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Dopo 11 anni, in Siria si continua a morire e a combattere

Sessanta civili, tra cui dieci bambini e cinque donne, hanno perso la vita in conseguenza delle violenze che si sono consumate in Siria nel mese di ottobre 2022. Lo rende noto il Syrian Network for Human Rights nel suo rapporto mensile sulla situazione nel paese mediorientale. Una tragica conta che da quasi dodici anni continua a rinnovarsi. Il documento evidenzia che a causare le vittime sono stati soprattutto gli scontri armati tra la formazione terrorista di Hayat Tahrir al Sham e altri gruppi armati che operano nel nord ovest del paese. In quella stessa zona domenica 6 novembre i bombardamenti del governo siriano e della Russia, sua storica alleata, hanno causato sette vittime, tra cui due bambini, e il ferimento di oltre 75 civili.

Dal sogno di un cambiamento democratico all’incubo della repressione e della guerra

Prima del 2011, anno in cui sono iniziate le proteste pacifiche represse nel sangue dal governo di Bashar al Assad, con la successiva esplosione degli scontri armati, in Siria vigeva una calma apparente. A muovere i manifestanti era il desiderio di un cambiamento verso la democrazia, con richieste di maggiori aperture e inclusione e di un sostegno alle fasce più deboli della popolazione, tanto duramente colpite dalla crisi economica e dalla siccità che si era abbattuta sulla regione. Bashar al Assad, oftalmologo laureato nel Regno Unito, salito al potere nel 2000, ereditando de facto il potere dal padre golpista, il generale Hafez al Assad, aveva acceso nei siriani la speranza di un cambiamento. 
L’apertura a una reale rappresentanza politica plurale, tanto agognate dalla popolazione siriana, costituita al 70% da giovani al di sotto del 35 anni, non è mai arrivata. Basti ricordare la vicenda del Manifesto dei 99, quando nel 2005 un gruppo di intellettuali di tutte le etnie e confessioni presenti in Siria presentarono un documento programmatico per portare la Siria verso la democrazia. Dopo una prima parvenza di apertura nei loro confronti, furono arrestati, torturati, costretti all’esilio.
Le proteste iniziate nelle piazze nel 2011 avevano tre caratteristiche. Erano pacifiche, laiche e organizzate dal basso. La mancanza di una leadership era dovuta al fatto che fare opposizione in Siria è sempre stato vietato e che tutte le riunioni pubbliche dovevano essere preventivamente autorizzate dal Mukhbarat, i temibili servizi segreti.

L'intero reportage di Asmae Dachan a questo link:




Curia-Vescovi tedeschi: incontro e argomentazioni

La pubblicazione integrale delle tre relazioni che hanno strutturato l’incontro tra vescovi tedeschi e Curia romana, sull’Osservatore Romano, è la preziosa testimonianza di un desiderio di comunione e di unità che merita di essere sottolineato e valorizzato. Che il confronto abbia assunto non la consueta forma burocratica e chiusa, ma dimensione pubblica e condivisa, è un fatto di rilievo: già è un frutto «procedurale» del Cammino sinodale e del Sinodo universale. Ovviamente questo non nasconde, ma manifesta ancora meglio i punti di disaccordo, che però vanno inseriti in questo comune desiderio di unità. 


Vorrei fare un’analisi solo dei punti su cui le obiezioni della Curia sentono difficoltà, esaminando con una certa cura quale tipo di argomentazione viene proposto all’attenzione della controparte. Questo può essere utile per contribuire a sciogliere alcuni nodi delle questioni e a mostrare distanze e vicinanze forse inattese.

Inizio esaminando le obiezioni sollevate dal Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, card. Ladaria.

 

Le difficoltà di Ladaria

Ragionevole mi pare la domanda di un «genere letterario» meno ricco e articolato. La grande produzione che il Cammino Sinodale tedesco ha generato, ricordata nel dettaglio dalla relazione Bätzing, può sollevare problemi interpretativi, nel riferimento a fonti e a linguaggi non del tutto trasparenti per un lettore esterno.

Su questo può essere prezioso uno «sguardo romano» che chiede spiegazioni e riferimenti. Non posso dimenticare, tuttavia, che un’obiezione al Concilio Vaticano II è suonata, a suo tempo, esattamente nello stesso modo. Siccome i documenti del Vaticano II non parlavano il linguaggio della tradizione magisteriale classica, sembravano «poco rigorosi», mentre costituivano piuttosto, già allora, un “evento linguistico” proprio per questo cambio sostanziale di registro.

Qualcosa di simile ha affermato il card. Schönborn anche a proposito di Amoris laetitia, che cambiava il modo di parlare sul matrimonio e sulla famiglia, rispetto agli stili affermati durante il XIX e XX secolo. D’altra parte, ripeto, mi pare ragionevole il richiamo a una «sintesi» il più possibile chiara nel modo di usare le fonti, nei riferimenti alla tradizione, e nelle implicazioni che le scienze umane apportano alla coscienza ecclesiale e alla comprensione teologica.


Più complessa è la seconda preoccupazione, che mette a tema la correlazione tra struttura della Chiesa ed esperienza degli abusi. La difesa della competenza episcopale e della Chiesa locale, come tale, non mi pare che implichi il ridimensionamento delle distorsioni che il potere, il ministero, la sessualità e il ruolo della donna comportano e su cui occorre una lucida capacità di riforma.

La riduzione del mistero della Chiesa a «sistema di potere», che nessuno può permettersi, non è però evitata dalla salvaguardia di un’assoluta riserva episcopale, proprio perché una gran parte dei problemi discendono precisamente dall’assolutezza di questa riserva gerarchica. Che tutto il potere sia solo nel papa e nei vescovi è l’immagine di «piramide non capovolta» che fa problema.

Qui tra Vangelo e forma culturale vi è una correlazione indissolubile. Vi è in gioco una comprensione dell’esercizio dell’autorità, che non può trovare soluzione in una forma monarchica, che sola garantirebbe il mistero della Chiesa e la Chiesa come mistero.


Il terzo punto, la sessualità, ....

L'intera riflessione di Andrea Grillo a questo link:

http://www.settimananews.it/sinodo/curia-vescovi-tedeschi-incontro-e-argomentazioni/?fbclid=IwAR3E5Mi5DwQAvFuz6TebFdwCjYYL52ZlOORajhdCTWVvZvKUGpt72MiACk0




Il Papa ai teologi: andate oltre, la Tradizione non è “indietrismo”

Francesco alla Commissione teologica internazionale: "Mai indottrinare la gente con dottrine nuove" e poi ha aggiunto che servirebbero più donne tra i teologi


La Tradizione fa crescere la Chiesa dal basso verso l’alto, come le radici con l’albero. Ma oggi c’è un grande pericolo: quello di andare indietro, “l’indietrismo”, che porta a pensare secondo la logica: ‘si è fatto sempre così’. Indica questo rischio papa Francesco incontrando in Vaticano i membri della Commissione teologica internazionale che, dice, “continua, con impegno rinnovato”, il suo servizio “nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II”. 

IL TESTO DEL DISCORSO

“La tradizione è l’origine della fede: o cresce o si spegne”. E’ il monito, a braccio, del Papa, che ha spiegato, fuori testo, che “la tradizione è la garanzia del futuro, e non un pezzo di museo: è quello che fa crescere la Chiesa da giù in su, come l’albero e le radici”. “Il tradizionalismo è la fede morta dei vivi”, il monito di Francesco: “la tradizione ci fa muovere in questa direzione: verticale, da giù in su”. “C’è un grande pericolo oggi”, la denuncia sempre a braccio: “andare in un’altra direzione: l’indietrismo. Andare indietro, ‘sempre è stato fatto così’, meglio andare indietro che è più sicuro’, e non andare avanti con la tradizione”. E’ il caso di “alcuni movimenti di Chiesa”, ha spiegato il Papa: “restare fissi in un tempo, indietro, sono gli indietristi. Qualche movimento nato alla fine del Vaticano I, cercando di essere fedele alla tradizione così, oggi… Fuori di questa direzione verticale, dove la coscienza morale cresce, la coscienza di fede cresce. Invece l’indietrismo ti porta a pensare ‘si è fatto sempre così’ e non ti lascia crescere”. “Su questo punto voi teologi pensate un po’”, l’invito di Francesco, che ha esortato i presenti a muoversi lungo tre direttrici di marcia: fedeltà alla tradizione, transdisciplinarietà, collegialità.

I teologi devono andare oltre, cercare di andare oltre: in questo devono distinguersi dal catechista”. Lo ha spiegato, a braccio, il Papa, ricevendo in udienza i membri della Commissione teologica internazionale. “Il catechista deve dare una dottrina giusta, solida, non eventuali novità”, ha spiegato: “Il teologo rischia di andare oltre oltre: la vocazione del teologo rischia di andare oltre, perché sta esplicitare meglio teologia”. “Ma mai indottrinare gente con dottrine nuove”, il monito sulla scorta di Sant’Ignazio. Oltre alla transdisciplinarità, che comporta la capacità di “aprirsi con prudenza all’apporto delle diverse discipline grazie alla consultazione di esperti”, Francesco ha raccomandato ai teologi un’altra parola: “stupore”

“E’ importante non tanto per i ricercatori, ma per i professori di teologia – la tesi del Papa, pronunciata sempre a braccio – domandarsi se le lezioni di teologia provocano stupore in coloro che le seguono: è un buon criterio, può aiutare”. “Forse sarebbe importante aumentare il numero delle donne – l’invito finale – perché hanno pensiero diverso dagli uomini e fanno della teologia qualcosa di più profondo e saporito”.
(Avvenire)

Ragioni e illusioni dei pacifismi. La guerra Russia-Ucraina e la prospettiva etica

Molti si dichiarano pacifisti, e con buone ragioni. Chi non pensa che la pace sia uno dei valori più importanti? Ridotta in questi termini la questione sembra quasi triviale. Il problema non è tanto la richiesta dei mitici negoziati, dato che i canali sono sempre aperti sottotraccia e in ogni caso la guerra termina con dei negoziati. 


Il pacifismo come posizione sociale ha una lunga storia che qui è impossibile ricostruire. Nel secolo scorso, e anche negli ultimi decenni, ha prosperato, giustamente, su una miriade di guerre sbagliate, dubbie e pretestuose. Basti pensare all’emblematico Vietnam per la generazione dei baby boomer, così come al disastro in Afghanistan dei nostri giorni. Di fronte a casi del genere la pretesa incondizionata della fine delle ostilità assumeva una cogenza evidente. Ma può la stessa urgenza valere di fronte a situazioni almeno in parte giustificate? Può valere in un caso di guerra di autodifesa, cioè nel caso di paesi vittime di un’aggressione? Quasi nessuno, anche tra i pacifisti di tipo incondizionato, negherebbe che in generale uno Stato (o un individuo) abbia il diritto di difendersi. Ma, talvolta, pur riconoscendo il diritto in generale di difendersi, molti negano che uno stato specifico in un certo contesto abbia questo diritto (ad esempio l’Ucraina) o che questo diritto sia sufficientemente forte rispetto ad altre considerazioni. Più in generale, per valutare le ragioni del pacifismo assolutista e per verificare i dubbi specifici sul caso ucraino, dobbiamo considerare le ragioni espresse o implicite delle parti in causa. Ovvero, bisogna esaminare il caso della guerra in Ucraina seguendo gli argomenti teorici, e sì anche filosofici, di etica della guerra. 

L'intera riflessione di di Federico Zuolo - professore associato in filosofia politica dell'Università di Genova a questo link:

https://www.valigiablu.it/ucraina-pace-russia/



Ucraina: "Il nostro Avvento". Parla il vescovo Krivitsky che guida la diocesi di Kiev-Zhytomyr

«Il mondo chieda a Putin una tregua di Natale. Tutte le nostre chiese aperte per chi non ha luce e riscaldamento»


Come si vive un Avvento di guerra?

Le bombe continuano a cadere. La popolazione è consapevole che la Russia vuole metterci in ginocchio in questi mesi freddi. Sappiamo che è complicato riparare tutti i punti della rete elettrica continuamente attaccata. Ma il Natale ci ricorda che Dio è amore, che il Verbo si è fatto carne per riscattare l’umanità: ecco, nel mistero dell’incarnazione troviamo la speranza che ci deve sostenere nelle prove. E il Vangelo di Cristo ci guida nel cammino di conversione che, con la preghiera, chiediamo anche per i nostri aggressori.

La preghiera è un’arma?

Ritengo che la guerra sia anche un esame di coscienza sul nostro percorso di fede. E la preghiera è un punto di appoggio per tutti: compresi i nostri soldati al fronte che incontro spesso e che mi raccontano come affidino la loro vita al Signore. E noi, come comunità cristiana, facciamo altrettanto: ogni giorno mettiamo nelle mani del Risorto tutte le nostre sofferenze e tutte le nostre attese.


L'intera intervista di Giacomo Gambassi a questo link:

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/vescovo-di-kiev-il-nostro-avvento-fra-bombe-fame-e-gelo-cosi-si-vuol-far-morire-un-intera-nazione

La nostra prima Domenica di Avvento

L’Avvento che è composto di due movimenti: il nostro andare verso il Signore e il suo venirci incontro, egli è «la nostra pace».


In questo nostro Avvento-Natale con il grido «Vieni, Signore Gesù», cercheremo di accogliere più a fondo l’appello che viene dal mondo e dalla creazione, lasciando correggere il nostro modo di guardare gli “altri”, in particolare chi è povero, scartato, oggetto di violenza, privato di avvenire. 

L’annuncio di Isaia “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci”, proclamato oggi nella prima lettura, non rimarrà un fatto isolato: tutti i testi delle liturgie d’Avvento (letture, salmi, orazioni, prefazi e antifone) ce lo richiameranno costantemente e ci accompagneranno ad una fedele vigilanza nel nostro cammino. 

Lo spirito dell’Avvento non è che non deve, non può lasciarci indifferenti. Facciamo allora nostra questa preghiera: «Vieni, Signore Gesù, spezza le nostre spade, smussa le punte delle nostre lance, cancella i desideri di guerra, le chiusure, i muri: riconosciamo la tua chiamata e il bisogno di aprirci a te, senza timore».


Ogni Domenica di Avvento sarà animata da un gruppo della nostra Parrocchia. Sarà così l'occasione di sottolineare i servizi che ne sono l'anima spesso silenziosa e discreta.


Oggi questo ruolo è stato svolto dal Clan/Fuoco del Gruppo Scout di Marghera che spesso animano anche la nostra liturgia nel servizio di sostegno della preghiera nel canto dell'Assemblea.


Preghiera dei fedeli

 

Per i ragazzi e le ragazze: affinché percepiscono l’urgenza di correggere la rotta che ciecamente noi adulti abbiamo impostato. 

i preghiamo affinché riescano a ricordarci quanto l’individualismo e l’indifferenza siano non sono fonte di sofferenza per tante donne tanti uomini, ma anche un binario cieco verso cui il nostro mondo si sta incagliando. Per questo noi ti preghiamo

 

Per la Comunità della Risurrezione: affinché possa continuare ad essere una porta aperta e sicura per i sogni di inclusione, carità e fraternità.

Possa essere sempre un luogo dove poter fare esercizio di vigilanza e gratuità così che chiunque partecipi sia sempre pronto ad attendere il figlio dell’uomo. Per questo noi ti preghiamo

 

Per Marghera: fin da sempre luogo di grandi cambiamenti, posso ancora oggi mantenersi all’altezza delle sfide sociali a cui chiamata.

Custodisci, alimenta le reti di associazioni di cittadini, sia religiose che laiche, affinché possano continuare a tenere accesa la luce nei loro pensieri di giustizia, prossimità gli ultimi e custodia del creato. Per questo noi ti preghiamo

 

Per chi si sente tuo figlio: affinché possa essere sempre il fautore del cambiamento di quella Chiesa in cammino a cui apparteniamo.

Trovi la forza di spezzare le spade e le lance per costruire falci e aratri. Ci porti a recuperare il senso dell’annuncio del Vangelo superando per sempre la differenza trarre fedi regolari e irregolari. Per questo noi ti preghiamo


Presentazione delle Offerte


Da oggi riprendiamo la processione della Presentazione delle Offerte. Il Pane e il Vino vengono portati da coloro che hanno proclamato le letture. Questo a significare che la Parola proclamata e condivisa diventa quel Pane spezzato che condivideremo nella Comunione. Questo ci renderà il Corpo di Cristo le sue mani nella nostra quotidianità e ci abiliterà a portare la buona notizia agendo nella nostra vita secondo gli inviti raccolti dalla Parola proclamata nelle letture. 


Nella Processione il pane e il vino sono seguiti dalla raccolta delle offerte e, in questa prima domenica di Avvento, vengono deposte ai piedi dell’altare anche una lampada e un falcetto:

Il falcetto per ricordare la profezia di Isaia nella prima lettura: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci

La lampada a forma di colomba per rappresentare la pace promessa e perché nell’Evangelo di oggi c’è l’invito a vegliare per essere pronti all’arrivo del Signore. 

La lampada ricorda anche la parabola delle dieci vergini con le lampade che attendono lo sposo che ci invita ad essere previdenti.

Come Comunità di Clan/Fuoco del gruppo Scout di Marghera, portiamo una forcola da sempre simbolo delle scelte che orientano e orienteranno la nostra vita. Scegliere significa prendere posizione rispetto alle cose del mondo ed essere strumento di cambiamento contro ogni logica di indifferenza.

Tutto questo è la nostra risposta ed il segno della nostra partecipazione.



Il sentiero di Isaia”, che da stamattina fa dell’altare della chiesa della Cita un libro di storia e un potente invito a “svegliarci dal sonno” è molto più di una riuscitissima opera di Giuliana Benedetti.
"La pace va osata" ci chiedeva don Tonino Bello, perché il profeta ha osato chiedere che anche gli eserciti vengano smantellati: “Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra!” (Isaia 2, 4), superando “la prudenza umana, i sillogismi della ragione e i calcoli da cancelleria”. Per questo abbiamo appoggiato sull’altare anche due libri che vogliamo rileggere e che portano come titolo lo stesso sogno antimilitarista di Isaia: Antonio Bello: "Sui sentieri di Isaia" (La Meridiana) e Giorgio La Pira: "Il sentiero di Isaia" (Paoline)








Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 27 novembre (I di Avvento)




I Avvento A – Mt 24,37-44

Prima c’è una promessa e l’affermazione che si compirà certamente, solo dopo c'è l’esortazione a non lasciarsi andare, ma a rimanere sempre presenti a quanto accade

 


Dopo la festa di Cristo Re che ha chiuso riassumendo l’intero percorso dell’anno liturgico concluso la scorsa domenica, come sempre la liturgia riprende il suo cammino da dove l’aveva lasciato e, dopo averci fatto riflettere sugli sconvolgimenti sociali e cosmici, fattoci scoprire che siamo chiamati a non preoccuparci del futuro ma a vivere il presente per essere la lieta notizia nel nostro oggi, ci invita a continuare così e ci incoraggia ad essere attenti e riconoscere i segni dei tempi.

 

Gesù descrive la sua e la nostra realtà, paragonandola a quella del Diluvio usando quattro verbi “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito” di per sé potrebbero descrivere una situazione standard di vita ma anche un tran-tran sottotono che potrebbe sottintendere, come diciamo oggi, un ripiegamento nel privato disinteressandosi di quanto accade attorno a noi.

Nella tradizione giudaica la generazione che fu sommersa dal diluvio è vista in modo molto critico: relazioni sessuali corrotte fino allo scambio dei rispettivi coniugi o l’accoppiamento con animali. Questa situazione ibrida era chiaramente uno sconvolgimento nell’ordine della creazione che dovette essere purificata dall’acqua del diluvio per poter giungere ad un nuovo inizio secondo la volontà di Dio. Quindi se non si vuole correre nuovamente quel pericolo, è necessario rimanere vigilanti e non addormentarsi a causa delle pesantezze della vita. Rimanere svegli e pronti nell’attesa del giorno nel quale verrà il Signore.

È una minaccia? No, assolutamente perché prima di tutto ci sta l’annuncio della fedeltà di Dio e in seguito vi è l’invito alla vigilanza. Prima c’è la sua promessa (“Il Figlio dell’uomo verrà!”) e l’affermazione che si compirà certamente (“Egli viene!”), seguita solo dopo dall’esortazione a non lasciarsi andare, ma a rimanere sempre presenti a quanto accade (“Vegliate!”).

 

Non si conosce né il giorno né l’ora della venuta del Figlio dell’uomo e quando questo avverrà “due uomini saranno nel campo: uno portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata”. Casualità? No, affatto. Anche nel racconto del diluvio c’è chi si è salvato: Noè, i suoi famigliari con gli animali che ha portato con sé. Anche loro “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito” ma si salvarono perché erano attenti a quanto stava avvenendo e hanno saputo cogliere ed accogliere l’invito del Signore a salvarsi attraverso l’opera delle loro mani: la costruzione dell’arca. 

Riallacciandosi ai messaggi delle ultime domeniche, Dio ci parla nella e attraverso la nostra vita non facendo proclami, roboanti apparizioni; ce l’ha detto chiaramente: “anche se vedessero risuscitare un morto …” perché se siamo ripiegati e attenti solo a difendere il nostro status quo, se siamo solo capaci di essere concentrati e diligenti nello svolgere le nostre mansioni, preoccupati del futuro ma disattenti a quanto ci accade attorno, non saremo capaci di cogliere l’appello che ci viene dalla storia. Un invito a entrare in rapporto sinergico con lui e così vivere già oggi in noi anticipazioni della sua vita che è eterna come salvati.

Salvati da cosa? Dall’egoismo, dal considerare la nostra realtà l’unico nostro bene da difendere e preservare, dal non saper ascoltare il grido del povero, del sofferente, del migrante, dell’umiliato, dell’offeso, dell’oppresso. Sta a noi costruire quell’arca di pace dentro la quale tutti questi possono trovare rifugio e consolazione, rinforzare le loro membra stanche o denutrite, sfibrate dalla guerra come dalla durezza di un cammino senza fine come in quei ‘game’ che si vivono alle frontiere nel tentativo di superarle e continuamente essere ricacciati indietro.

Il Signore di nuovo oggi ci dice che noi siamo fatti per vegliare sugli altri, per custodire e far crescere lo spazio dell’accoglienza: la loro salvezza è nelle nostre mani come la nostre nella loro. Allora si comprenderà come il vegliare non è un obbligo ma una esigenza, senza temere quello che sta accadendo nel mondo che è il luogo privilegiato nel quale il Signore ci parla e che trasformerà in definitivo (eterno!) ogni germe di amore che sapremo spargere nelle piccole scelte di ogni giorno: “Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore verrà”, ma verrà e ci incontrerà nel nostro qui e ora: sta a noi essere portati via o lasciati qui; dipenderà da cosa saremo preoccupati o occupati a fare. Come nella parabola delle 10 vergini che erano in attesa dello sposo: 5 previdenti (pre-vedere, vedere prima) entrarono con lo sposo, le altre rimasero fuori dalla sala delle nozze.

L’Avvento è anche questo invito: l’avere e il mantenere sempre accesa quella lampada che ci permette di rimanere svegli e attenti al Signore che viene.

(BiGio)


Chiamati ad essere come il fico: pazienti e pronti

Viviamo nella notte oscura e fitta, quando aumentano i motivi di stanchezza, delusione, rabbia, impotenza. Ma è proprio in questa masnada di intorpidite e scure passioni che ci raggiunge l’annuncio di speranza di Gesù come il primo bagliore di luce all’alba.

Nel tempo di Avvento siamo provocati ogni giorno a far nostro questo richiamo.


Colpisce come Gesù nei suoi discorsi abbia una capacità brillantissima di accostare immagini plastiche di per sé eloquenti, esempi concreti tratti dal grande libro della natura o dalle pagine magistrali della storia, racconti verosimili di cronaca quotidiana, paragoni con vicende di ordinaria vita comune di immediata comprensione e vicine a quanto i suoi contemporanei sperimentano. La recezione è semplice, persino banale, eppure il cuore sclerotizzato, duro, appesantito, “tondo” rallenta la corsa al cambiamento dirompente che Gesù desidererebbe.

Viviamo, anche noi come loro, storditi, alla ricerca di abitudini senza spessore che ci diano l’illusione della rilassatezza e della felicità, in affanno per il duro lavoro e le improrogabili incombenze. Ci appesantiamo con un mangiare e un bere sempre più esigente, raffinato e ricercato. Ci accaparriamo come predatori insaziabili dei beni che la natura dispensa, a scapito dei poveri e noncuranti delle generazioni a venire. Ci accasiamo, ci sposiamo o ci impegniamo a vivere insieme, forse per amore, ma anche per rifugiarci in un luogo sicuro, un’oasi protetta, un porto sospirato lontano dai venti di tempesta. È naturale non accorgersi di nulla né tantomeno del Signore che viene “come un ladro di notte”. È naturale perché non lottiamo più

Perciò Gesù ci chiede di vegliare, di tenerci pronti, di aumentare il range della consapevolezza, di stare desti, di non intorpidirci, di avere una coscienza attenta a ciò che accade dentro di noi e attorno a noi. Viviamo nella notte oscura e fitta, quando aumentano i motivi di stanchezza, delusione, rabbia, impotenza. Ma è proprio in questa masnada di intorpidite e scure passioni che ci raggiunge l’annuncio di speranza di Gesù come il primo bagliore di luce all’alba.

Nel tempo di Avvento siamo provocati ogni giorno a far nostro questo richiamo che dovrebbe essere sempre presente nelle nostre esistenze, dovrebbe costantemente permeare ogni nostra fibra, condizionare ogni nostra relazione. Siamo fragili e mortali ma cerchiamo per istinto di sopravvivenza e con tutte le nostre scarne energie di non vedere le fragilità che ci colgono e di procrastinare il più possibile l’incontro con la morte. Senza sapere che “passa la figura di questo mondo” (1Cor 7,31); ciò che resta sono le parole di sapienza, verità, bellezza, tenerezza, luce di Gesù.

Chiediamo al Signore la stabilità e la fedeltà del fico, che affronta gli inverni con pazienza, pronto a intenerirsi quando è toccato dalla primavera. Invochiamo dal Signore non particolari e sorprendenti carismi di preveggenza ma il dono umile della vigilanza e di poter ricominciare ogni giorno la sequela di conformità a lui solo, consapevoli dei nostri peccati ma ancor di più della sua misericordia senza limiti. Supplichiamo il Signore che ci conceda uno sguardo di fede e di speranza, che veda oltre la morte e i fallimenti e assapori già la liberazione da quel non so che di amaro in bocca che ci fa annegare nelle acque della banalità e della superficialità.

(fr Giandomenico di Bose)


Tori e Lokita dei fratelli Dardenne, il cinema che ci obbliga ad avere speranza

Dopo aver conquistato il Festival di Cannes 2022, dove ha ricevuto il Premio Speciale per il 75esimo anniversario, arriva in sala il 24 novembre il dodicesimo lungometraggio dei due grandi registi belgi. Protagonisti due minorenni non accompagnati, immigrati in un’Europa senza umanità



«Credete ci sia ancora spazio per il vostro modo di fare cinema in questo momento in cui il pubblico sembra chiedere sempre più film d’intrattenimento?», chiede una collega in conferenza stampa dopo la proiezione di Tori e Lokita, ultimo film dei fratelli Dardenne. «Certo che lo credo; altrimenti non lo faremmo», risponde lapidario Luc Dardenne per poi argomentare: «Il cinema ha il potere di spezzare i luoghi comuni, perché permette al pubblico di fermarsi, di prendersi un pausa e dialogare con quello che accade sullo schermo, di smettere di annegare nel mare di parole in cui siamo immersi di continuo: nelle immagini scorre la verità» E una delle verità, numeri alla mano, è che nella civilissima Europa ogni anno arrivano migliaia di bambini e ragazzini, di entrambi i sessi, che il nostro Paese chiama minori stranieri non accompagnati (c’è anche una sigla per loro: msna), che in migliaia scompaiono senza lasciare traccia. Come evidenziato da un articolo del The Guardian, il collettivo di giornalisti di 12 Stati europei Lost in Europe  ha scoperto che dal 2018 al 2020 sono almeno 18.292i minori stranieri scomparsi. L’Italia è il Paese con il numero più alto di sparizioni, 5.775 tra il 2019 e il 2020, quasi 8 al giorno.

È da questi numeri inconcepibili per una democrazia moderna che i fratelli Dardenne sono partiti per scrivere il loro film su due ragazzini, un dodicenne e una sedicenne, arrivati soli in una cittadina del Belgio dopo l’ormai nota odissea che tocca ai profughi africani per arrivare al di là del Mediterraneo.


L'articolo firmato da Francesca Romana Buffetti di presentazione del film a questo link:

https://www.sapereambiente.it/migranti/tori-e-lokita-dei-fratelli-dardenne-il-cinema-che-ci-obbliga-ad-avere-speranza/


 

Afghanistan. I canti poetici delle donne afghane e il volo degli aquiloni

Il racconto del giovane scrittore afghano, Gholam Najafi, tornato nel suo Paese natale con il sogno di costruire una scuola per i bambini nei pressi di Herat


Per capire la società afghana bisogna sedersi davanti alle donne e ascoltare tutte le poesie che escono dai loro canti. Sono poesie che vengono dal cuore. Seppure siano analfabete in ogni conversazione dimora poesia. Le poesie vengono tramandate oralmente, molte sono ricche di nostalgia. A volte le donne non si ricordano un’intera riga, allora si aiutano a vicenda: una di loro inizia il verso e l’altra lo finisce. Dietro a queste poesie ci sono lacrime da versare e dolori da sopportare.
Mentre cammino vedo per strada delle bambine e sono felice, perché possono andare ancora a scuola fino al settimo anno scolastico statale. Uscite dalla scuola giocano con i loro aquiloni. I bambini guardano li osservano volare in alto, giocano per allenarsi con la bava di vento in vista del venerdì. Il venerdì è il giorno in cui non si va a scuola e faranno la gara con gli aquiloni; non hanno ancora per la testa i pensieri delle giovani donne o degli adulti. Le bambine ti prendono per mano e iniziano a raccontare come va la scuola, come va la vita famigliare, come va il piacere della vita, insomma ti raccontano del loro cappello in testa o dei calzini bucati. Le altre ragazze che si sono dovute fermare all’ottavo o al nono anno scolastico, e non hanno soldi per frequentare la scuola privata, stanno per dimenticare i loro vecchi libri e compiti da fare non ne hanno più. Va così per questa generazione sfortunata. Allora vanno a fare altri mestieri per far passare il tempo e congedarsi dalla propria gioventù. È così che il ricamo, un’arte praticata moltissimo qui in Afghanistan, diventa un mestiere per moltissime donne, con cui riescono a dar da mangiare ai loro figli a volte orfani di padre.

L'articolo continua a questo link:




Sinodo tedesco: il possibile compromesso

La visita ad limina dei 67 vescovi tedeschi (14-18 novembre) è cominciata con la celebrazione eucaristica alla tomba di Pietro, nelle grotte vaticane. Il presidente della Conferenza, il vescovo di Limburg, Georg Bätzing, ha ricordato il dono dell’unità della Chiesa, ma anche la responsabilità delle Chiese locali in ordine all’annuncio e al rinnovamento.

Citando la post-sinodale dell’Amazzonia, ha legato il compito sia alla trasformazione delle culture indotta dalla fede, sia all’arricchimento della fede per la presenza dello Spirito nelle culture. Giovedì 17 ci sarà la riunione congiunta dei responsabili dei dicasteri, i vescovi e il papa, mentre, il giorno successivo, ci sarà l’incontro diretto dei presuli con il papa. 

La visita precedente è del 2015 ed è la prima volta che mons. Bätzing viene da presidente. I temi prevedibili dei cinque giorni, oltre al resoconto delle singole diocesi, ad alcuni problemi di particolare urgenza (come il caso ormai intollerabile di mons. Rainer Maria Woelki in aperto conflitto con molte istanze della diocesi di Colonia), sarà soprattutto il Sinodaler Weg, il sinodo avviato nel 2019 e di cui si sono celebrate quattro sessioni (l’ultima l’8-9 settembre) in attesa di concluderlo nel marzo di 2023.

L'interessante articolo di Lorenzo Prezzi sul Sinodo tedesco che ha suscitato e continua a suscitare attenzione e dibattito, a questo link:

http://www.settimananews.it/sinodo/sinodo-tedesco-il-possibile-compromesso/?fbclid=IwAR2sZ16ejEcAtZuTE707B9lJBrvEQ5fwbwFDSDH32F4QlBc6ww2MHqflm5U


La sinodalità secondo l’America Latina

A un anno di distanza dalla celebrazione della I Assemblea ecclesiale latinoamericana e dei Caraibi, a cui hanno preso parte delegati laici, religiosi e vescovi nel novembre 2021 (cf. Regno-att. 22,2021,683), il Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM) ha pubblicato un lungo documento di riflessione e di proposte pastorali, scaturito da tale Assemblea. Il testo, tutto centrato sul tema della sinodalità, costituisce di fatto anche un resoconto d’ascolto delle comunità locali in preparazione sia all’Assemblea sia al Sinodo della Chiesa universale. Proponiamo alcuni numeri del documento, nei quali riecheggiano temi e questioni sollevati anche in molti altri contesti continentali e nazionali (MEG).


Avere voce in capitolo nei processi decisionali

299. Per essere una Chiesa sinodale, l’Assemblea ecclesiale si propone di attualizzare, alla luce della parola di Dio e del concilio Vaticano II, il concetto e l’esperienza di Chiesa come popolo di Dio, in comunione con la ricchezza della sua ministerialità. Creare nuovi ministeri e rinnovare quelli esistenti permetterebbe il coinvolgimento dei laici in generale, delle donne in particolare e delle persone consacrate, in modo che possano partecipare e avere voce in capitolo nei processi decisionali. Ciò significa assumere la dimensione ministeriale della Chiesa dal punto di vista della circolarità, della sinodalità e della corresponsabilità, perché tutti siamo chiamati a vivere la dignità e l’uguaglianza prevista dalla vocazione battesimale (…)

301. La sinodalità rende la Chiesa una comunità di comunità, sempre più aperta, misericordiosa e sensibile, che abbraccia tutte le periferie umane riconoscendo e accogliendo la diversità. A tal fine, è importante la creazione di piccole comunità autonome che contribuiscano al superamento del clericalismo attraverso l’inclusione, la prossimità e l’incontro. Ciò implica il rafforzamento del ruolo dei laici nella vita pastorale e missionaria, così da poter camminare insieme come popolo di Dio e in questo modo concretizzare la comunione e la partecipazione di tutti. Questo ambito può essere anche uno spazio speciale per la collaborazione dei preti che si sono sposati e un luogo di accoglienza per i migranti e altri gruppi minoritari nella loro situazione specifica (…)

303. La comunità cristiana è una casa dei poveri (Documento di Aparecida, n. 8) e una Chiesa samaritana (ivi, n. 26). Deve creare strutture per accogliere tutti e condividere con tutti la vita in abbondanza. Aparecida afferma che «nel nostro subcontinente è urgente porre fine alla logica del colonialismo, è urgente porre fine alla logica colonialista di rifiuto e assimilazione dell’altro; una logica che viene da fuori, ma che è anche dentro di noi» (ivi, n. 96).

La pubblicazione continua evidenziando i seguenti punti: Il pluralismo come presuppostoLe donne: sì, ma…Cambiare le strutture ecclesiastiche a questo link:





Una Comunità in attesa del Vescovo

Il testo di questo editoriale è una lettera aperta, che un gruppo di laici della diocesi di Brindisi-Ostuni ha scritto a papa Francesco e al Nunzio Apostolico in Italia, Emil Paul Tscherring, in relazione alla nomina del loro futuro vescovo.
La lettera svolge considerazioni di carattere generale su tre aspetti: la procedura per arrivare alla nomina; il rapporto vescovo-comunità; lo stile della “paternità episcopale”.
L’iniziativa ha trovato un eco, il 18 ottobre 2022, sul  “Nuovo quotidiano di Puglia” nell’articolo Il Concilio e la timidezza delle scelte determinanti” a firma di Fulvio De Giorgi


La riforma della Chiesa cattolica, riforma non più procrastinabile, più volte annunciata da papa Francesco, non può trascurare, tra i tanti problemi strutturali che devono essere affrontati, quello della scelta e dell’elezione dei vescovi.

Una riflessione su questo tema non è facile ma è necessaria ed irrinunciabile per chi vorrebbe non un’altra Chiesa ma una Chiesa diversa.

Una crisi della gerarchia
La crisi della chiesa gerarchica non è una invenzione nostra. Se esiste un problema di credibilità, se il Vangelo oggi fatica a passare, senza cercare alibi, dobbiamo riconoscere che questo avviene soprattutto per la responsabilità, per l’inadeguatezza della struttura ecclesiastica.
Ne consegue che la attuale crisi ecclesiastica non può essere sbrigativamente addebitata alla sua base, al dilagare delle mode contrarie al Vangelo, al mondo con i suoi vizi e la sua invadente contrarietà al sacro. Né può essere responsabilità dei laici non riuscire a trovare parole capaci per dialogare con un tempo in rapida trasformazione, considerato che i laici nella chiesa, nonostante la loro generosa presenza, non hanno alcuna responsabilità nelle scelte di governo.
Sappiamo quanto sia ancora lunga la strada per un laicato consapevole e protagonista ma sappiamo anche che il processo di nomina di un vescovo deve essere un “processo ecclesiale”, che non può essere trattato come una questione “privata”, e che la questione non può essere rinviata o, peggio, ignorata.
Chi potrà prendere sul serio la “paternità episcopale” in una gestione così opaca delle nomine episcopali?

L'intero articolo a questo link:

https://www.viandanti.org/website/una-comunita-in-attesa-del-vescovo/


Iran: da protesta a controrivoluzione

Le proteste iraniane proseguono nonostante la repressione ed entrano in uno stato di ‘rivolta continua’ e totale contro un regime che ha fallito sotto tutti gli aspetti.


È di 15 morti tra cui un bambino di nove anni, il bilancio di incidenti separati avvenuti la notte del 17 novembre in varie città dell’Iran tra manifestanti e forze dell’ordine. Nell'anniversario della rivolta del 2019, il paese ha vissuto una delle notti di proteste più serie e diffuse delle ultime nove settimane. 
Dalle piazze e dalle strade, le proteste si sono progressivamente infiltrate nelle università, nei licei e nelle fabbriche, teatro di diversi scioperi nelle ultime settimane. A oltre nove settimane dalla prima scintilla, il movimento è entrato in una nuova fase, trasformandosi nella principale sfida alla teocrazia che guida il paese da 44 anni. Ma il cambiamento riguarda anche i protagonisti e gli animatori delle manifestazioni: se la rivolta era stata lanciata da giovani donne, poi affiancate dagli uomini, a cui successivamente si erano uniti gli studenti e le studentesse delle università e delle scuole superiori, ora sembrano essere soprattutto gli uomini a prendere il centro della scena, esponendosi agli abusi del regime e talvolta alla morte, gridando: "Morte al dittatore”. “La rivolta si è trasformata in un'insubordinazione totale e costante, a giorno e notte, contro il dominio teocratico. Questa mutazione, inizialmente timida, è ormai un fatto incontrovertibile”.

Finora nessuna delle due parti ha mostrato segno di cedimento, sebbene all'interno del sistema stiano comparendo le prime crepe: alcuni ex alti funzionari, come l'ex presidente Khatami e l'ex capo del parlamento Ali Larijani, insieme ad alcuni ecclesiastici sciiti come Hojjatol Eslam Fazel Meybodi, hanno criticato la testardaggine del governo e chiesto l’apertura di un dialogo nazionale. Allo stesso tempo, la pressione per evitare un fallimento dei colloqui sul nucleare è in aumento e anche se non è facile, tutto ciò potrebbe portare ad alcuni cambiamenti fondamentali nel sistema politico del paese. La solidarietà della comunità internazionale e il sostegno dei leader del mondo democratico sono cruciali in questo percorso.


L'intero articolo a questo link:

https://ispo-zcmp.campaign-view.eu/ua/viewinbrowser?od=3zfa5fd7b18d05b90a8ca9d41981ba8bf3&rd=166050cd3bb0d3b&sd=166050cd3ba6cf5&n=11699e4c0dc7c61&mrd=166050cd3ba6b6d&m=1




Povertà educativa. Con i Bambini e Demopolis: “Quanto futuro perdiamo?”. Il ruolo della scuola e della comunità

Crescita delle disuguaglianze, oltre 80mila studenti bocciati per troppe assenze, strutture scolastiche troppo vecchie, preoccupazione per la violenza delle baby gang… Sono alcuni degli elementi emersi nel lavoro presentato in occasione della Giornata internazionale per i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Per la maggioranza degli italiani “il nostro non è un Paese “a misura di bambini e ragazzi”. Per questo serve un nuovo patto di comunità 


“Nell’ultimo anno scolastico segnato dal Covid, oltre 80mila studenti non hanno maturato una frequenza a scuola sufficiente per poter essere scrutinati, cioè sono stati bocciati per troppe assenze: una città di studenti fantasma grande quasi come Brindisi o Como, ad aggravare il problema dell’abbandono scolastico che è un nefasto primato del nostro Paese”. Si tratta, per il 67% degli italiani, di un fenomeno “allarmante” e da affrontare con “urgenza”.

A fronte di questo motivato allarmismo, “per il 61% degli italiani è comunque giusto bocciare per eccesso di assenze anche durante l’anno del Covid. Lo scarso apprendimento scolastico preoccupa il 62% degli italiani, quasi il 10% in più rispetto alla rilevazione del 2019”. Sono alcuni dei dati emersi dall’indagine promossa dall’impresa sociale “Con i Bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, realizzata dall’Istituto Demopolis in occasione della Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che si celebra il 20 novembre. La presentazione dell’indagine “Quanto futuro perdiamo? Il ruolo della scuola e della comunità educante nel Paese” è avvenuta mercoledì 16 novembre, on line.

“Attraverso questa indagine sono emerse le criticità del sistema scolastico, ma anche le potenzialità che una comunità può esprimere – sottolinea Marco Rossi Doria, presidente di Con i Bambini –. 

Cresce tantissimo la consapevolezza del ruolo delle comunità educanti, ovvero di una responsabilità diffusa e condivisa della crescita dei nostri bambini e bambine, ragazzi e ragazze e che non possiamo lasciare indietro i ragazzi e i bambini delle troppe aree povere d’Italia”.

 “Senza mai citarlo esplicitamente – aggiunge -, quest’anno con l’indagine siamo entrati anche nel merito del merito: per la maggioranza degli italiani vanno supportate équipe stabili di docenti capaci di favorire didattiche innovative specialmente nelle aree più fragili, mentre per meno del 30% vanno premiati i singoli docenti capaci di favorire didattiche vincenti indipendentemente dai diversi contesti.

 


L'articolo di Gigliola Alfaro continua a questo link:


https://www.agensir.it/italia/2022/11/16/poverta-educativa-con-i-bambini-e-demopolis-quanto-futuro-perdiamo-il-ruolo-della-scuola-e-della-comunita/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2