è stato inviato dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, a tutti i vescovi italiani come spunto di riflessione prezioso.


Nell'intervista di Riccardo Bigi per "Toscana Oggi", invita a provare, tutti insieme, a trovare un modo di essere cristiani oggi, di vivere la sequela di Gesù in questo tempo. È il percorso sinodale che stiamo intraprendendo.


Chiudendo l'intervista, alla domanda su quali consigli si sentirebbe di dare a un parroco, a un catechista, a un laico impegnato nella parrocchia, per superare stanchezza e sfiducia, risponde così:

«Vorrei ripetere qui alcune parole che ho già usato in altre occasioni. Rivolgendomi direttamente a un parroco, a un catechista, a un laico impegnato in parrocchia, gli direi allora: agisci sempre in modo che chiunque attraversi la tua parrocchia possa innamorarsi di Gesù. Agisci sempre in modo che chiunque si sia innamorato di Gesù possa davvero diventare santo e cioè donato agli altri, ai più deboli e ai più poveri. Agisci ancora in modo che sia quello della fraternità il profumo che si respira nella vita della tua parrocchia. Agisci, infine, in modo da poter finalmente spezzare quel vicolo tra depressione e fede che tanto spesso ci caratterizza: come credenti, in verità, noi siamo memoria vivente del Crocifisso Risorto, che ha vinto la morte e ci ha spalancato le porte della Gerusalemme celeste, verso la quale, con inni e canti, procediamo. Di domenica in domenica».



L'intera intervista a questo link: 

https://www.toscanaoggi.it/Vita-Chiesa/Don-Armando-Matteo-giovani-increduli-adulti-assenti.-Come-dare-un-volto-nuovo-alle-parrocchie



Nuovo libro di Papa Francesco: "La Fraternità segno dei tempi. Il magistero di Papa Francesco"

Il libro sarà in libreria il 30 settembre

Ecco alcuni stralci della prefazione firmata da Francesco


Sono grato al cardinale Michael Czerny e a don Christian Barone, fratelli nella fede, per questo contributo che offrono sulla fraternità e per queste pagine che, mentre hanno l’intento di introdurre all’Enciclica Fratelli tutti, cercano di portare alla luce e di esplicitare il profondo legame tra l’attuale Magistero sociale e le affermazioni del Concilio Vaticano II. Talvolta questo legame a prima vista non emerge e provo a spiegare il perché. Nella storia dell’America Latina in cui sono stato immerso, prima da giovane studente gesuita e poi nell’esercizio del ministero, abbiamo respirato un clima ecclesiale che, con entusiasmo, ha assorbito e fatte proprie le intuizioni teologiche, ecclesiali e spirituali del Concilio e le ha inculturate e attuate. Per noi più giovani il Concilio diventò l’orizzonte del nostro credere, dei nostri linguaggi e della nostra prassi, cioè diventò ben presto il nostro ecosistema ecclesiale e pastorale, ma non prendemmo l’abitudine di citare spesso i decreti conciliari o soffermarci su riflessioni di tipo speculativo. Semplicemente, il Concilio era entrato nel nostro modo di essere cristiani e di essere Chiesa e, nel corso della vita, le mie intuizioni, le mie percezioni e la mia spiritualità furono semplicemente generate dalle suggestioni della dottrina del Vaticano II. Non c’era tanto bisogno di citare i testi del Concilio. Oggi, probabilmente, passati diversi decenni e trovandoci in un mondo – anche ecclesiale – profondamente cambiato, è necessario rendere più espliciti i concetti-chiave del Concilio Vaticano II, i fondamenti delle sue argomentazioni, il suo orizzonte teologico e pastorale, gli argomenti e il metodo che esso ha utilizzato. Cardinale Michael e don Christian, nella prima parte di questo prezioso libro, ci aiutano molto in questo. Loro leggono e interpretano il Magistero sociale che cerco di portare avanti, portando alla luce qualcosa che si trova un po’ sommerso tra le righe, cioè l’insegnamento del Concilio come base fondamentale, punto di partenza, luogo che genera domande e idee e che, perciò, orienta anche l’invito che oggi rivolgo alla Chiesa e al mondo intero sulla fraternità. Perché la fraternità, che è uno dei segni dei tempi che il Vaticano II porta alla luce, è ciò di cui ha molto bisogno il nostro mondo e la nostra Casa comune, nella quale siamo chiamati a vivere come fratelli e sorelle. In questo orizzonte, poi, il libro che mi accingo a presentare ha anche il vantaggio di rileggere nell’oggi l’intuizione conciliare di una Chiesa aperta, in dialogo con il mondo. Alle domande e alle sfide del mondo moderno, il Vaticano II cercò di rispondere con il respiro di Gaudium et Spes; ma oggi proseguendo nel solco di quel cammino tracciato dai Padri conciliari, ci accorgiamo che c’è bisogno non solo di una Chiesa nel mondo moderno e in dialogo con esso, ma soprattutto di una Chiesa che si pone al servizio dell’uomo, prendendosi cura del creato e annunciando e realizzando una nuova fraternità universale, in cui i rapporti umani siano guariti dall’egoismo e dalla violenza e siano fondati sull’amore reciproco, sull’accoglienza, sulla solidarietà. Se è la storia odierna a chiederci questo, specialmente in una società fortemente segnata da squilibri, ferite e ingiustizie, ci accorgiamo che anche questo è nello spirito del Concilio, che ci ha invitati a leggere e ascoltare i segnali derivanti dalla storia umana. Il libro del cardinale Michael e di don Christian ha anche questo merito: ci offre una riflessione sulla metodologia utilizzata dalla teologia post conciliare e dallo stesso Magistero sociale, mostrando come essa sia intimamente connessa alla metodologia usata dal Concilio, cioè un metodo storico-teologicopastorale, in cui la storia è luogo della rivelazione di Dio, la teologia sviluppa gli orientamenti attraverso una riflessione e la pastorale li incarna nella prassi ecclesiale e sociale. In tal senso, il Magistero del Santo Padre ha sempre bisogno di ascoltare la storia e ha bisogno del contributo della teologia. Infine, vorrei ringraziare il cardinale Czerny anche per il coinvolgimento, in questo lavoro, di un giovane teologo, don Barone. Questa unione è feconda: un cardinale, chiamato al servizio della Santa Sede e a essere una guida pastorale, e un teologo fondamentale. È un esempio di come si possono unire lo studio, la riflessione e l’esperienza ecclesiale, e anche questo ci indica un metodo: una voce ufficiale e una voce giovane, insieme. Così occorre camminare sempre: il Magistero, la teologia, la prassi pastorale, la leadership. Sempre insieme. La fraternità sarà più credibile, se iniziamo anche nella Chiesa a sentirci “fratelli tutti” e a vivere i nostri rispettivi ministeri come servizio al Vangelo e all’edificazione del Regno di Dio e alla cura della Casa comune.




"Sul cammino tracciato da Gaudium et Spes" - Un commento al nuovo libro del Papa

 di Lucia Capuzzi su Avvenire del 28 settembre  

Yves Congar la definì “la terra promessa” del Vaticano II. La Gaudium et spes, unico documento elaborato completamente nelle sessioni conciliari, rappresentò una “rivoluzione copernicana” nei rapporti costruiti negli ultimi quattro secoli tra Chiesa e mondo. Non solo superò la pregiudiziale nei confronti della Modernità – fino ad allora considerata “errore da cui proteggersi” –, ma presentò il dialogo con il presente come esercizio di autoconsapevolezza per l’identità ecclesiale. Calandosi nella storia, confrontandosi con essa la Chiesa cresce nella comprensione della Rivelazione, nella conoscenza del mistero di Dio. All’interno di questo orizzonte si colloca il Magistero sociale di papa Francesco e il testo che ne costituisce una delle assi portanti: Fratelli tutti.Nella terza enciclica del Pontefice, «possiamo riconoscere la traiettoria tracciata dalla Gaudium et spes, anzitutto nella scelta di “ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo”, ma anche nel richiamo alla vita sociale come “luogo” in cui la Chiesa può “conoscere più profondamente” se stessa nella “costituzione datale da Cristo” e, dunque, impegnarsi “per meglio esprimerle e per adattarla con più successo ai nostri tempi”», scrivono Michael Czerny e Christian Barone in Fraternità “segno dei tempi”. Il magistero sociale di papa Francesco, in uscita giovedì per la Libreria editrice vaticana (Lev), e del quale lo stesso pontefice firma la prefazione. Un saggio già di per se “sinodale” perché nasce dal confronto tra un cardinale e un teologo fondamentale, una “voce ufficiale” e una “voce giovane, insieme”. Se il legame tra Francesco e il Concilio è noto – più volte lo ha esplicitato lo stesso Papa –, la trama che lo intesse non era finora stata scandagliata in profondità, fino a individuarne le fibre più intime. Il saggio di Czerny e Barone le delinea con audacia e acutezza di analisi, consentendo al lettore di cogliere appieno la sintonia tra la “Chiesa in uscita”, instancabilmente edificata da Bergoglio e l’orizzonte teologico tracciato dal Vaticano II. Due, in particolare, sono gli elementi che Francesco mutua e rilancia dal Concilio: il metodo di lettura del reale e la categoria dei segni dei tempi. Egli ha fatto propria l’intuizione di Giovanni XXIII: per entrambi la pastoralità non è l’applicazione pratica di astratti principi dottrinali bensì una «dimensione costitutiva e interna alla dottrina», affermano gli autori. Le “riserve” e “incomprensioni” di alcuni sul Magistero sociale del Papa esprimono, nel fondo, un’interpretazione ancora selettiva del Concilio. E, in particolare, la difficoltà di accettare la scelta fatta dai padri conciliari fin dalla prima sessione dell’autunno 1962 e che costituiscono l’ethos della Gaudium et spes. La determinazione, cioè, di passare da un paradigma astorico a una lettura storica- salvifica degli eventi da cui discende un cambiamento di metodo. La Costituzione non enuncia dei principi né mette in primo piano i cosiddetti “presupposti della fede”: la presenza e l’azione ecclesiali nel mondo implicano una “funzione maieutica” nei confronti dell’essere umano concreto, situato nel tempo e nello spazio. «Rilevando le inquietudini che affiorano in ogni epoca e gli interrogativi di senso che da sempre si agitano nel profondo della coscienza umana, la Chiesa è chiamata a dare ragione della speranza che la abita annunciando il Vangelo e testimoniando la carità», si legge nel saggio. Strettamente collegata al metodo, è la figura dei segni dei tempi, con cui la storia diviene “luogo teologico”: da qui il dovere di cercarvi nelle sue pieghe e contraddizioni, «le tracce della venuta di Dio in mezzo a loro». Esattamente ciò che propone Francesco quando, con umiltà, chiede alla Chiesa di mettersi in ascolto del mondo, rinunciando a una postura asimmetrica. Fraternità e amicizia sociale – il nucleo di Fratelli tutti – sono, in quest’ottica, “segno dei tempi”. Guardarvi come a una realtà dinamica e aperta rappresenta per la Chiesa un percorso di annuncio e trasmissione del Vangelo. Non è più sufficiente limitarsi a comunicare le verità di fede: il credente assume con l’alterità della realtà e dei propri simili uno stile relazionale. È proprio questa capacità di guardare al futuro della Chiesa e dell’umanità più che al passato, ad attribuire, secondo gli autori, «al Magistero di Francesco una forza dirompente che può allarmare e disorientare. Per il fatto di richiamare costantemente l’attenzione sui poveri, sui migranti e sui sofferenti di ogni tipo, Francesco è stato frainteso e accusato di far prevalere la componente sociale sulla dimensione trascendente della fede. In realtà, i suoi appelli sembrano percorsi da una profonda tensione spirituale ed escatologica: egli è fermamente convinto che «Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi”».

I cucchiai nuovo simbolo della resistenza

Israele, arresti in massa dopo la fuga di sei prigionieri dal carcere di massima sicurezza di Gilboa


Gli ultimi due evasi, Ayham Nayef Kamamji e Munadel Yacoub Infai’at, sono stati arrestati domenica, a Jenin, quasi due settimane dopo che erano riusciti a scappare, insieme ad altri quattro compagni dalla prigione di Gilboa, una struttura di massima sicurezza nel nord di Israele conosciuta come “La cassaforte”. Tutti e sei erano fuggiti lo scorso 6 settembre dopo aver scavato un tunnel – sotto il lavandino della cella che condividevano – con un cucchiaio arrugginito nascosto dietro un poster. Ruslan Mahajaneh, avvocato di uno dei detenuti fuggiti, ha detto che il suo cliente ha dichiarato di aver usato cucchiai, piatti e persino il manico di un bollitore per scavare. Più di cento palestinesi sono stati arrestati dopo l'evasione dei sei prigionieri. Durante le ricerche dei detenuti, le forze israeliane hanno organizzato azioni di rappresaglia contro i familiari dei fuggitivi nell'area di Jenin, arrestandoli e interrogandoli per poi rilasciarne alcuni. Tra le persone arrestate figurano anche diversi minorenni. Da quando si è diffusa la notizia che gli evasi hanno utilizzato un cucchiaio per scavare il tunnel e fuggire, decine di cucchiai vengono branditi alle manifestazioni, accanto a bandiere e striscioni tradizionali, come simbolo di resistenza.

Fotocronaca della "Festa del Creato" di sabato 25 a Marghera

Alla Festa del Creato si sono ascoltate ascotare forti denunce da parte di chi si batte in prima persona sui temi del cambiamento climatico, della povertà, dell'inquinamento, del lavoro, della salute dell'ambiente.

Hanno raccolto gli interventi e provato a rispondere il senatore Andrea Ferrazzi , il Consigliere regionale Andrea Zanoni e il patriarca Francesco Moraglia.
Un momento di incontro e ascolto importante tra rappresentanti e i cittadini.

Nelle immagini in sintesi alcuni passaggi degli interventi.



































Il Foglietto "La Risurrezione" - Domenica 26 settembre 2021

 Nella seconda pagina, la preghiera della Comunità di questa Domenica nell'Eucaristia che rielabora il Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato





Domenica XXVI PA – Mc 9,38-43.45.47-48

Se la Chiesa non guarda al mondo come una ricchezza dalla quale può ricevere qualche cosa, non aderisce allo sguardo del suo Signore, quindi non è più la sua Chiesa e finisce per scandalizzare 


In queste settimane sta diventando chiaro il cammino che Marco desidera farci fare per incontrare il mistero di Gesù.

La guarigione del sordomuto ci ha fatto comprendere che il Signore è venuto a portarci un rapporto nuovo con la creazione nella quale tutti, credenti e non credenti, possono riconoscere stupiti i segni della presenza di Dio, questo Dio che diceva al sordomuto ma anche ciascuno di noi “apriti”. 

Nel nostro oggi ci è dato di incontrare Cristo e di interrogarci su chi sia ma, soprattutto, di lasciarsi interrogare da lui. Alla sua domanda su chi lui sia, possiamo dare semplici notizie di cronaca o comprendere che è stato consegnato nelle mai degli uomini e, per questo, è arrivato fino alla morte ereditando da Dio un nome che è al di sopra di ogni altro nome. In questo sta il mistero della salvezza: un Dio che si incarna, si fa uno come noi fino a morire perché tutti lo possano incontrare e stare in questo mondo in maniera nuova, ricreandolo.

 

Oggi l’Evangelo ci presenta un fatto singolare. Un discepolo, Giovanni, che non ha ancora ben compreso come Dio oramai abita in mezzo agli uomini e che, per questo, qualunque uomo può incontrarlo nella propria esistenza e vivere la propria storia come storia di salvezza, dice a Gesù: “Maestro abbiamo visto uno che schiacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri”. La traduzione non è fedele al testo originale che invece dice: “glielo abbiamo impedito perché non ci seguiva”.

È una concezione distorta di cosa comporti essere discepoli del Signore. Diventare suoi seguaci non è un criterio discriminante che divide l’umanità in due parti: chi lo segue e chi non lo segue. Se lo si fa significa che non è compreso quel discorso sull’incarnazione e la croce che Gesù ha appena finito di fare proponendolo per la seconda volta e che riproporrà ancora. È nell’esperienza di tutti che, in un cammino di formazione, è opportuno ripetere più volte i diversi concetti in contesti diversi prima che vengano assimilati.

Così fa Gesù, non si tratta di seguire lui per poi essere contro qualcuno, con qualcuno e non con qualcun altro, si tratta di seguire unicamente quel Dio che è con tutti. Allora non si può essere contro, ma per gli altri: Dio sta con tutti perché ogni uomo possa vivere con verità la propria realtà come storia di salvezza. 

Per questo, per i discepoli del Signore, c’è sempre la possibilità di incontrare qualcuno che non le appartiene e che tuttavia ha qualcosa da dargli che lei non possiede. “Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua” per quanto poco cioè, anche la comunità dei credenti ha da ricevere qualcosa. È un invito a non ritenersi autosufficienti e da questa presunzione guardare agli altri dall’alto in basso.

Anche il mondo ha da dare qualcosa alla Chiesa perché possa essere più autenticamente discepola del Signore e questo può essere fatto da chiunque. Parafrasando: “chiunque può essere una ricchezza per voi e può darvi qualcosa che vi manca; per seguirmi avete bisogno anche di quanto può darvi il mondo che vi sta accanto”.

Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo”. Perché questo avvenga è però necessario che la Comunità dei discepoli sia realmente alla sequela di quel Dio che si abbassa e si incarna fino alla morte ed alla morte in croce. Solo così sarà la Chiesa del suo Signore e potrà guardare al mondo come lui lo guarda. Potrà riconoscere nel mondo che Dio le dona e nel quale è chiamata a vivere con coerenza, una ricchezza di cui lei è ancora priva e che potrà ricevere da “chiunque” dice Signore, “chiunque vi darà anche solo un bicchiere d’acqua”.

Se la Chiesa non guarda al mondo come una ricchezza dalla quale può ricevere qualche cosa, non aderisce allo sguardo del suo Signore, quindi non è più la sua Chiesa e finisce per scandalizzare i piccoli che invece credono o, meglio, vivono secondo lo Spirito d’amore del Padre, finendo per essere un segno efficace del suo amore tra gli uomini a volte più dei discepoli. In particolare quelli fuori del suo recinto e che, invece, hanno qualcosa da donarle.

È singolare la punizione che Gesù sembra riservare a chi scandalizza questi piccoli credenti anonimi: una macina da asino al collo. Non è casuale che Gesù scelga proprio questa immagine. Una macina da asino era una pietra che lo teneva legato e tanto più questo cercava di sciogliersi tanto più vi rimaneva legato. Gesù vuole dirci: se qualcuno scandalizza questi piccoli ma che sono in grado di arricchire anche la comunità cristiana, di fatto si uccide da solo. Tradisce cioè quel Signore che era diventato il senso della sua vita, che magari pure a parole continua ad annunciare, uscendo però dalla “sua vita”.

Infine ci sono tre detti di Gesù che ci dicono che già ora decidiamo della nostra vita: “… è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani ed andare nella Geenna …”. Quello che facciamo nella nostra realtà è quello che decide per la nostra eternità. 

Per tre volte Gesù dice: “entrare nella vita … entrare nella vita … entrare nel regno di Dio”. La vita cioè è già il regno di Dio anche se non lo è in pienezza. Si tratta cioè di seguire Gesù nell’incarnazione e di entrare fino in fondo nella vita perché questa è anche la strada per entrare nel regno di Dio.

Gesù non vuole descriverci o raccontarci che cosa sarà nell’eternità; vuole invece dirci che questa si decide qui nella nostra storia, che lui ha posto ormai il seme dell’eternità nella nostra realtà: è qui che il credente, senza distinguere chi è dei nostri e chi non lo è, è chiamato ad annunciare il nome del Signore, del Dio benedetto, che si è fatto uno come noi.

In questo modo allora il credente sarà capace di camminare con chiunque gli darà un bicchiere d’acqua verso il Regno che viene. La Chiesa e il mondo insieme verso il Regno. Non la Chiesa senza il mondo o contro il mondo, non il mondo senza la Chiesa o contro la Chiesa, ma la Chiesa e il mondo insieme verso il Regno che viene e che tutta via è già qui presente. 

Si tratta forse soltanto di riconoscerlo e di scoprire che tutti assieme siamo camminando faticosamente, ma nella speranza e nella certezza.

(BiGio)

L’invidia nasce sempre da un’impotenza


(Cappella degli Scrovegni, PadovaL'invidia - Giotto)

Il brano evangelico di questa domenica si apre in modo improvviso presentando in primo piano sulla scena Giovanni che si rivolge a Gesù parlando alla prima persona plurale, dunque a nome del gruppo dei discepoli. Gesù ha appena tenuto il discorso sul farsi ultimo di tutti e servo di tutti da parte di chi volesse essere il primo nella comunità, ha appena parlato di accoglienza (Mc 9,35-37), e Giovanni, dando prova di quella che un esegeta ha chiamato “una sordità assordante”, esibisce come un vanto davanti a Gesù l’impresa di aver tentato con insistenza e ripetutamente di impedire a uno sconosciuto di cacciare dei demoni perché lo faceva nel nome di Gesù, ma non facendo parte del gruppo dei Dodici (Mc 9,38). I discepoli hanno appena ascoltato parole sull’accogliere e compiono gesti di esclusione e rifiuto. Giustificati, nelle parole di Giovanni, dal fatto che quest’uomo usurperebbe il nome di Gesù. 

Ma dalle parole di Giovanni emerge anche un’altra motivazione. Giovanni dice che quest’uomo “non ci seguiva” (Mc 9,38). Dove la sequela è intesa non solo in rapporto a Gesù, ma ai discepoli stessi. I quali mostrano così la pretesa di impadronirsi della comunità, di farla loro, di rendersene signori, di renderla una loro personale impresa. Rischio sempre presente nelle vite comunitarie da parte di chi sente di poter avanzare titoli di qualche tipo. 

Ma io penso che dietro alle parole di Giovanni ci sia anche un’altra motivazione. Non detta, anzi, indicibile, nascosta. I discepoli si sono appena rivelati incapaci di scacciare un demonio da un ragazzo posseduto da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29; soprattutto la dichiarazione di impotenza del v. 28: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”). E questo è avvenuto a loro che seguono Gesù e costituiscono la sua comunità. 

Ebbene, costoro adesso vedono che uno sconosciuto riesce là dove loro hanno fallito. Emerge la dinamica invidiosa, anch’essa una piaga tipica delle vite comunitarie e in genere delle vite associate. L’invidia è una passione sociale perché abbisogna sempre di altri o almeno di un altro. L’invidia si chiede: perché lui sì e io no? 

E vedendo l’impossibilità per sé di essere o di fare come l’altro, ecco che essa cerca di proibire all’altro di essere ciò che è o di fare ciò che fa. Se noi non siamo stati capaci di scacciare un demonio e costui, che nessuno sa chi sia, ci riesce, noi possiamo abbassare lui al nostro livello, possiamo impedirlo, possiamo dirgli che non può fare ciò che fa. 

L’invidia nasce sempre da un’impotenza. L’invidioso dice: restando me stesso, io voglio ciò che tu hai e che tu sei, e che hai e sei in virtù del fatto che tu sei tu e non me. Così, l’impotenza da cui scaturisce l’invidia diventa l’impossibile del suo scopo. All’origine dell’invidia vi è l’impotenza, come fine vi è un impossibile; il percorso non può che essere una sofferenza indicibile. L’invidioso, in verità, non accetta di essere ciò che è, rifiutando di accogliere i propri limiti. 

L’invidia vede nella riuscita dell’altro una diminuzione di sé; ciò che l’altro ha o è viene sentito come sottrazione a sé e come impossibilità di raggiungere lo stato in cui l’altro è installato. L’invidia poi si nutre anche di attrazione quasi irresistibile nei confronti dell’oggetto invidiato e verso cui si prova anche avversione e odio. Sì, in Giovanni sembrano emergere elementi significativi di un vissuto interiore di frustrazione e di invidia.

(Luciano  Manicardi)




L'intera riflessione di Luciano Manicardi a questo link: 

https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/14717-nel-modo-che-dio-conosce

In nessun ambiente come la Chiesa, l'invidia è pestifera

 Dio non solo ha creato gli invidiosi, ma per esagerare ha creato anche quelli convinti d'essere invidiati.

(Cappella degli Scrovegni, Padova: L'invidia, Giotto)

La cosa è alquanto buffa, per non dire stupida: la persona invidiosa pensa che se il suo vicino si rompe una gamba, lui sarà in grado di camminare meglio. E questo per un semplice fatto: perchè l'invidia che lo sciocco prova per l'uomo brillante trova sempre conforto nell'idea che l'uomo brillante farà una brutta fine. Se l'invidia, e assieme ad essa la gelosia ch'è la sorella gemella-siamese, fosse un lavoro, nel mondo non esisterebbe la disoccupazione. Nella Chiesa, poi, non ci sarebbe nessun prete con le mani in mano (purtroppo). Giotto, dipingendola, ha dato sfogo al peggio che c'era nella sua fantasia, alla parte lurida della sua immaginazione creativa: è un essere che si sta autobruciando come fosse un suicida, ha una serpe che le scodinzola dietro la nuca, le spunta da dietro il turbante, le esce dalla bocca per poi infilarsi nell'occhio, accecandola. Guardandola, l'avvisaglia del pittore fiorentino è semplice d'afferrare: “Non invidiate, applaudite e poi fate di meglio (se potete)”. Perchè – e tutti, almeno una volta, siamo stati avvelenati da questa scemenza – l'invidia è come una serpe che rode il cervello e corrompe il cuore: “Non vi lasciate entrare in corpo il serpe dell'invidia!” sembrano gridare, dall'inferno, gli invidiosi, i cui cuori “sono andati in cassazione”: condannati alla pena perpetua del fuoco eterno. Perchè oltre che lurido e velenoso, è pure stupido e misero come viziaccio: è l'unica depravazione che non procura nessun guadagno a chi se la porta in cuore. Di più: è l'autocertificazione evidente dell'impotenza. L'invidia è il cruccio dell'impotenza: «Coloro i quali hanno meno fiducia in se stessi – scrive William Hazlitt – sono i più invidiosi». Incapaci, dunque invidiosi. Falliti in partenza.
Mica facile, però, debellarla: siccome è il più subdolo dei vizi, è la madre di tutti gli altri, per niente semplice da smontare. Che poi, come non bastasse, Dio non solo ha creato gli invidiosi, ma per esagerare ha creato anche quelli convinti d'essere invidiati. Robe da matti! E l'esistenza diventa un circo nel quale s'impara a fare la conta dei colpi di fortuna degli altri anziché dei propri. Nella Chiesa, poi, l'invidia è la morte fatta carne. Capita, tra preti, d'essere maestri nell'invitare a non provarla e, poi, essere i primi a venirne contagiati. Ad autocontagiarci, per poi contagiare più velocemente le nostre comunità. E Satàn, l'invidioso, ringrazia: ogni qual volta un prete maligna invece che gioire, quando un superiore soffre della gioia di un suo inferiore invece che condividerla, quando due-tre (riuniti nel nome dell'invidia) si trovano per distruggerne un quarto. In nessun ambiente come la Chiesa, l'invidia è pestifera: i carismi vengono sporcati, i talenti sono in stato di assedio, i leader sono guardati di sbieco da chi è nato gregario. E gli ambienti ecclesiali diventano centri di fomentazione dei pettegolezzi, le riunioni ecclesiali diventano focolai d'invidia, le preghiere sono invalidate da litanie di maldicenze. Perchè, porco Satàn, se uno ce la fa, dev'esserci sempre un che di sporco, di nebuloso, di losco. Con una finale suicida: piuttosto che dirti bravo, accetto di soffrire come una bestia. D rodermi il fegato, fino ad ammalarmi. E' la chiesa minuscola, sempre più inascoltata perchè (in)credibile. Predica e razzola diverso.
(don Marco Pozza)

C'è una sola frase, che a me pare la più misteriosa e ricca del Vangelo

«Quando sarò sollevato da terra attirerò tutti a me». Notate: quando sarò sceso nell'estremo annientamento. È all'opposto di ogni prospettiva imperialistica.
Questo è il senso vero del tema principe della lettura dal libro del Numeri sulla profezia di questa XXVI Domenica

Ernesto Balducci

 ... Vorrei riproporre, in maniera scolasticamente semplice, il senso della rivoluzione - permettete l'analogia copernicana - in cui siamo coinvolti e che diventa ormai un imperativo a cui non ci si può sottrarre senza gravi conseguenze. Ci sono, nella memoria della cristianità, dei fatti gravissimi, che hanno legittimato la esasperazione fanatica della fede cristiana e che non sono mai stati ritrattati. Non si tratta di una esigenza diplomatica, formale, perché una ritrattazione seria implicherebbe l'arrivo al termine di questa rivoluzione. Faccio due esempi distanti nel tempo. Proprio qui a Firenze, nel 1439, un Concilio Ecumenico dichiarò che era «anatema» chiunque affermava che anche gli ebrei e i musu1mani si potevano salvare. Era quindi di fede che tutti andassero all'inferno. Questo si poteva dire a ciglio asciutto, senza fremiti. Si capiscono tante cose se si parte da questa visione teocratica della fede. Veniamo più vicino a noi. Quel principio della libertà di coscienza, che ormai viene formalmente accolto anche all'interno della Chiesa, appena poco più di un secolo fa, nel 1864, fu dichiarato da Pio IX un «delirio». Tutto questo non si è mai ritrattato. Lo dico solo perché si capisca che queste conversioni, che investono l'intera comunità dei credenti, implicano un passaggio che rassomiglia al passaggio che sul piano della visione cosmologica avvenne nel 1600 con tanti drammi. La rivoluzione copernicana che dobbiamo vivere è questa: mentre nella visione normale delle cose - quella dei due grandi documenti che ho citato - si pensa che Dio, che è amore, ama la sua Chiesa e di riflesso ama tutti gli uomini mandando la Chiesa a convertirli. Quindi l'amore di Dio è per la Chiesa e la Chiesa va a convertire e anche Quando usa violenza lo fa per amore, per distribuire Questo amore di Dio. È un concetto terribile. Perfino Sant'Agostino, questo santo straordinario nel comprendere il senso dell'Evangelo, giustificava, nel IV secolo, l'uso della spada contro gli eretici. Questo narcisismo della Chiesa, che si ritiene amata da Dio e mandata a convertire gli uomini, è il paradigma latente della coscienza cattolica. Ma c'è una rivoluzione che poi è un moto di recupero della fedeltà al Vangelo che consiste, per usare una formula semplice che già ho avuto modo di citarvi, in questa verità: Dio ama tutte le sue creature perciò anche la Chiesa in quanto è il segno visibile del suo amore. Il dato primo è che Dio ama tutte le creature, e quando dico ama - certo è un'analogia - vuoI dire che le ama attivamente, cioè imprime in ogni creatura la sua luce, la sua sapienza, Il suo dInamismo verso l’adempimento delle sue promesse. Ormai potremo dire, cedendo un tantino, ma senza romanticismi alla nuova mentalità che sta trionfando: non solo agii uomini ma a tutte le cose. Francesco capì bene che anche le cose sono interne a questo amore. Non siamo noi che andiamo a portare la salvezza a nessuno la salvezza è un dato primo, è consustanziale all'atto creativo. Dio crea e perciò salva. Allora noi che ci stiamo a fare? Già la domanda è eloquente. Noi siamo qui a dire che il regno di Dio c'è già e se ci è possibile - e qui viene il grave - a rappresentarlo visivamente. Ecco il nostro compito: noi siamo il regno visibile di quel che è già nel mondo. Voi capite che questo capovolgimento muta l'intero universo delle verità. che ripetiamo, perché le verità, oggettivamente annunciate, hanno senso diverso se messe nel primo paradigma ecclesiocentrico o se le poniamo nel secondo paradigma antropocentrico. La verità evangelica, a mio giudizio, questo esige. Anche se nella Scrittura si mescolano linguaggi diversi, il senso profondo dell'annuncio evangelico è questo, tanto che in Gesù non c'è mai un progetto di conquista degli uomini, anzi c'è una sola frase, che a me pare la più misteriosa e ricca del Vangelo, in cui Gesù parla della sua universalità: «Quando sarò sollevato da terra attirerò tutti a me». Notate: quando sarò sceso nell'estremo annientamento. È all'opposto di ogni prospettiva imperialistica. Quando sarò calato in quel luogo in cui tutte le creature cadono (il morire), quando avrò preso domicilio nello spazio dell' annientamento attirerò tutti a me perché è lì che farò sgorgare la promessa della vita, la resurrezione. Questo discorso teologico condensato ci permette di capir: qual è il senso vero del tema principe della lettura dal libro del Numeri sulla profezia. La profezia non è altro che l'espressione, cosciente o meno a parole o nei fatti, di questa aspirazione, che Dio ha seminato in tutte le cose, verso l'adempimento del regno, cioè verso la liberazione dell'uomo. Nel linguaggio antropologico, ancora mitico, dell'epoca degli apostoli, liberare era cacciare un demonio da uno. Un uomo schiavo aveva un demonio in sé. Questa schiavitù psichica, queste alienazioni, che conosciamo bene anche noi, hanno una gamma estesissima, non sono proprio quelle clinicamente tali. Ma chi non è indemoniato, vorrei dire, scusate? Chi non è un po' alienato? Se facciamo il peso dei nostri fanatismi, se leggiamo le statistiche di gradimento televisivo siamo indemoniati, seguiamo idoli di follia. Le gerarchie delle preferenze dell'opinione pubblica sono il segno che c'è un demonio. Siccome io non amo questo linguaggio sacrale dico che c'è uno stato di dipendenza dell'uomo da forze estranee. Liberare vuoI dire sottrarre la coscienza a questa eterodirezione, a questo stato di sudditanza. Anche le persone più apparentemente libere se andate a vedere sono schiave. A volte potremo anche dire qual è l'idolo segreto che questo o quello hanno. Abbiamo accettato questa nostra condizione di peccato. Gesù dice: «Non importa se non è dei nostri, chiunque libera, libera». Liberare dalla schiavitù è, positivamente, aprire alla liberazione, rimettere in cammino. E allora chiunque profetizza lo fa in nome di Dio. «Ma non è dei nostri!», che importa. «Ma non crede nemmeno in Dio», non importa! Cosa vuoI dire credere in Dio? L'importante è accettare questo impegno della coscienza aperta agli altri e desiderosa di liberare l'umanità da questa schiavitù ...

(Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 2)

Piccola Rassegna Stampa: una selezione di temi .... (11 segnalazioni)

 Questa piccola "Rassegna Stampafatta di indicazioni di articoli (con relativo link) su temi che si ritengono interessanti per le attenzioni spesso sollecitate nella nostra Comunità. Un breve sommarietto ne anticipano il contenuto così si può scegliere quello che eventualmente interessa. In ogni caso anche solo la titolazione e il sommarietto offrono una informazione.


Questa edizione è divisa in blocchi ordinati:

 

·     2 articoli con al centro il Papa  

    (sulla sinodalità che non è uno slogan; la paura della libertà)

    2 articoli di carattere Ecclesiale 

       (Cattolici maturi; sui preti delle nuove generazioni)

   2 articoli sui Femminicidi

(uomini in lotta contro il patriarcato; si continua a fare i medesimi errori)

·   5 articoli di Carattere sociale

(la questione israeliana; la difesa della terra; la questione climatica; ci salveranno i giovani; guardare il film che insegna a perdonare)


Il Papa

Il Papa: la sinodalità non è uno slogan. Esprime la natura, lo stile della Chiesa

«Ci sono molte resistenze a superare l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare, dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni… La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo…Quando la Chiesa è testimone, in parole e fatti, dell’amore incondizionato di Dio, della sua larghezza ospitale, esprime veramente la propria cattolicità… Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio…».


Articoli di carattere ecclesiale

di Augusto Cavadi in la Repubblica del 15 settembre 2021 (Palermo)
I preti della nostra diocesi sono, in maggioranza, sulla stessa linea emancipativa o mostrano diffidenza, paura, talora disistima nei confronti dei fedeli laici delle proprie comunità? Il clericalismo, denunziato tante volte dall'attuale papa-pastore Francesco, è solitamente congiunto a un devozionismo auto-referenziale


Cattolici maturi o responsabili? 

di Giannino Piana in Il Gallo del settembre 2021

La formula di cattolici maturi, accanto a quella di cattolici adulti, è comunemente usata per designare quei credenti che non rinunciano a esercitare la libertà di coscienza di fronte alle leggi ecclesiastiche... Il prima della coscienza: extra conscientiam nulla salus. La fede cristiana ha una costitutiva dimensione comunitaria. La libertà è sempre libertà per, per la costruzione di rapporti positivi con gli altri. Primato della coscienza e ascolto del magistero. Parola e magistero non sempre sono in sintonia tra loro. Necessità del discernimento


Ancora sui femminicidi

Uomini in lotta contro il patriarcato: l’esperienza di Maschile Plurale


“La violenza contro le donne ci riguarda”. Lo slogan che ha spinto alcuni uomini a scendere in varie piazze italiane lo scorso marzo – da Biella a Roma, passando per Albenga, Milano e Torino – è anche il titolo di un appello nazionale del 2006 che ha portato l'anno successivo alla nascita dell'associazione Maschile Plurale, una rete di uomini che si riconoscono in un percorso comune di cambiamento rispetto ai paradigmi della mascolinità sessista e patriarcale: “Chiediamo che si apra finalmente una riflessione pubblica tra gli uomini, nelle famiglie, nelle scuole e nelle università, nei luoghi della politica e dell’informazione, nel mondo del lavoro. Una riflessione comune capace di determinare una sempre più riconoscibile svolta nei comportamenti concreti di ciascuno di noi”.
 Una svolta necessaria e non più rinviabile per quegli uomini che nel patriarcato non vedono solo privilegi, ma anche una gabbia. Come spiega il filosofo femminista Lorenzo Gasparrini il femminismo serve anche agli uomini perché “i femminismi sono pratiche di libertà create da donne che raccontano, descrivono, analizzano e smontano meccanismi oppressivi sociali in atto su tutte e su tutti”. Ed è proprio la consapevolezza che il patriarcato agisce su tutti e tutte, seppure in maniera diversa, all’origine del lavoro di critica dei modelli maschili imperanti che associazioni come Maschile Plurale stanno portando avanti da tempo. Una messa in discussione dei modelli di gerarchia, virilità ostentata, appartenenza e delega al gruppo della propria identità.


Sappiamo come devono essere coperti i casi di violenza sulle donne, ma continuiamo a fare gli stessi errori

In questi giorni di polemica per le terribili parole della giornalista Barbara Palombelli a Lo Sportello di Forum, pensiamo possa essere utile ricordare come i media dovrebbero parlare di violenza sulle donne e femminicidi. Gli strumenti per un racconto corretto della violenza esistono, anche se spesso sono ignorati. Esiste ad esempio il Manifesto di Venezia per la parità di genere nell’informazione, o avvalersi del documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ), adottato anche dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti, relativo a come parlare di violenza sulle donne sui media. Non si possono continuare a raccontare giornalisticamente stupri, femminicidi e abusi come se il modo in cui viene rappresentata la realtà non avesse importanza o ricadute sulla percezione che la società ha di un fenomeno. Ne ha moltissima, specialmente nel caso di una questione, come quella della violenza sulle donne, che ha radici culturali profonde, che si nutre di stereotipi e che per questo esige la necessità di un cambio di narrazione.


Articoli di carattere sociale


di Raniero La Valle in www.chiesadituttichiesadeipoveri.it del 21 settembre 2021
Escludere le componenti religiose dalla ricerca di una soluzione politica della questione israeliana e palestinese vuol dire rinunziare a risolverle e cadere in un fatalismo dai rischi mortali; tacere della religione vuol dire ignorare la natura teologica - per non dire teocratica - dello Stato di Israele, ...; ma vuol dire anche ignorare le motivazioni assolutistiche del "rifiuto arabo" e l'onda lunga che dalla cosiddetta "guerra santa" o jihad islamico giunge fino al terrorismo.

Almeno 227 attiviste e attivisti in difesa della terra e dell’ambiente uccisi nel 2020. Il numero più alto per il secondo anno consecutivo


Óscar Eyraud Adams, 34 anni, messicano, indigeno del gruppo dei Kumiai, combatteva per il diritto all'acqua. In un'intervista rilasciata al quotidiano Reforma ad agosto 2020 aveva dichiarato che l'acqua che sarebbe dovuta arrivare alle comunità indigene per irrigare i raccolti veniva deviata verso aree più ricche e uno stabilimento della Heineken. Il 24 settembre 2020 è stato ucciso a colpi di arma da fuoco nella sua casa, poco dopo l'arrivo di due veicoli con i vetri oscurati. Ana Lucía Bisbicús García, 50 anni, colombiana, membro della comunità indigena Awá della riserva Pipalta Palvi Yaguapí, situata nel comune di Barbacoas, Nariño. Da anni era molto attiva nell'organizzazione della sua comunità e di quella degli Awá in generale. Il 3 ottobre 2020 alcuni membri di un gruppo armato l'hanno portata dietro una chiesa, dove stava partecipando a una veglia funebre, e l'hanno assassinata. Fikile Ntshangase, 65 anni, sudafricana. Si batteva contro l'ampliamento di una miniera di carbone di proprietà della Tendele Coal Mining, vicino a Somkhele, nella provincia di KwaZulu-Natal. Il 22 ottobre 2020 è stata trucidata con colpi di arma da fuoco nel soggiorno della sua abitazione. Adams, Bisbicús García e Ntshangase sono tra i 227 attiviste e attivisti impegnati per la protezione dell'ambiente e la tutela del diritto alla terra assassinati nel 2020. È il numero più alto registrato per il secondo anno consecutivo.



Crisi climatica: un sondaggio rivela come l'inerzia dei governi accresce il livello di ansia tra i giovani


L'inerzia dei governi rispetto alle politiche sul clima ha aumentato il livello di ansia tra i giovani. È quanto emerge da un sondaggio condotto in dieci paesi (Australia, Brasile, Filippine, Finlandia, Francia, India, Nigeria, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti) dalla Bath University, in collaborazione con cinque università, e finanziato dalla ONG Avaaz. Quasi il 60% dei 10.000 ragazze e ragazzi intervistati, di età compresa tra i 16 e i 25 anni, ha dichiarato di sentirsi molto preoccupato o estremamente preoccupato. Più del 45% ha affermato che il proprio stato d'animo rispetto al clima influenza la vita quotidiana. Tre quarti immaginano un futuro spaventoso. Oltre la metà (56%) pensa che l'umanità sia condannata. Due terzi si sentono tristi, impauriti e ansiosi. Molti provano paura, rabbia, disperazione, dolore e vergogna, ma anche speranza. Quattro su dieci sono perplessi sul diventare genitori. L'autrice principale del sondaggio, Caroline Hickman della Bath University, ha dichiarato che l'eco-ansia non si manifesta solo per la distruzione ambientale ma anche per l'inerzia dei governi rispetto alla crisi climatica. I giovani si sentono traditi. Il 24 settembre si terrà il prossimo sciopero globale per il clima promosso da Fridays for Future per chiedere per l'ennesima volta un intervento immediato da parte dei leader mondiali, in particolare dei politici del Nord del mondo.

intervista a Carlo Petrini a cura di Massimo Giannini e Elisabetta Pagani in La Stampa del 19 settembre 2021

L'attualità è fatta di crisi climatica, ambientale, migratoria, sanitaria. E ora che si parla di ripartenza dopo la pandemia, Petrini si augura qualcosa di più ampio, «una rigenerazione». Cambiare stili di vita non significa imporsi una quaresima di mortificazione ma vivere un processo di liberazione. «I giovani sono più sensibili di noi, che abbiamo fatto troppi danni».

di Eshkol Nevo in la Lettura del 19 settembre 2021
Spero e credo che questo film coraggioso permetterà a coloro che lo vedranno di perdonare sé stessi, di perdonare le persone a loro vicine. E di ricordare - e quanto è importante ricordarlo dopo quest'anno duro - che il nostro benessere è sempre, ma sempre, legato a doppio filo al benessere altrui.