Luca è preoccupato dalle dinamiche interne alle comunità, le sue come le nostre di oggi. Come evitare le divisioni che nascono da critiche, giudizi, pettegolezzi? Come distinguere nella comunità cristiana i buoni dai cattivi maestri? Come sapere di chi ci si può fidare e di chi no? Come riconoscere coloro che sono ciechi o hanno travi nei loro occhi? Luca ci offre un criterio con il quale comprendere

Oggi Liturgia, come le ultime due domeniche, ci propone un’altra pericope del discorso della pianura lungo il lago. Gesù dopo aver invitato Simone ad essere pescatore di uomini, a tirarli fuori dal mare del male per farli vivere, aver raccontato il suo modo di essere nelle beatitudini e il volto del Padre (che è la misericordia), ha invitato coloro che lo stavano ad ascoltare ad essere benevoli verso gli ingrati e i malvagi, a non escludere nessuno dal raggio d’azione di questo amore e provare sentimenti addirittura materni nei confronti degli altri ad essere misericordiosi cioè datori di vita come il Padre, oggi Gesù mette in guardia i suoi discepoli da rischi sempre presenti in ogni comunità.
Luca è preoccupato dalle dinamiche interne alle comunità, le sue come le nostre di oggi. Come evitare le divisioni che nascono da critiche, giudizi, pettegolezzi? Come distinguere nella comunità cristiana i buoni dai cattivi maestri? Come sapere di chi ci si può fidare e di chi no? Come riconoscere coloro che sono ciechi o hanno travi nei loro occhi? Luca ci offre un criterio con il quale misurare: “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (rilettura letterale del versetto 45). Non è un invito a valutare in base alle opere concrete, ai fatti compiuti, bensì su quanto annunciano, su quanto esce dalla loro bocca: è il loro messaggio che può essere buono o cattivo. Come fare a distinguere? Confrontando quanto proclamano con l’Evangelo, è così che si capirà se quanto propongono è cibo nutriente o un frutto velenoso.
Cinque versetti prima Gesù aveva ricordato un proverbio (“il discepolo non è più del maestro”), invitando così a rimanere attenti a non scivolare nella presunzione di potersi sostituire all’unico “maestro” che i cristiani hanno: Gesù Cristo. Da qui l’avvertimento a non scambiare le proprie idee, i propri progetti con quelli del Signore, come nemmeno a giungere a giudicare, a pronunciare sentenze nei confronti di altri fratelli, a sentirsi sempre dalla parte giusta, sicuri di quello che si fa, si dice, si chiede. Queste posizioni come le passioni, l’invidia, la volontà di dominare sugli altri sono travi che impediscono di vedere la realtà, chiudono la possibilità di cogliere con chiarezza le esigenze della parola del Signore, le sue indicazioni, ostacolano l’essere suoi discepoli, di realizzare il suo modo di vivere e di agire. Tutte quelle posizioni assieme alle travi dell’orgoglio, dell’intolleranza, del dogmatismo, del fondamentalismo, finiscono per rendere le persone ciechi che pretendono di guidare altri ciechi, che giudicano autoassolvendosi di comportamenti più gravi di quelli che denunciano.
Quando ci si stacca dalla Scrittura, l’unico parametro certo che ci è dato, si finisce per mettere in gioco la capacità di discernere quel che accade. È quella l’albero buono che può dare solo frutti buoni al quale nutrirsi, luce per i nostri occhi e il nostro cammino (Ps 118,105). È il rimanere uniti al suo tronco, la nostra unica linfa vitale, che ci garantisce di non diventare ciechi con la presunzione di guidare gli altri, che ci assicura di poter vedere la trave conficcata nei nostri occhi chiedendoci di iniziare un cammino di conversione prima di chiedere al fratello di togliere dal suo occhio la pagliuzza e poterlo aiutare nel suo percorso di sempre maggiore fedeltà al Signore della vita. Questo senza erigersi a “maestri”, ma seguendo assieme l’unico Maestro in quella reciproca prassi che si chiama “correzione fraterna”.
In sintesi, in questi detti, queste iperboli di Gesù comuni nell’area medio-orientale, c’è l’avvertimento che la parola rivela il cuore dell’uomo, fa vedere ciò che in lui abita. Il parlare è una grande responsabilità, quello che pronunciamo non è più solo nostro ma appartiene anche a chi ha ascoltato. Può essere anche strumento di violenza, di menzogna, capacità di adulare fino a plagiare distorcendo la realtà. La buona qualità di una vita ecclesiale si manifesta anzitutto nella qualità della comunicazione. Dio, rivelandosi agli uomini con la parola e come Parola, ha svelato la sua volontà di incontrarci e di entrare in comunione con noi sul nostro stesso terreno. Comunicando nella nostra lingua ci insegna a parlare come Lui stesso si esprime ed agisce.
(BiGio)