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Pasqua di Risurrezione - Mc 16,1-8

C’è da rimanere stupiti. Invece siamo così abituati a sentire questa pagina dell’Evangelo di Marco che ci passa davanti lasciandoci indifferenti e, invece, dovremmo rimanere almeno sorpresi da questo racconto che suscita molte domande alle quali cercare una risposta.

 


Due donne erano rimaste attente a vedere dove avevano deposto il corpo di Gesù. Una di queste, Maria di Magdala, con altre due vi si recano “di buon mattino, il primo giorno dopo il Sabato” portando tra le mani dell’unguento pur nella coscienza che non avrebbero potuto usarlo perché non sarebbero riuscite a spostare la pietra che chiudeva l’ingresso del sepolcro: perché ci vanno allora?

Tra l’altro ci vanno poi con l’intenzione di fare una cosa che non era abituale a quei tempi: ungere un cadavere dopo la sepoltura; perché pensano di farlo?

Entrano nel luogo della morte e ne escono fuggendo via spaventate ma anche piene di stupore. È la paura che prevale e finiscono per non dire nulla a nessuno dell’incarico avuto: annunciare che Gesù era risorto e li precedeva in Galilea. Perché?

 

Marco vuole sottolineare e farci prendere coscienza che l’uomo non riesce a far perdurare un corpo oltre la morte; è sforzo inutile cercare di farlo, non è l’imbalsamazione che risolve il problema.

Quelle tre donne di fatto non sanno cosa fare e cercano di trasformare il loro dolore in un atto d’amore portando quello che possono ma, soprattutto loro stesse. È nell’esperienza di tutti quanto sia faticoso e doloroso rielaborare un lutto. Significa dover ricomporre, riportare ad unità la propria vita senza la presenza fisica della persona con la quale si era condiviso una esperienza non importa quanto lunga: non servono lustri interi, pochi mesi possono essere più che sufficienti per trovarsi spiazzati. 

Tre è il numero della perfezione, ma a queste donne manca qualcosa: il loro maestro al quale erano affezionate e legate alla vita di sequela alla quale le aveva chiamate. Chi seguiranno ora? Ecco il loro tentativo di mantenere in vita chi aveva dato loro un senso nuovo nella vita. Sono ripiegate su se stesse, guardano per terra … ma quando alzano lo sguardo vedono che la pietra che separava il luogo della vita (la loro) e quella dei morti è stata spostata: questa separazione dalla resurrezione di Gesù non c’è più.

Entrano cercando un morto e trovano un giovane seduto. Marco qui usa un termine greco per la seconda volta e poi mai più: è lo stesso con il quale era stato identificato quel ragazzo che fuggiva via nudo quando avevano arrestato Gesù lasciando, non il lenzuolo nel quale era avvolto, ma il suo sudario, la sua sindone nelle mai dei soldati romani. Era un annuncio di quanto accade ora. Eccolo qui di nuovo, rivestito di una veste bianca splendete di luce come quella che era stata descritta indossata da Gesù nella trasfigurazione.

Di fronte a questo le tre donne provano quella “paura” che si ha davanti ad una manifestazione del divino che percorre l’intera Scrittura. Non è “paura” di Dio: sanno e sappiamo bene che Dio è Padre, che ci ama, vuole la nostra salvezza, per questo sempre ci perdona. Questa “paura” è piuttosto il rendersi conto di quanto siamo piccoli di fronte a Dio, al suo amore e che il nostro bene sta nell’abbandonarvicisi con umiltà, con rispetto e fiducia. Questo è l’aver “paura” di Dio: lasciarsi avvolgere dalla bontà del Padre che ci ama con quell’atteggiamento - tanto raccomandato da Gesù nel Vangelo - di chi ripone tutte le sue preoccupazioni e le sue attese in Dio e si sente abbracciato e sostenuto dal suo calore e dalla sua protezione, proprio come un bambino in braccio al suo papà.

Le prime parole di questo giovane, come ha fatto l’angelo a Maria nell’Annunciazione, sono l’invito a rendersi conto di questo e, quindi, a non avere “paura” ma di andare dai suoi discepoli e da Pietro, non per raccontare quanto è accaduto loro, ma porgendo l’invito ad andare in Galilea dove Gesù li precede. Ma a fare cosa?

Non solo a “vederlo” bensì a rendersi conto che “li – e ci - precede” quindi a riprendere a seguirlo, ad uscire dall’essere rinchiusi in se stessi preoccupati della propria vita e a rimettersi in strada guardando avanti, ritrovando in quanto vissuto con lui fin dall’inizio, le indicazioni su come vivere per essere alla sua sequela. 

Ma le donne non dissero nulla a nessuno perché avevano paura. Questa volta però non di Dio, ma di quanto avevano vissuto e di non essere credute da una società dove la testimonianza delle donne valeva nulla.

Ma c’è qualcosa di più. È quel silenzio che è la necessità di prendere coscienza dell’esperienza fatta prima di poterla esprimere ed annunciare e che per loro è stata una “sequela”. Sono infatti state coinvolte nell’esperienza fatta da Gesù dalla morte alla vita. È questo che Marco desidera dirci con quel sottolineare che sono entrate ed uscite dal sepolcro: è stato un morire con Cristo per rivivere con lui da con-risorte. Vi è in questo l’indicazione simbolica dell’immersione battesimale che ogni cristiano ha avuto, è l’invito a riprendere il cammino dietro al Signore che precede sempre.


Lieta Pasqua di Risurrezione, lieto cammino!

(BiGio)

La Pasqua, una scuola per vivere il lutto nella speranza

“La morte ci fa paura. La morte è un orrore. Sembra divorare tutto, sembra togliere senso ad ogni cosa". Questo è l’inizio dell’introduzione del libro di Cecilia GalatoloVivere il lutto insieme a Dio per ritrovare la pace. Dieci storie verepensato per coloro che si trovano nell’angoscia per la perdita di una persona cara.


La morte si presenta alle donne e agli uomini di ogni tempo come un orrore, perché sembra divorare tutto, sembra togliere senso ad ogni cosa. Ne parliamo con lei.

Come si vive il lutto insieme a Dio?

“Non ho ricette, non ho risposte preconfezionate. Ogni vissuto, ogni storia, ha le sue dinamiche e non credo ci sia una formula che vale per tutti. Inoltre, Dio ci ama ciascuno in modo unico e singolare; quindi, comunica con ognuno nella maniera in cui possiamo accoglierlo. Mi sento di dire, però, che Gesù ha redento il lutto: lo ha vissuto anche lui (ricordate quando ha perso l’amico Lazzaro? Gesù pianse. Ha voluto provare quello che proviamo noi, davanti alla morte, per non lasciarci soli nemmeno in quel dolore. Poi, però, ci ha aperto gli occhi su qualcosa di inedito ...

L'intervista di Simone Baroncia continua a questo link:

https://www.acistampa.com/story/24723/la-pasqua-una-scuola-per-vivere-il-lutto-nella-speranza?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=300049766&_hsenc=p2ANqtz--2upgXAuY18-BZA2PGbZB0UpBJ7fdSshfZ_EG2JoP-PReVUpBdIMCwp5ASTAYHAfFwXdAO_-EqlRF44BaYKPY2inj_zA&utm_content=300049766&utm_source=hs_email



Sabato Santo: Fede e buchi bianchi. La morte come buco nero

Il teologo H. U. v. Balthasar parlava del Subabbraccio dell’amore di Dio nel vuoto del Sabato santo (1). Tra il Venerdì di passione e la domenica della vita c’è, infatti, un interim del Sabato santo, un luogo strano dove c’è ancora la morte, non c’è la vita risorta ma resta ancora l’amore.


La teologia è fede che vuole comprendersi e dirsi con le parole, i concetti e le conoscenze del proprio tempo, per parlare ai contemporanei e per – come si dice nella prima lezione di teologia – rendere ragione della fede (cfr. 1Pt 3,15: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»).

 

Cosa può dire la fisica quantistica alla teologia? Può forse offrire un linguaggio o delle metafore per poter parlare alla fede? In un entusiasmante testo, il fisico teorico e divulgatore scientifico Carlo Rovelli, nel suo recente libro Buchi bianchi parla dello spazio come granulare, come una rete, dicendo che la struttura profonda della stessa materia dell’universo è fatta di relazione. Non è in fondo ciò che intende dire la Bibbia quando dice che l’essere umano è «ad immagine» di Dio (Gn 1,26) e che siccome il Logos è costitutivamente pros ton theon, rivolto verso il seno del Padre (Gv 1,1;18) l’essere «presso» è il costitutivo creaturale, infatti tutto è fatto «in vista di lui» (Col 1,16)?


La riflessione di Selene Zorzi continua a questo link:


https://www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/225767/fede-e-buchi-bianchi-la-morte-come-buco-nero


Gerusalemme senza luce

Resurrexit. È risorto. La fede pasquale sta tutta qui. Il kêrygma evangelico sorprende per la sua chiarezza paradossale e inafferrabile. Ciò che viene detto è insieme chiarissimo – “Gesù era morto, ma ora vive per sempre” – ma anche assolutamente misterioso. Che cos’è, questa risurrezione?


Certo non un semplice ritorno alla vita precedente, ma l’ingresso in qualcosa di nuovo. Sì, ma cosa? Cosa possiamo balbettare su questa “vita eterna”, alla quale il desiderio umano da sempre aspira, ma che nessuno è in grado di descrivere?

L’impossibilità di rappresentare univocamente il mistero pasquale fa sì che nel Nuovo Testamento si intreccino due metafore complementari. ...

L'articolo di Filippo Morlacchi continua a questo link:


Venerdì Santo - Gv 18,1 - 19,37: Il trionfo della violenza?

Ogni violenza è riassunta nella Passione, termine ambivalente che racconta sia la sofferenza fisica ma anche un vivo interesse per sbocciare nella determinazione dell’amore.

 


Violenza. Oggi ci è chiesto di riflette su questo aspetto che pervade la nostra realtà e il nostro mondo sempre più non solo per subdoli accenni malamente celati in ogni momento della nostra vita, ma sempre più esplicitamente presente, aggressiva, ad iniziare dal linguaggio ironico che la rende più tagliente ed offensiva nel nostro quotidiano come in quello della politica. 

La violenza contagia infilandosi e piano piano impadronendosi di tutti gli aspetti che compongono la nostra realtà personale infettando la ragione e le emozioni. Quando poi si inserisce nelle dinamiche di un gruppo, deresponsabilizza la persona, toglie la libertà di obiettarvi contro instillando determinazione, autoassoluzione, toglie la capacità di “vedere” l’altro e le sue ragioni, di immedesimarsi nelle sue difficoltà, nella sua sofferenza. Porta alla morte del cuore e della ragione diventando perfidia rivendicatrice suscitando vendetta e capacità di pianificare razionalmente le sue azioni distruggitrici.

Lo vediamo in Ucraina, nel conflitto tra Israele e Hamas, in Sudan, in Haiti e in tutti gli altri conflitti nei quali prosperano con i morti i biechi costruttori di armi che ce li fanno passare come l’unico modo per difenderci, attirando finanziamenti sempre più alti a discapito di altri settori più necessari alla vita. Nel nostro paese, poi, la modifica ora alla Camera della Legge 185/90 toglie controllo e restrizione alla produzione e all’esportazione di armi.

Lo vediamo nei rapporti interpersonali, nella violenza di genere, nelle morti “bianche” spacciate per disgrazie mentre facilmente sono altro. Lo percepiamo nel linguaggio quotidiano e nello sport infarcito di parole che si rifanno alla guerra, nell’incapacità di gestire gli inevitabili piccoli conflitti in casa, al lavoro, tra amici che volentieri inacidiscono i rapporti. Lo sperimentiamo nell’incapacità di sostenere il confronto: è più facile portarlo allo scontro rifiutandolo, piuttosto che affrontarlo in un pacato dialogo. Lo pratichiamo quando prendiamo parte per una posizione in conflitto piuttosto con l’altra alimentando esclusivamente il vicendevole odio di una parte contro l’altra invece di essere equivicini alle realtà che ne sono colpite.

 

Tutto questo è riassunto nella Passione; termine ambivalente che racconta sia la sofferenza fisica ma anche un vivo interesse per sbocciare nella determinazione dell’amore. Questo passaggio è quello che ci racconta quanto celebriamo il Venerdì Santo: la trasformazione di una violenza estrema, di odio, in una storia d’amore, una morte vergognosa in una gloria, la brutalità umana in svelamento completo della pienezza dell’amore di Dio per il creato e l’uomo.

Gesù oppone a chi lo offende, brutalizza, deride con la violenza una domanda inquietante e dalle mille sfumature: “Perché mi percuoti?”, una parola mite che interpella anche noi a nome di tutti quelli che sono colpiti dalla prepotenza e dall’aggressività.

In precedenza sul Cedron aveva posto all’imponente dispiegamento di forze da parte del potere un’altra domanda: “Chi cercate?” e risponde “Egó eimiIo sono” cioè l’iniziale del nome di Dio di fronte al quale gli avversari indietreggiano cadendo a terra. I discepoli davanti a quella mitezza che emana una forza senza pari sono costernati, forse increduli, sicuramente spaventati e passano dal rispondere con le stesse armi al dileguarsi scomparendo.

Gesù poi continua a rispondere con domande a quanto gli chiede Pilato fintantoché la violenza diventa meccanica nella prassi della crocefissione, fino a divenire avidità nello spartirsi le sue vesti. Sostiene la sua volontà di amare e di essere mite anche nella morte ingiusta e tra le sofferenze. “Ho seteÈ compiuto”, tutto è racchiuso in queste parole, in questi sussurri e “Chinato il capo consegnò lo Spirito”. In Giovanni il Crocifisso consegna a noi lo Spirito, a noi ora il compito di vivere di questo, con questo, per il Padre.

(BiGio)

La cantante Yael Deckelbaum. «Israele e Gaza oltre l'odio. Alle donne chiedo: uniamoci»

L'attivista israeliana ha dedicato la vita al dialogo con il movimento Woman Wage Peace. Il 7 ottobre ha segnato un “prima” e un “dopo”: «Ho dovuto rimappare il mio cuore. Vi spiego come»


Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice –. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».

Partiamo dall’inizio, allora: il 7 ottobre.

No: cominciamo dal 4 ottobre, perché è lì che colloco il mio “inizio”. Tre giorni prima del massacro, ero a ...

L'intervista a cura di Barbara Uglietti è a questo link:

https://www.avvenire.it/donneperlapace/pagine/yael-deckelbaum-canta-la-pace-per-israele-e-gaza-donne-uniamoci



Il Giovedì Santo abbiamo pregato così ...

Con il Giovedì Santo ha inizio il triduo pasquale che ci porterà alla Pasqua di Resurrezione.

Buon triduo pasquale: dalla sera dell’Ultima cena al buio del Golgota fino al Sabato Santo sulla terra scende un’ombra densa: ma dell’amore più grande e paradossale.



La Luce…..luce nelle candele accese sull’altare, nel bianco della veste, nel canto del gloria dopo 40 giorni di silenzio accompagnato dal suono delle campane a festa per poi restare mute e risuonare la notte di Pasqua.

In questa notte, abbiamo fatto memoria di quel pane spezzato, segno tangibile dell’immenso amore di Dio per noi…proprio nella notte in cui fu tradito. Un Dio che si consegna, che non spezza nessuno, ma spezza sé stesso. Non versa il sangue di nessuno, ma versa il proprio, non sacrifica nessuno, ma sacrifica sé stesso. Un Dio che si mette a lavare i piedi. Nella notte in cui fu tradito.

Abbiamo chiuso la celebrazione eucaristica con la spogliazione dell’altare e lo sguardo rivolto al corpo pane spezzato.


Dove sei Signore, dove sei? tutto grida più forte, bombe e devastazione stan coprendo la Terra. Guardiamo il cielo, ma non Ti vediamo. Siamo presi a guardare la nostra torre di Babele, da non vederti più, Tu inchinato, per amore a lavarci i piedi. Per tutti gli operatori di pace, per gli uomini seminatori di giustizia perché come Cristo continuano nella loro missione di annunciatori della Tua Parola silenziosamente inchinati verso chi non trova pace e giustizia. 

 

“Prendete e mangiate”. Sei nato in una mangiatoia per essere mangiato, e oggi ti sei fatto pane spezzato, donando il tuo corpo la tua vita per noi.

Per tutti noi perché nell’accostarci all’Eucarestia ci lasciamo rafforzare per essere capaci di essere fedeli discepoli anche nel momento della prova, della tentazione, della testimonianza e del dolore.

 

Don Tonino Bello scriveva: “Non avevo mai dato troppo peso a quella espressione pronunciata da Gesù dopo che ebbe finito di lavare i piedi ai discepoli: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” A vicenda, cioè. Scambievolmente. Questo vuoI dire che la prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di logica, dobbiamo esprimerla all’interno delle nostre comunità, servendo i fratelli e lasciandoci servire da loro”.

Per tutti noi, per la nostra comunità della Resurrezione perché sappia, sull’esempio del Cristo intrecciare relazioni, sguardi e attenzioni verso il proprio vicino di banco

 

 

Giovedì Santo - Gv 13,1-15: esplode la forza dell'amore mite

Gesù per lavare i piedi a tutti gli apostoli deve vincere la tentazione di rispondere per le rime, di rifiutare quel gesto di servizio a qualcuno di loro. Dove trova questa forza e contemporaneamente non scadere in un passivo lasciarsi vivere dagli eventi che si succederanno rapidamente?


Giovanni non narra l’istituzione dell’Eucaristia ma il gesto di Gesù di chinarsi davanti ai discepoli lavando loro i piedi. Se ci si pensa il significato è lo stesso. 

 

Nei sinottici le parole di benedizione sul pane e sul vino si concludono con “Fate questo in memoria di me” che sono la richiesta ai discepoli di fare della loro vita quello che Gesù ha fatto della sua: servizio d’amore verso tutti fino ad essere pane spezzato e vino versato. È quello che la liturgia con il cammino fatto in questi mesi ci ha proposto comprendere e far nostro nella prassi per giungere ora a sintesi. La rivelazione dell’agire di Dio, attraverso la vita e l’annuncio fatto da Gesù, è sempre stato teso a trasformarci fino a configurarci con lui ad essere, come dice Paolo, non più noi che viviamo ma è il Cristo che vive in noi e attraverso noi diventa presenza di vita nel mondo concreto che ci vede protagonisti.

Giovanni ci presenta invece Gesù chinato in quel gesto del servo che sintetizza tutta la sua vita. Non è un fatto isolato ma un qualcosa che nella sua forza iconica e simbolica racchiude tutto l’agire di Gesù nella storia, nel suo incontrare i malati e curarli, nel suo parlare a folle assetate di vita, nel suo farsi prossimo a esclusi ed emarginati, il suo servire e non farsi servire, il suo dare e non pretendere, il suo farsi servo e non padrone, il suo servire e non usare. Di fronte a questo c’è sempre anche la possibilità un “no”, di un rifiuto, ergersi a padrone, donare e al tempo stesso trattenere gelosamente per sé o pretendere. Ma non si possono servire due padroni contemporaneamente; Gesù lo ha detto anche con durezza. C’è un aut-aut a cui non si può sfuggire. Riguarda sia il modo in cui si esercita il governo e l’autorità nella comunità cristiana, sia i rapporti interpersonali nella comunità e in tutti gli ambiti nei quali viviamo, dalla famiglia in casa, al lavoro, dagli amici alla società intera. A tutti è chiesto di imitare Gesù che si fa servo e non padrone dei fratelli o degli uomini. È questa la caratteristica che dona autorevolezza e non autorità in ogni ambito.

Di fronte a questo non può che esserci il nostro stupore: Gesù lava i piedi anche a Giuda che lo tradirà, a Pietro che lo rinnegherà, ai discepoli che lo abbandoneranno e con questo narra e rivela l’agire e l’essenza di Dio che prima di amore è mitezza cioè la forza di non lasciarsi contagiare dal male e dalla sua violenza in tutte le forme, da quella verbale, a quella del terrorismo, delle armi. Gesù per lavare i piedi a tutti gli apostoli deve vincere la tentazione di rispondere per le rime, di rifiutare quel gesto di servizio a qualcuno di loro: non si difende, non aggredisce: scegli di amare tutti indistintamente.

Dove trova questa forza e contemporaneamente non scadere in un passivo lasciarsi vivere dagli eventi che si succederanno rapidamente? Affidandosi “a colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,23). È la sua fiducia nel Padre che lo porta a chinarsi, a rinunciare a tutto anche alla propria vita diventando pane spezzato, vino versato (Fil 2,6-11).

Stupore per un gesto che non è semplice bontà di fronte al quale levarcela con una lacrimuccia sentimentale, ma che rivela, narra l’agire di Dio che chiede di essere contemplato in silenzio ed esige tempo per diventare un reagente che porti a trasformare il nostro modo di porci nel mondo. 

L’invito allora è quello di sostare, di darci tempo. Chi ha fretta confida in sé, nelle proprie capacità di agire spesso spinto più che dalla fede dall’ansia che diventa una prigione impedendo allo stupore di raggiungere il nostro cuore e di agire in esso. Isaia scrive “chi crede non ha fretta” (28,16) e “nella quiete fiduciosa sta la vostra forza” (30,15b).

(BiGio)

 

 

Cuba: la popolazione è alla fame e scende in strada. Mons. García Ibáñez: “Situazione davvero molto critica, ci si sente impotenti”

La gente è scesa in strada “in modo spontaneo”, con una scelta “dettata dalla disperazione”. Ma sarà molto difficile uscire dalla drammatica situazione, che ha portato Cuba alla fame, senza un cambiamento che porti il popolo a essere “partecipe del suo futuro”. 

Vive settimane di preoccupazione e angoscia, accompagnate dal rischio che venga meno anche la speranza, mons. Dionisio Guillermo García Ibáñez, arcivescovo di Santiago de Cuba, il maggior centro del sudest dell’isola, e primate della Chiesa cubana, raggiunto dal Sir. Proprio Santiago de Cuba, territorialmente all’opposto rispetto alla capitale L’Avana, è la città da dove, domenica, si è resa visibile la protesta spontanea della popolazione, poi estesasi ad altre città.

L’ultima volta era il 2021, quando le piazze si erano riempite, per protestare contro il Governo castrista, guidato dal presidente Miguel Díaz-Canel. In quel caso, il regime aveva risposto con il pugno di ferro. Stavolta ...

Il reportage di Bruno Desidera continua a questo link:

https://www.agensir.it/mondo/2024/03/22/cuba-la-popolazione-e-alla-fame-e-scende-in-strada-mons-garcia-ibanez-situazione-davvero-molto-critica-ci-si-sente-impotenti/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2


Pizzaballa: "Mi preoccupano l'odio profondo e la mancanza di prospettive"

Il Patriarca di Gerusalemme in un video messaggio: "Israeliani e palestinesi resteranno qui. Il loro futuro è vivere uno a fianco all’altro e non ci sono alternative"

“Penso – ha raccontato il porporato - a quanto accade alla mia comunità cristiana cattolica, ma non solo, nella comunità cristiana in generale di Terra Santa. In particolare, a quelli di Gaza che cominciano a sentire, anzi sentono, la stanchezza di quasi sei mesi di guerra sotto le bombe dentro una situazione di estrema complessità. Hanno perso tutto, hanno perso la casa e tutto quello che avevano. Non sanno come sarà, non conoscono le loro prospettive e ultimamente, come ormai è noto in tutto il mondo, anche la fame ha cominciato ad attanagliarli. Hanno perso tutto, ma non hanno ancora perso la speranza, anche se devo riconoscere che è messa a dura prova ed è comprensibile dopo una situazione così difficile, così pesante, per la quale nessuno era preparato”.

Anche in Israele – ha proseguito - la situazione non è semplice. Penso soprattutto a quello che sta accadendo al Nord; settimane fa anche un nostro cristiano, un lavoratore straniero indiano, è morto sotto le bombe lanciate da Hezbollah dal sud Libano. Non voglio fare comparazioni su chi soffre di più e chi soffre di meno: non ha molto senso. Mi preoccupa molto la mancanza di prospettive e la presenza di un odio profondo che chiudeL’odio chiude sempre, non apre prospettive, non apre orizzonti. Abbiamo bisogno, soprattutto in questo momento, non solo del cessate il fuoco, di fermare ogni forma di violenza, ma di provare a ricostruire prospettive per il futuro anche se ora sembra quasi impossibile. Mentre è una necessità”.

Il Cardinale Pizzaballa vedo “odio profondo” tra le parti che “renderà molto difficile nel futuro la ricostruzione delle relazioni. Israeliani e palestinesi resteranno qui anche se in questo momento c’è un rifiuto reciproco e uno non vuole avere a che fare con l’altro. Ma questo è chiudere gli occhi di fronte alla realtà, perché la realtà è chiara: israeliani e palestinesi resteranno qui. Il loro futuro è vivere uno a fianco all’altro e non ci sono alternative. Bisogna trovare delle forme dove l’uno potrà vivere accanto all’altro nella maniera più pacifica e serena anche se mi chiedo come sarà possibile dopo tutto quest’odio profondo che ha ferito in maniera così generale un po’ tutta la vita delle popolazioni di questo Paese. Però bisogna lavorare per questo. La mancanza di prospettive, il chiudersi nella propria narrativa che esclude l’altro è qualcosa di molto preoccupante. Si vede anche in questi negoziati eterni, che non arrivano mai a conclusione”.

Oggi – ha ammesso il Cardinale - ci sentiamo vicini più al Venerdì Santo. Però è Pasqua. Entriamo dentro una Settimana di Passione che però ha una conclusione meravigliosa, che è la Resurrezione. Penso a due momenti: il Getsemani dove ci sono i discepoli che dormono. Una prima risposta, anche di fronte al dramma che stiamo vivendo, può essere quella di dormire, cioè di lasciare che gli eventi passino da soli senza coinvolgersi. Un’altra scelta può essere quella di prendere la spada, come ha fatto Pietro. È forse la strada che tutti capiscono meglio ma che non porta a nessuna soluzione. Un altro atteggiamento può essere il tradimento che per me, in questo momento, significa cercare risposte immediate, trovare gratificazione immediata, e sposare una narrativa contro l’altra. Al posto di tradire, invece, c’è il bisogno di unità, di relazione, di riconciliazione. La risposta di Gesù è la croce con l’eccesso di amore. L’altra figura, l’altro segno, è la pietra del sepolcro. La pietra ribaltata è un segno importantissimo. Quella pietra teneva Gesù sconfitto, morto, chiuso dentro il sepolcro ed è stata ribaltata perché lo Spirito Santo ha resuscitato Gesù dai morti e ha così ribaltato quella pietra che lo teneva chiuso dentro. Quella pietra che ora non chiude più nulla. Ho l’impressione che noi in questo momento abbiamo una pietra, un macigno, sul nostro cuore, sulle nostre relazioni che chiude dentro i nostri sepolcri tutto ciò che è ombra di morte, nell’odio, nel rancore, nel risentimento, nella vendetta. Abbiamo bisogno di rimuovere questa pietra e di liberare il nostro cuore da questo macigno. Da soli non ce la facciamo, abbiamo bisogno di guardare in alto e chiedere questa grazia, questo dono”.

Infine un augurio. “Che in un periodo così difficile e duro, e carico di tanto odio – ha concluso il Patriarca - si abbia un po’ il coraggio di espressioni, di parole e di gesti di amore che sono l’unico antidoto possibile a tutto quello che stiamo vivendo”.

(Marco Mancini, ACI)

Il video messaggio è a questo link:

https://www.youtube.com/watch?v=FSbZtt5fZRc

Sud Sudan, la Chiesa e la riconciliazione possibile per il vescovo di Rumbek

Christian Carlassare, racconta la situazione del Corno D'Africa

200.000.000 di persone vivono nei 6 Paesi del Corno d’Africa: Gibuti, Etiopia, Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan e nei prossimi trent’anni il loro numero raddoppierà, ma nessuno di questi paesi dispone di un’infrastruttura di governance che sia in grado di gestire quest’aumento della popolazione, e ancor meno le sempre maggiori aspettative dei loro giovani, la cui crescita è ancora più rapida.


Con la traiettoria attuale, si sta andando verso il collasso dello stato in tutta la regione, a causa delle guerre in Sudan e in Etiopia. Tutte le parti in guerra stanno usando la fame come arma, assediando le città, tagliando le linee di rifornimento e distruggendo le infrastrutture essenziali.

E’ una regione segnata da dittature longeve e instabilità politica, ma anche da importanti svolte politiche, quali, recentemente, la caduta del presidente Omar al-Bashir in Sudan e la storica pace stipulata tra Eritrea ed Etiopia. Tra economie in forte crescita (Kenya, Etiopia) e Paesi che arrancano (Sud Sudan), restano diffusi forti livelli di disuguaglianza. Conflitti, instabilità politica e difficili condizioni socio-economiche alimentano i movimenti migratori, in larga maggioranza costituiti da giovani. Uganda, Etiopia e Sudan sono tra i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati in Africa.

Da mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, ci siamo fatti raccontare la situazione in Sud Sudan: “La situazione del paese sembra ...

L'intervista di Simone Baroncia continua a questo link:

https://www.acistampa.com/story/24680/sud-sudan-la-chiesa-e-la-riconciliazione-possibile-per-il-vescovo-di-rumbek?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=299410495&_hsenc=p2ANqtz-800v9qPutY3daFcgw023H07P_xszW0lgjopwY9Ol9DRInupqTLedB3PRM5p4OxWWQsBrsmaTBdr9o_7LU6M_lFmwrxZA&utm_content=299410495&utm_source=hs_email


 

Armi. Con la modifica alla Legge 185/90 si aprono le porte ai “mercanti di morte”

“Si vis pacem para bellum” (se vuoi la pace prepara la guerra) è un motto, un impegno che torna oggi, tragicamente, di grande attualità. Stiamo vivendo giorni di guerra, una terza guerra mondiale a pezzi, dove i pezzi si avvicinano sempre più e "i potenti" di questo mondo soffiano sempre di più su questo fuoco. Da ogni parte. La modifica alla legge 185/90, legge che introduceva “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, già passata al Senato a fine febbraio e ora in commissione alla Camera, andrà presto in Aula per l’approvazione. Non è una modifica di poco conto. Anzi. Apre le porte alla lobby delle armi. Ai mercanti di morte.


“Col pretesto di apportare ‘alcuni aggiornamenti’ alla legge per ‘rendere la normativa nazionale più rispondente alle sfide derivanti dall’evoluzione del contesto internazionale, il Disegno di legge intende limitare l’applicazione dei divieti sulle esportazioni di armamenti, riduce al minimo l’informazione al parlamento e alla società civile, e soprattutto, elimina dalla Relazione governativa annuale tutta la documentazione riguardo alle operazioni svolte dagli istituti di credito nell’import-export di armi e sistemi militari italiani”. Questo è scritto in un comunicato stampa del 6 febbraio scorso, della Campagna di pressione alla Banche armate (banchearmate.org) promossa dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia. Un disegno di legge inaccettabile che va contrastato con fermezza. Vengono tolti controlli e non ci sarà più trasparenza. E non avremo la lista delle Banche coinvolte, quelle che chiamiamo banche armate.
La legge 185 del ’90 è tra le più avanzate al mondo. Nata per l’impegno dal basso del mondo missionario, cattolico, dell’associazionismo, dei sindacati… Non possiamo dimenticare quanto si sia impegnato don Tonino Bello, allora Presidente di Pax Christi.
E oggi, questo governo, vuole cancellare tutto questo. Ci sono stati interventi di Rete italiana Pace e disarmo. Con pressioni e appelli finora inascoltati. Lo scorso 4 marzo una conferenza stampa a Roma di diverse associazioni di credenti per ricordare l’impegno dei cattolici a favore della 185, con un appello alla coscienza dei Parlamentari, perché non approvino queste modifiche. E’ intervento con fermezza anche don Ciotti, Presidente di Libera, dal palco della manifestazione dello scorso 21 marzo, in memoria di tutte le vittime innocenti della mafia. Anche il card Zuppi in apertura dei lavori del Consiglio Permanente della Cei ha detto che “le parole del Santo Padre sulla pace sono tutt’altro che ingenuità… La vita viene prima di tutto”. E nella conferenza stampa conclusiva, mons. Baturi, segretario della Cei, ha manifestato preoccupazione per le scelte legislative sugli armamenti. “È un tema che ci sta a cuore e non da oggi… è necessaria la trasparenza, la garanzia che il commercio delle armi, che non ci può vedere favorevoli, comunque sia tracciabile”.
Il Vangelo, riporta sempre i nomi: imperatore Augusto, Erode, Anna, Caifa, Ponzio Pilato…
“Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? E’ possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!” (Papa Francesco Redipuglia, 13 settembre 2014).
Non possiamo rassegnarci alla guerra, è antiumano e antievangelico. Non possiamo tacere i nomi, le responsabilità di chi, come Erode o Ponzio Pilato, si macchia di sangue le proprie mani e vuole macchiare anche le nostre, con il sangue di tanti innocenti. Quanti Erode e Ponzio Pilato anche oggi?
(Renato Sacco - Pax Christi)


Terzo anno senza scuola per le ragazze afghane. Noi non le dimentichiamo

Novecento giorni senza scuola. Il 20 marzo le porte delle aule si sono riaperte per i bambini, le bambine e per i ragazzi. Non per le ragazze, escluse dalle aule per il terzo anno consecutivo. 


Triste inizio dell’anno solare afghano, per loro, nel Paese più triste del mondo, come ha decretato proprio mercoledì, nella Giornata internazionale della felicità, il Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford. Il bando all’istruzione femminile dopo i 12 anni, unico caso al mondo, è stato tra i primi decisi dall’Emirato islamico dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto del 2021. Poi è stato uno stillicidio di oltre 50 decreti – nessuno dei quali ritirato - che uno dopo l’altro hanno picconato la libertà e la dignità delle donne: vietato ...

L'articolo di Antonella Mariani continua a questo link:

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/novecento-giorni-senza-scuola?mnuid=522g32167g3ffd6cad0c9c5ff6fd3c264a93a2d951c66d50fd&mnref=s2e0%2Co1ef8&utm_term=7928+-+https%3A//www.avvenire.it/opinioni/pagine/novecento-giorni-senza-scuola&utm_campaign=L%27Avvenire+della+settimana&utm_medium=email&utm_source=MagNews&utm_content=Il+meglio+della+settimana+-++23+marzo+2023+%282024-03-23%29

"I miei cuginetti prigionieri di Hamas ma dico no al cessate il fuoco"

Intervista a Yossi Schneider, a cura di Francesca Mannocchi

La ferita del dilemma morale: qual è il prezzo per riavere a casa i prigionieri? Ma anche lo scollamento sempre più netto tra la fermezza di Netanyahu nel continuare le operazioni militari nella Striscia e l'ondata di proteste che ogni settimana con più forza continua a chiedere le sue dimissioni e un accordo che consenta se non la liberazione di tutti gli ostaggi, almeno l'ottenimento di una lista dei vivi e dei morti da parte di Hamas.

L'ultima pausa alle operazioni che ha consentito la liberazione degli ostaggi risale ormai alla fine di novembre. Ariel e Kfir Bibas sono gli unici due minorenni a non essere stati liberati. Con loro, il 7 ottobre, erano stati rapiti dal kibbutz di Nir Oz anche il padre Yarden e la madre Shiri. Hamas, a novembre aveva diffuso la notizia, non verificata, della loro morte a seguito di un attacco israeliano a Khan Yunis. Hamas ha poi diffuso un video che mostra Yarden Bibas mentre viene informato della morte dei suoi familiari. Nel video, sempre di fine novembre, si vede l'uomo rivolgersi direttamente a Netanyahu: «Bibi, hai bombardato la mia famiglia, era tutto quello che avevo nella vita, portali a casa perché siano sepolti in Israele, ti scongiuro». La notizia della morte della donna e dei bambini non è mai stata confermata da Israele. A metà febbraio, con il consenso della famiglia, l'esercito israeliano ha diffuso un video catturato dalle telecamere stradali di Khan Yunis, è delle ore immediatamente successive al rapimento e mostra Shiri Bibas a piedi scalzi, con un lenzuolo tra le braccia, al cui interno, presumibilmente giace il piccolo Kfir. Intorno a loro uomini armati che li scortano....

L'intervista continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202403/240321schneidermannocchi.pdf



Sindrome di Down. Ricerca va avanti, società ancora ferma a stereotipi

In occasione della Giornata, presentata la V Conferenza internazionale sulla sindrome, in programma nella Capitale dal 5 all’8 giugno. Promosso dall’Associazione no profit Trisomy 21 research society che riunisce 600 ricercatori di 25 Paesi, l’evento sarà l’occasione per ricercatori e famiglie di confrontarsi e fare il punto sugli studi scientifici


Persone con bisogni e desideri alle quali la società pone ancora forti pregiudizi. Alla sindrome di Down e a chi ne è affetto, è dedicata la Giornata mondiale (21 marzo), istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2012, e che quest’anno lancia la campagna internazionale “Stop agli stereotipi”. In occasione della Giornata, in Campidoglio è stata presentata la V Conferenza internazionale sulla sindrome, in programma nella Capitale dal 5 all’8 giugno, presso il centro congressi Nuvola. Promosso dall’Associazione no profit Trisomy 21 research society che riunisce 600 ricercatori di 25 Paesi, l’evento sarà l’occasione per ricercatori e famiglie di confrontarsi e fare il punto sugli studi scientifici.
Grazie alla ricerca, infatti, l’aspettativa e la qualità della vita delle persone con sindrome di Down è notevolmente migliorata. “Oggi l’80% raggiunge i 55 anni e uno su dieci i settanta”, spiega Eugenio Barone, ordinario di Biochimica della Sapienza Università di Roma. Anche l’accesso alle cure oggi è più semplice: “questo – continua il docente – ha migliorato la qualità della vita. Inoltre le famiglie sono più avvezze a ...

L'articolo di M. Elisabetta Gramolini continua a questo link:


Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica delle Palme

 









"L'uomo e la donna della croce: condividere il dolore per liberare la speranza" . Il terzo venerdì: con Cristina Frescura

"L'impasse nel quale oggi la chiesa si trova rispetto al modo di pensare e decollare la presenza il ruolo delle donne nella comunità cristiana e a tutti evidente. Certo, timide aperture sono state fatte ma ciò che avviene oggi nella chiesa cattolica è anacronistico. Riconosciamolo: nella chiesa attuale la donna è tanto retoricamente idealizzata quanto inascoltata, a parole magnificata quanto nei fatti misconosciuta"

Queste parole di Enzo Bianchi sono state l'incipit per l'incontro del terzo venerdì di Quaresima della Comunità guidato, questa volta, da Cristina Frescura.


Poi in chiesa sotto i pannelli di Sequela la riflessione è iniziata  segnando una "assenza" dalle immagini, quella di Gesù che ci chiama - noi come Comunità - a farne parte nella sofferenza. Però c'è una luce, una finale aperta alla speranza.


Nella sala del Patronato Cristina ci ha condotto a riflettere sulla figura delle donne nell'evangelo di Luca. Un percorso a tappe a scoprire il corpo di Gesù svestito, esposto, vulnerabile, ferito ... umano e che dal grembo della croce trova riposo in mani di donne.

Dalle donne di famiglia (Maria ed Elisabetta), a quelle di una anziana profetessa: Anna; da quelle di una peccatrice: donna amante ed amata che gli unge i piedi a quelle di un'altra che gli "ruba" la guarigione dalle sue perdite di sangue; da quelle di due sorelle che lo ospitano con modalità diverse ma che una dà senso all'altra, a quelle che da lontano lo seguono fin sotto la croce; dalle "figlie di Gerusalemme" dette paradossalmente beate per non aver partorito, a quella di sua Madre, oasi di ristoro e pace.


La condivisione di un semplice piatto di riso in bianco ha concluso l'incontro nella fraternità.

 






Mc 11,1-10 - Domenica delle Palme

L’ingresso di Gesù a Gerusalemme è oscurato da una grande incomprensione sia dei giudei dell’epoca ma anche da noi quando ci viene chiesto di "seguire Gesù" nel suo ingresso a Gerusalemme e, a volte, con una libertà non corretta, si riprende a dire "imitando il popolo di Israele".


Sulla strada che ha percorso Gesù dalla Galilea a Gerusalemme c’è Gerico e, in quella città fa il suo ultimo miracolo: guarisce dalla sua cecità Bartimeo che, guarito, inizia a seguire Gesù nella salita verso la Città Santa. È il prototipo di ogni discepolo che, una volta compreso chi sia Gesù (quando ci si “aprono” gli occhi e si riacquista la vista prima oscurata dall’essere ripiegati sulla nostra personale identità), desidera far parte della sua vita, del suo modo di vivere e lo segue passo a passo nel dono totale di sé.

Salendo da Gerico, poco prima della cima del Monte degli Ulivi c’è Betania dove abitavano Marta, Maria, Lazzaro e Betfage. Sono due piccoli paesi nei quali, come in tutte quelle realtà anche oggi,  c’è una mentalità meno aperta e capace di accogliere le novità. L’Evangelo desidera evidenziarsi proprio questa situazione di chiusura che potrebbe essere anche quella della nostra Comunità se ripiegata, attorcigliata, “legata” su se stessa, sul si è sempre fatto così.

Gesù manda due discepoli a Betfage a sciogliere, a “slegare” non un puledro come nella nostra traduzione, ma un asinello che è il simbolo del servizio e non del potere e degli eserciti come invece lo è il cavallo.

Zaccaria lo aveva profetizzato: sarebbe giunto, cavalcando un asinello, il re della Figlia di Sion (la periferia povera di Gerusalemme) che farà sparire i carri e i cavalli, porterà la pace e il suo dominio si estenderà dall’Eufrate (in Mesopotamia) a Tarsis (in Spagna), cioè fino ai confini della terra. Questo re avrebbe capovolto il mondo mettendosi al servizio dei più poveri, dei più deboli. 

Slegare l’asinello del villaggio desidera esprimere questa realtà mentre tutti, tra le quattro figure di Messia possibili, attendevano per lo più il liberatore di Israele dal dominio romano con la potenza. 

Questo capovolgimento viene sottolineato anche dal fatto che sono abitanti del villaggio e non il suo padrone, che ne chiedono ragione ai discepoli che rispondono come aveva detto loro Gesù: “Il Signore ne ha bisogno” ed essi “li lasciarono fare” offrendo così la possibilità che emerga la capacità di un servizio. Con altri termini ed in un’altra situazione viene così richiamato il messaggio di domenica scorsa: se il seme di grano non muore …, vale a dire che ogni realtà, ogni uomo è chiamato ad uscire dal suo tranquillo tran-tran che lo soffoca, per far esplodere tutta la vitalità e la ricchezza che c’è in lui.

 

Normalmente poi non ci si sofferma sui mantelli gettati sull’asinello sopra i quali si è seduto Gesù e quelli messi invece a terra sul percorso che avrebbe compiuto. In questo modo l’Evangelista fa emergere due situazioni contrapposte. Nella Scrittura il mantello rappresenta la persona; metterli sull’asinello raffigurano i discepoli che aderiscono con tutto se stessi a quello che Gesù propone e la volontà di continuare quello che lui sta facendo. Mettere invece i propri mantelli, la propria realtà, per terra per farli calpestare dalla cavalcatura, significava sottoporsi al potere, al servizio del nuovo sovrano; ma Gesù è venuto per servire, non per essere servito.

Ecco allora “servito” il grande equivoco, la grande incomprensione tanto è vero che, similmente a come venivano acclamati i condottieri, gridavano Osanna” - che significa “dai salvaci - benedetto il Regno che viene del nostro padre Davide” (Ps 118,26). Nemmeno una settimana dopo, capito che Gesù non era il condottiero atteso, gridanoCrocifiggilo”. 

(BiGio)

Domenica della Palme: La passione secondo Marco: Mc 14,1 -15,47

La Liturgia della Domenica delle Palme, dopo la processione, continua con la proclamazione della Passione di Marco sulla quale c’è un consenso quasi unanime che porta ad affermare sia stata scritta prima del 36 dC (data della morte di Caifa che Marco, per prudenza, non nomina mai mentre gli altri Evangelisti sì). Questa è quindi la prima versione che, in seguito, farà da base agli altri tre racconti con le diverse sottolineature teologiche che li contraddistinguono.



Quella di Marco risponde ad un desiderio atavico dell’uomo: vedere il volto di Dio. Il grido “mostrami il tuo volto”, “non nascondermi il tuo volto” oppure “Signore io cerco il tuo volto” è un leitmotiv dell’intera Scrittura, una tensione, un filo rosso che l’attraversa dall’inizio alla fine. È in questa pagina che la comunità credente è chiamata a vedere il volto di Dio.Anche noi siamo chiamati a contemplare nel crocifisso quel Volto che è dono e volontà d’amore fino alla fine, per attirarci tutti a sé e così salvarci come ci ha promesso la scorsa settimana. 

 

Tutti conosciamo il racconto della Passione ma normalmente mettiamo assieme i quattro racconti; non si riesce così a cogliere il diverso messaggio che da ciascuna ci viene proposto. 

Proviamo allora a scoprire quali siano le caratteristiche proprie di quella secondo Marco che non sono state riprese dagli altri Evangelisti, abbozzando alcune linee di riflessione lasciando l’approfondimento a quella personale.

Innanzitutto evidenzia le reazioni molto umane di Gesù di fronte alla morte che lo aspetta tanto che “cominciò a sentire grande spavento e angoscia” ed è solo Marco che ci riferisce la preghiera di Gesù al Padre mentre non dice una parola mentre lo arrestano né verso Giuda, né verso chi con la spada staccò l’orecchio al servo del Sommo Sacerdote.

Mostrandoci Gesù mite e disarmato che si consegna senza reagire, Marco desidera dire alla sua Comunità ed anche a noi che ci sono momenti nella vita nei quali non possiamo far nulla che accoglierli. Non è passività supina che ci viene proposta; piuttosto che alla violenza non si deve rispondere con la violenza, con la forza che sono gli strumenti del mondo e non quelli della nuova realtà proposta da Gesù alla quale siamo invitati a far parte. L’invito è quello ragionare secondo Dio non secondo gli uomini e questo è un rimprovero che Gesù aveva già fatto ai suoi (Mc 8,33b).

Coerentemente con questa scelta, durante il processo Gesù risponde solo una volta alla domanda di Pilato che desiderava sapere se lui era re affermandolo: “Si, lo sono” poi più nulla nonostante le menzogne, le falsità, le provocazioni di falsi testimoni: reagire a che avrebbe giovato? Quello di Gesù non è un segno di debolezza ma di forza e non scende al livello di chi è arrogante e cerca solo di difendere un interesse di parte secondo logiche politiche spicciole e mondane. Gesù non si mostra pavido bensì un amante della verità e della giustizia più della sua stessa vita.

A differenza degli altri Evangeli, Gesù nel suo percorso sul calvario e nella morte è sempre solo: tutti lo hanno lasciato, solo delle donne guardano da lontano. È uno sconfitto che ha fatto l’esperienza dell’impotenza, del fallimento nella lotta contro l’ingiustizia. È l’esperienza possibile a chiunque cerca di vivere in modo coerente alla sua sequela, Gesù ce l’ha detto e ce l’ha mostrato.

 

Durante la sua cattura c’è un particolare che normalmente viene letto come un momento autobiografico da parte di Marco: c’è un giovane avvolto in un lenzuolo bianco che, quando le guardie cercano di catturarlo, scappa via nudo lasciandolo nelle loro mani. Se pensiamo che quel lenzuolo in greco viene chiamato “sindone”, cioè il panno nel quale venivano avvolte le salme nude, allora è possibile leggere un accenno che anticipa la fine del racconto: ciò che rimane nella tomba è un lenzuolo bianco, una sindone, il corpo non c’è più. Certo, hanno catturato Gesù ma cosa rimarrà nelle mani delle guardie al servizio dei poteri del mondo? Una sindone, non la persona che ne era avvolta. Alla fine della vita che cosa lasciamo al mondo se non che solo il nostro corpo mortale, certamente non la nostra persona… 


Sotto la croce si chiude l’Evangelo di Marco (i racconti della risurrezione sono una aggiunta postuma) con l’affermazione fatta da un pagano che richiama parola per parola il primo versetto di questo Evangelo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. È la risposta alla domanda che ha percorso l’intero testo e Marco ci ha condotto a comprenderlo: è figlio non nel senso di generato, ma perché gli assomiglia in tutto. Pietro, rispondendo alla domanda di Gesù, aveva affermato che lui era “il Cristo”, l’Unto, il Messia atteso. Solo sotto la croce, guardando in alto a quelle braccia aperte, è possibile comprendere pienamente vedendolo spirare a quel modo” e, questo, è possibile a tutti gli "uomini di ogni nazione, tribù popolo e lingua" (Ap 7,9).

Quale modo? L’accento non è sulle sofferenze, ma sull’aver vissuto l’intera vita secondo la volontà d’amore del Padre per tutti gli uomini, affidandosi a Lui con quel salmo di speranza, il 21, il cui incipit sono le sue ultime parole in Marco. Morire in croce per portare ovunque l’amore di Dio, anche coloro che si diceva essere da Lui maledetti: coloro che morivano per condanna “appesi al legno” (Dt 21,22)

(BiGio)