Un dono che si trasforma in compito con una misura di paragone diversa, quella di una gloria che vince la morte
La Liturgia in queste domeniche ci ha condotto a comprendere quali sono i frutti della morte e risurrezione di Gesù, le condizioni per le quali si sviluppi nel cammino di sequela quel rapporto intimo tra noi e il Signore che ci lega a lui inscindibilmente, fino ad essere in lui una cosa sola con il Padre nel suo agire.
In questa V Domenica di Pasqua (e non “dopo” Pasqua!) si cambia il passo e la liturgia ci presenta ciò che Gesù ritiene la sintesi della sua vita che ci affida perché continuiamo a viverla come lui l’ha vissuta. Non è solo la trasmissione delle sue ultime volontà (siamo neri “discorsi d’addio”), non è una semplice eredità che ci consegna e nemmeno meramente ciò che lui ritiene essenziale. È un dono che chiede di tradursi in un compito che Gesù esprime con un imperativo “Amatevi!: ciascuno continui ad essere per l’altro ciò che io sono stato e sono per voi, il mio modo d’essere, di vivere, operare a favore di tutti ma proprio tutti”.
Giuda è appena uscito per andare ad accordarsi con i sommi sacerdoti su come arrestare il Maestro e Gesù se ne esce affermando che questo fatto lo “glorifica”. Per noi questo termine è sinonimo della fama che si ottiene quando si raggiunge una posizione prestigiosa ma, pochi giorni prima, Gesù aveva detto in cosa consiste la “sua” gloria: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo… Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,23-24). La gloria che lo attende è il momento in cui, dando la vita, rivelerà al mondo quanto è grande l’amore di Dio per l’uomo ed è un grido di vittoria perché il male, la violenza, non ha soffocato l’amore, non hanno impedito a Gesù di perseverare nell’amate tutti, nonostante tutto. È questa l’unica gloria che egli promette anche ai suoi discepoli.
Ora e altre due volte prima di incamminarsi verso il Getsemani (Gv 15,12 e Gv 15,17) insiste: “Amatevi gli uni gli altri” e ci affida questo invito consegnandoci (“vi do”) quello che chiama un “comandamento nuovo”.
L’inculturazione del kerigma ebraico-cristiano nella cultura greco/latina ci porta a pensare che un comando è una norma (una legge) che, se non viene seguita, porta a delle conseguenze negative, anche a penali o amministrative, mentre il suo rispetto è segno di buona integrazione sociale. Di qui l’immagine di Dio con un bilancino in mano che misura le nostre infedeltà e le nostre fedeltà. Chi rispetta i Comandamenti merita il Paradiso chi, invece, li trasgredisce gli spettano le pene dell’Inferno. Ma questa è una immagine deturpata di Dio, funzionale al controllo ed alla trasmissione del consenso sociale che ancora sopravvive nonostante l’annuncio incessante che Dio è misericordia grande nell’amore. Lieta notizia che per ultimo papa Francesco ha fatto risuonare come un costante leitmotiv lungo tutto il suo ministero.
Gesù afferma che quello che ci ha donato è un “comandamento nuovo” perché rispetto ad uno simile che si trova in Levitico 19,18 “Ama il prossimo tuo come te stesso” è la misura cambia. Non è quella che usiamo verso noi stessi, ma quella che egli ha avuto per noi, quella che ha lui ha definito come la sua “gloria”. Se può essere percorribile la strada “comandata” dal Levitico, appare decisamente più ostica quella dell’amare chiunque, anche chi secondo i nostri criteri umani non lo merita o non può ricambiare; tanto meno i propri nemici. Gesù invece ha amato tutti quelli che incontrava: i poveri, i malati, gli emarginati, i malvagi, i corrotti, i suoi stessi carnefici perché solo amandoli poteva farli uscire dalla loro infelice condizione.
È l’amore gratuito e immotivato di cui ha dato prova Dio quando si è scelto il suo popolo: “Il Signore – dice Mosè agli israeliti – si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli, siete infatti il più piccolo di tutti i popoli, ma perché il Signore vi ama” (Dt 7,7-8).
Gesù segue questa via e, lasciandoci il suo esempio, ci ha affidato la costruzione di una realtà basata su un amore come il suo che si pone in alternativa a tutte le società che anche oggi imperano e si basano sulla competizione, sulla meritocrazia, sul denaro, sul potere, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. È la “nuova alleanza” basata sull’osservanza di un unico, nuovo comandamento: l’amore al fratello, come quello di cui Gesù è stato capace e “se avrete amore gli uni per gli altri” “tutti sapranno che siete miei discepoli”.
I cristiani non sono uomini diversi dagli altri, non portano distintivi, non sventolano rosari o altri simboli religiosi; quello che li caratterizza è la logica dell’accoglienza, dell’attenzione al bisogno dell’altro, della ricerca di essere facitori di pace e portatori dell’amore gratuito quello di Gesù, quello del Padre. È questo che chi non crede dovrebbe vedere nei cristiani.
(BiGio)