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Per il momento da Venerdì 30 maggio 2025 questo Blog sarà implementato solo con notizie ecclesiali della Parrocchia.  I Post con la proposta...

Domenica XXVIII – Lc 17,11-19

Non solo lottare per entrare dalla porta stretta, ma anche capacità di accogliere un dono e di rendere grazie

 

Il centro del racconto sta alla fine: uno solo è tornato indietro a glorificare Dio e a ringraziare Gesù. È uno straniero, un samaritano che erano considerati dei miscredenti blasfemi, come quello che si era fermato a soccorrere l’uomo assalito dai briganti e lasciato mezzo morto ai margini della strada.

È uno guardato con disprezzo che rende testimonianza che Dio ha agito come è avvenuto dopo la liberazione degli ebrei dall’Egitto: tutte le potenti azioni di Dio trovano la loro pienezza solo quando Anna canta l’azione del loro Goel: “Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato, cavallo e cavaliere ha gettato nel mare ...! (Es. 15,1 ss). È da quel momento che gli israeliti non sono più servi del Faraone, ma del Signore: “Lodate servi del Signore il Signore, lodate il nome del Signore” (Ps 113).

È quel tornare del samaritano per lodare Dio e ringraziare Gesù quando per strada si è scoperto guarito, che porta a compimento l’opera del Signore. Solo quando è riconosciuta si può dire che ha raggiunto pienamente il suo obiettivo; se questo non avviene, è come se le mancasse qualcosa. 

Quello straniero non si è fermato al “miracolo” ricevuto, ma ha avuto la capacità di andare oltre; non ha guardato solo sé stesso, ma ha saputo alzare lo sguardo al di là della sua realtà riconoscendo in quanto accaduto l’opera di Dio. Quando questo avviene non si riesce a rimanere indifferenti, il canto sgorga dirompente come fa cantare il salmo 125: “Quando il Signore le nostre catene ruppe e infranse, fu come un sogno. Tutte le bocche esplosero in grida, inni fiorirono in tutte le gole!”.

 

Da notare che i dieci lebbrosi non chiedono di essere guariti, ma di avere “pietà di loro” e Gesù non dice loro che saranno sanati, ma di fare quanto prescriveva il Levitico che al capitolo 13 che norma rigidamente e dettagliatamente cosa fare in caso di lebbra, malattia all’epoca inguaribile: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. 

Tutti per strada si scoprono improvvisamente liberati dalle loro piaghe. Nove rimangono fedeli alla Legge e all’invito di Gesù, uno va oltre alla lettera della Scrittura e, disobbedendo, ne rimanda l'osservanza: c’è qualcosa di più urgente da fare. Gli altri corrono dai sacerdoti per certifichino la guarigione, poter così rientrare a godere delle relazioni sociali e riprendere una vita normale senza dover dipendere dall’incerta carità altrui.

Certo, si sono rivolti al “maestro” chiedendogli “pietà”, consapevoli che se lo avesse voluto, avrebbe potuto sanarli come accadde.

Ma questa non è “fede” perché quest’ultima non è il semplice tener per vero quanto è stato detto da Gesù. È un qualcosa che trasforma nel profondo e porta a saper riconoscere in quanto accade l’azione di Dio guardarsi e a guardare fuori di sé stessi, dal proprio piccolo interesse. 

La fede è “aderire” a Cristo, a unirsi e conformarsi al suo modo di operare. Questo è quello che lo scoprirsi guarito suscita al samaritano che, in quanto straniero ed eretico, non avrebbe dovuto avere gli strumenti nemmeno per iniziare questo percorso. Invece gli emarginati, gli esclusi, i poveri sembrano essere avvantaggiati perché non hanno nulla da perdere, nulla da difendere, nulla dietro cui trincerarsi in difesa di sé stessi, del proprio io.

È lo scoprire che la gloria di Dio non sta nel suo operare con “potenza”, nel fare miracoli, ma nel mostrare il suo volto che amore e tenerezza per l’umanità.

Ecco perché Gesù dice al samaritano che ha scoperto questo: “Alzati, va’, la tua fede ti ha salvato”.

La fede è un “alzarsi” e un “andare” verso quella pienezza di vita alla quale siamo stati chiamati al nostro venire al mondo. È questa la “salvezza” che ci viene donata e per la quale, se ce ne accorgeremo, saremo in grado esplodere in un canto di lode dando gloria a Dio.

 

Erano in dieci che vanno incontro a Gesù al suo entrare in un villaggio. Non è un numero a caso. Per gli ebrei il Minianè il numero minimo per poter pregare e rappresentare la comunità intera. Quindi quei 10 lebbrosi sono l’intera popolazione di quel paese che ha bisogno di essere purificata. Rappresentano tutti noi e tutta l’umanità colpita da malattie, dolore, peccato, fame, miserie, guerre violenze, emarginazioni, soprusi. Con il suo agire ha sfigurato la creazione; è la lebbra che ha inquinato i mari, i fiumi, i campi con pesticidi velenosi; ha provocato il cambiamento climatico che porta distruzioni, morte, siccità. 

Non è certo chiedendo a Dio di operare con la sua “potenza” nel fare miracoli di risanare la situazione, ma nell’andare ai “sacerdoti”, a chi detiene il potere di fare il possibile, pur a piccoli passi, per ridare equilibrio alla natura e al nostro vivere prima che sia troppo tardi. Sta a noi e a loro mostrare un volto di amore e tenerezza per l’umanità che significa dare corpo e interpretare quello del Padre misericordioso.

 

Gesù sta continuando il suo cammino verso Gerusalemme e, come all’inizio del tratto precedente, anche qui in questa nuova fase il tema è quello della salvezza. Se fino ad ora era stato illustrato che bisogna “lottare per entrare dalla porta stretta”, in questa nuova sezione l’accento va sulla capacità di accoglierla e di rendere grazie. Sono due facce della medesima medaglia; la prima chiede di sapersi mettere in gioco, la seconda di accorgersi che il Padre continua a cercarci e ci corre incontro come ha fatto con il figlio che se n’era andato quando si è messo sulla strada del ritorno. Basta che attiviamo in noi un granellino di senape.

 

(BiGio)

Verso Gerusalemme si realizza quanto aveva mandato a dire al Battista ...

Gesù sembra tenerli a distanza, sembra quasi che l’incontro non avvenga, non agisce, non dice una parola, semplicemente li allontana ...

Gesù sta percorrendo il suo viaggio verso Gerusalemme, durante il quale compie tutto ciò che è stato inviato a compiere, tutto ciò che lo rivela, agli occhi di chi lo attende, come il Messia: “Sei tu colui che deve venire? … Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti” (Mt 11,3-4). Gesù compie gesti, semina la Parola, incontra uomini e donne, bisognosi di guarigione, altri desiderosi di mettersi alla sua sequela, i loro cuori sono più o meno aperti a riconoscere in lui la presenza del Dio Salvatore.

In questo villaggio, in dieci “vanno incontro” a Gesù: sono lebbrosi, non hanno il diritto di avvicinarsi “ai sani”, stanno a distanza e invocano. La lebbra è incisa nel loro corpo e ben visibile agli occhi di tutti: sono impuri, scartati dalla società, emarginati. Ma anche da lontano, tenuti a distanza a causa della loro malattia, essi gridano il loro bisogno di essere guariti e la loro speranza risposta in Gesù. Il loro grido risuona come il grido dell’orante dei salmi: “Abbi pietà di me, Signore” (cf. Sal 31,10; 51,3), ma ha un destinatario ben preciso, invocato con un nome proprio: “Gesù, abbi pietà di noi!” (v. 13). Riconoscono in Gesù la potenza di Dio, sanno che è il Salvatore, pongono la loro fede nel suo Nome.

Ma Gesù sembra, a sua volta, tenerli a distanza, sembra quasi che l’incontro non avvenga, non agisce, non dice una parola, semplicemente li allontana: “Andate a presentarvi ai sacerdoti” (v. 14), coloro che esaminano la piaga e possono riconoscere e dichiarare la loro guarigione. Gesù in realtà non è indifferente alla loro richiesta, non li allontana da sé, ma chiede la pura fiducia sulla sua parola. Ed essi, tutti, fanno fiducia a questa parola e vanno, si rimettono in cammino. Èla fede in questa parola che causa la guarigione: Gesù non fa nessun gesto, rimanda ancora a loro, al loro avere fedeLa loro guarigione dipende dalla loro fede, una fede che è dono, anche per noi, ma che poi ha bisogno di essere coltivata, custodita, continuamente rinnovata attraverso l’ascolto della Parola.

Uno solo però, in questo cammino fatto sulla fiducia nella parola di Gesù, “torna indietro”Uno di loro si vede guarito: prende consapevolezza che quell’incontro, la sua fiducia, la sua richiesta di aiuto l’hanno guarito in profondità, riconosce l’azione di Dio nell’operare dell’uomo Gesù e sente di dover dire grazie, si sente salvato dalla gratuità dell’azione salvifica di Dio e sceglie di tornare.

Questa volta non più a distanza ma consapevole dell’avvenuta guarigione si getta ai piedi di Gesù e innalza un altro grido, un grido nuovo: la lode.

Tutti e dieci sono stati guariti, egli solo lascia che questa guarigione penetri più in profondità e lo trasformi nella sua umanità. Il samaritano, il lontano, l’eretico, il disprezzato è l’unico che fa di nuovo la strada per rinnovare l’incontro con Gesù e trasforma la sua preghiera da invocazione di pietà a innalzamento di lode. Riconoscendosi guarito e gratuitamente salvato non rimane più a distanza ma entra in una nuova e personalissima relazione con l’uomo Gesù che guardandolo l’ha salvato e gli ha dato la forza di ritrovare la sua posizione di essere umano.

(sr Elisa di Bose)

Il valore della laicità. Dal libro "Solo con l'altro" di Erio Castellucci

l concetto di laicità, oggi spesso al centro di polemiche, è in realtà uno degli ingredienti irrinunciabili di ogni autentica democrazia e la mantiene equidistante sia dalle tentazioni teocratiche, dove il potere religioso occupa lo spazio del potere civile, sia dalle tentazioni cesaropapiste, dove al contrario il potere civile occupa lo spazio del potere religioso.


Il cristianesimo offrì un contributo riconosciuto da molti come essenziale alla formazione dell’idea della laicità: «Al precetto evangelico del “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” si deve […] la primogenitura del fondamentale principio della laicità delle istituzioni». In effetti Gesù, contro le tendenze teocratiche del suo tempo – alcuni giudei identificavano il Regno di Dio con il regno degli uomini – distingueva i due ambiti di competenza e azione. Ma egli poteva farlo in quanto credeva in un Dio creatore del cielo e della terra, cioè in un Dio che ha dato una certa autonomia alle sue creature, le quali non sono la dilatazione di lui stesso ma una realtà diversa rispetto a lui, e libera nei suoi confronti (come dimostra il peccato: cfr. Gen 3), sebbene derivante da lui. È in questa «relativa autonomia delle realtà temporali», prospettata dalla Bibbia anche se poi spesso contraddetta nella prassi giudaico-cristiana, che si colloca il vero e proprio punto di aggancio dell’idea della laicità delle istituzioni civili.


È utile in primo luogo confrontare, come fanno molti, laicità e laicismo. Il laicismo, detto anche «laicità alla francese», è l’opinione secondo la quale la religione riguarda la sola sfera privata e spirituale, intesa come ciò che concerne direttamente l’anima, dove è legittimo che si esprima, rimanendo però fuori dalla sfera pubblica e concreta, evitando di entrare in dibattiti su argomenti riguardanti la scuola, il lavoro, la cultura, la società, la politica. I rappresentanti religiosi non avrebbero dunque diritto a intervenire su questioni di rilevanza sociale, specialmente quando, attraverso la risonanza dei mass media, le loro opinioni rischierebbero di influenzare la pubblica opinione; ma possono esprimersi solo sulle questioni private, interiori, spirituali. Le religioni devono «occuparsi di Dio», lasciando allo Stato di «occuparsi dell’uomo», sia nella sua vita personale che in quella sociale.


La laicità è invece l’opinione secondo la quale tutti i soggetti sociali presenti nel territorio di uno Stato hanno il diritto di esprimersi sui diversi argomenti, privati o pubblici.
 


L'intera pagina del libro di Erio Castellucci a questo link:

https://docs.google.com/document/d/1WHjctHh7zYt0EK43Mj-fp0ThpqFkcZdh/edit?usp=sharing&ouid=114460325361678368396&rtpof=true&sd=true


La finalità dei ministeri è sempre il bene della Chiesa

Si è svolta a Salerno la 72ª edizione dell’appuntamento promosso dal Cal. L’anno prossimo sarà a Chiavari. “Lo spirito più autentico dei ministeri che non è quello di appropriazione di un diritto, di un privilegio, non è un salire su un piedistallo, ma invece è uno scendere sempre di più per incarnare la presenza del Signore che sta in mezzo a noi per servirci”, ci dice il presidente del Centro di azione liturgica


“La visione stessa della Chiesa come mistero di comunione e una più avvertita considerazione della presenza e dell’azione dello Spirito Santo hanno contribuito a meglio porre in luce il ruolo del laicato nella Comunità ecclesiale. Si tratta, pertanto, di favorire nei fedeli laici una più chiara consapevolezza della loro vocazione, che si esprime in una pluralità di compiti e di servizi per l’edificazione dell’intero popolo cristiano. Nel trattare questi temi, occorre essere attenti a non fare confusione tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale, interpretando arbitrariamente il concetto di ‘supplenza’, ‘clericalizzando’ e rischiando così di creare di fatto una struttura ecclesiale di servizio parallela a quella fondata sul sacramento dell’Ordine”. È un passaggio del messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, che Papa Francescoha fatto giungere all’arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, mons. Claudio Maniago, presidente del Centro di azione liturgica (Cal), in occasione della 72ª Settimana liturgica nazionale che si è svolta a Salerno, dal 22 al 25 agosto, sul tema “Ministeri al servizio della di una Chiesa sinodale”. Con mons. Claudio Maniago facciamo un bilancio della Settimana.

L'intensa e interessante intervista a cura di Gigliola Alfaro a questo link:




Unicef Italia lancia la campagna “Cambiamo Aria” e il quiz “Misura il tuo impatto ambientale”

Quasi la metà dei bambini del mondo vive in uno dei 33 paesi classificati come “a rischio estremamente elevato” per le conseguenze dei cambiamenti climatici, che solo nel 2021 hanno rappresentato la prima preoccupazione ambientale per il 51,5% della popolazione di età superiore ai 14 anni


Secondo l’Unicef  il 99% della popolazione infantile mondiale è già stato esposto ad almeno uno shock climatico o ambientale e circa 1 miliardo di bambini – quasi la metà dei 2,2 miliardi di bambini del mondo – vive in uno dei 33 paesi classificati come “a rischio estremamente elevato” per le conseguenze dei cambiamenti climatici. Per questo Unicef Italia lancia la campagna “Cambiamo Aria: la crisi climatica è una crisi dei diritti delle bambine e dei bambini”, per sensibilizzare bambini, giovani e famiglie sui temi del cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale. Inoltre, è stato creato un quiz per misurare il proprio impatto ambientale, con una serie di accorgimenti per migliorare le proprie abitudini. Secondo i dati disponibili le emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti sono pari a 6,6 tonnellate pro-capite. In particolare, se ogni paese consumasse allo stesso livello dell’Italia, sarebbero necessari 2,8 Pianeti Terra. Per questo nell’ambito della Campagna sarà possibile partecipare ad un quiz per valutare se i nostri gesti quotidiani sono sostenibili.

Il quiz

Composto di 5 semplici domande su inquinamento, raccolta differenziata, risparmio energetico, risparmio di acqua e spreco alimentare, ha l’obiettivo di rendere le persone maggiormente consapevoli sul proprio impatto ambientale e propone una serie di consigli su come migliorare i propri comportamenti e adottare stili di vita più sostenibili. Ci si può “sfidare” in famiglia e con gli amici per migliorare il proprio impatto sull’ambiente.

«Le giovani generazioni sono le meno responsabili delle cause dei cambiamenti climatici e quelle che stanno pagando il prezzo più alto, con conseguenze pesantissime in termini di giustizia intergenerazionale e aumento delle diseguaglianze – ha dichiarato Carmela Pace, Presidente di Unicef Italia  – I più giovani hanno dimostrato maggiore sensibilità e attivismo su questo tema e tuttavia, sono quelle che hanno meno voce in capitolo nelle decisioni prese. Per questo l’UNICEF Italia lancia la Campagna Cambiamo ARIA: per sensibilizzare sul fatto che la crisi climatica è una crisi dei diritti dei bambini e delle bambine».

Bambini più esposti

Nel 2021 i cambiamenti climatici hanno rappresentato la prima preoccupazione ambientale per il 51,5% della popolazione di età superiore ai 14 anni. I bambini e gli adolescenti sono fisicamente più vulnerabili ai rischi dei cambiamenti climatici. Le diverse forme di inquinamento, causano maggiori danni ai bambini, rispetto agli adulti, anche a tassi minori di esposizione. Inoltre, qualsiasi deprivazione causata in giovane età dai cambiamenti climatici può causare perdita di opportunità per tutta la vita.

L’Unicef ritiene che sia primaria responsabilità dei Governi portare avanti politiche ambientali quali:

  • aumentare gli investimenti per l’adattamento climatico e la resilienza nei servizi chiave per i bambini
  • ridurre le emissioni di gas serra: per evitare i peggiori impatti della crisi climatica, è necessaria un’azione urgente
  • Includere i giovani in tutti i negoziati e le decisioni nazionali, regionali e internazionali sul clima

Per saperne di più

Misurailtuoimpatto.unicef.it


Con il via libera del governo una bella novità: la "Giustizia Riparativa"

È una legge nella quale troviamo parole quali «riparazione dell’offesa», «riconoscimento reciproco», «responsabilizzazione», «legami con la comunità». Sembra l’inveramento di un diritto finalmente fiduciario anziché impositivo, e cioè di un diritto che, anche nelle sue espressioni linguistiche, finalmente riesce a guardare oltre sé stesso.



La riforma della giustizia penale e civile, contenuta nei decreti legislativi emanati ieri dal Governo dopo l’approvazione nelle settimane scorse da parte delle Commissioni di Camera e Senato, include anche la giustizia riparativa, a completamento del lavoro svolto per molti mesi da una Commissione ad hoc presieduta da Adolfo Ceretti. Per la verità è da più di vent’anni che in Italia esiste già, la giustizia riparativa – intesa come modello di risoluzione dei conflitti diverso dalla pura e semplice celebrazione di un processo e dalla pura e semplice emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione.

È una legge bellissima. È una legge nella quale troviamo parole quali «riparazione dell’offesa», «riconoscimento reciproco», «responsabilizzazione», «legami con la comunità». Sembra l’inveramento di un diritto finalmente fiduciario anziché impositivo, e cioè di un diritto che, anche nelle sue espressioni linguistiche, finalmente riesce a guardare oltre sé stesso, verso un orizzonte più lontano, oltre i confini delle norme. Di un diritto che finalmente si ricorda che, dietro i propri elementi tecnici e formali, esistono vite incarnate, persone in carne e ossa: persone con le loro vite, le loro storie, i loro corpi, che desiderano altro che non essere solo sanzionate o minacciate, che chiedono anche di essere accolte, ascoltate, coinvolte.

Accade talmente di rado che sembra, anzi, perfino di più: quasi la materializzazione di un diritto che finalmente recupera la sua vera funzione, che dovrebbe essere quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva, di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze, piuttosto che pretendere solo obbedienza secondo una concezione puramente verticale e coercitiva dei rapporti.


L'intero articolo di Niccolò Nisivoccia a questo link:

https://ilmanifesto.it/con-il-via-libera-del-governo-una-bella-novita


"Siamo fumo": parola di Quhelet

Quando per caso mi sono imbattuto in un'ennesima traduzione del veterotestamentario e sapienziale Qohélet, confesso che ho provato un moto di fastidio; sarà come una nuova incisione delle Quattro stagioni di Vivaldi - mi sono detto - noiosa e del tutto inutile.Mi sono quindi deciso a dare un'occhiata al libro, non senza pregiudizi.

Ne sono rimasto folgorato. Il traduttore riesce a restituire un'inedita freschezza e eccitante sonorità e ritmo al testo.



Questo libro della Bibbia, esile e densissimo, è mio tormento da quando ero ragazzo: l'ho percorso in lungo e in largo nelle traduzioni più diverse, da quella settecentesca di Diodati a quella orribile "del Nuovo Mondo" in uso presso i geoviani, e giù fino al corrispettivo di quest'ultima, Erri de Luca, che a leggerla dopo quella di Ceronetti "fa l'effetto di un sushi dopo aver divorato una bella Fiorentina" come è stato giustamente notato.

Mi sono quindi deciso a dare un'occhiata al libro, non senza pregiudizi; si tratta di Qohélet, a cura di Piero Capelli, uscito nella collana di poesia di Ponte alle Grazie in prima edizione digitale il mese scorso. Ne sono rimasto folgorato. Il traduttore riesce a restituire un'inedita freschezza e eccitante sonorità e ritmo al testo. Con filologico puntiglio, ma senza appesantimenti eruditi, procede a un accurato restauro, eliminando i cascami della tradizione (apocrifi, aggiunte spurie, misinterpretazioni, ecc.) con mano sicura e appropriati argomenti a sostegno: “Al testo ebraico di Qohelet -scrive nella sua succinta nota- sono state aggiunte fin da epoca antica molte glosse, nel tentativo di spiegarne le espressioni più enigmatiche o di attenuare quelle più scettiche e agnostiche. Nella traduzione ho messo queste aggiunte fra parentesi uncinate < >, fuorché nel passo della ‘legge dei momenti’ (3,1-8), dove ai versetti 3,2.5.6 le ho direttamente espunte, perché spezzano il parallelismo degli emistichi e, quindi, che si tratti di aggiunte è un fatto e non un’ipotesi".

Quindi il famoso incipit della vanitas, vero "attacco musicale" dell'enigmatico Ecclesiaste diviene "Fumo, tutto fumo -dice Qohelet-: nient'altro che fumo". Un effetto a sorpresa per stupire e distinguersi? Tutt'altro, ecco la spiegazione che fornisce Capelli: “Hevel è il termine che apre e chiude il discorso di Qohelet, e che Gerolamo tradusse con vanitas. Fra i traduttori italiani recenti, Guido Ceronetti lo ha reso con ‘infinito vuoto’ o ‘infinito niente’, Erri De Luca con ‘spreco’, Piero Stefani con ‘soffio’, e ognuna di queste rese è in sé giustissima. Però la transitorietà dell’uomo e l’inconsistenza di tutto ciò che lo riguarda sono per Qohelet una condizione intrinseca e ineliminabile dell’esistenza, per indicare la quale non credo si possa ricorrere sempre a un solo medesimo termine italiano. Così ho tradotto con ‘fumo’ quando la connotazione predominante è quella dell’inconsistenza (per esempio a 11,8.10), con ‘soffio’ (che traggo da Stefani) quando è quella della transitorietà, e con ‘privo di senso’ o, apertamente, con ‘assurdo’ (...)”.

Ho dovuto ricredermi totalmente e quella che doveva essere un'occhiata si è trasformata in un'appassionata lettura del libro senza interruzioni, assaporando la poesia che questa versione gli conferisce. Pregio riservato agli specialisti ne è anche il testo originale che accompagna la traduzione.

 

Riporto qui di seguito l'inizio del primo capitolo:

 

Discorsi di Qohelet, figlio di David, re in Gerusalemme.

Fumo, tutto fumo – dice Qohelet –: nient’altro che fumo.

Che ci guadagna, l’uomo, da tutto il suo darsi da fare sotto il sole?

Una generazione va, un’altra viene, ma la terra è sempre la stessa:

il sole sorge e se ne va, e si affanna verso lo stesso posto dove sorge;

il vento va verso sud, gira verso nord, gira e rigira e va e torna a girare sui suoi giri;

i fiumi vanno tutti al mare, ma il mare non si riempie,

e i fiumi tornano ad andare verso il posto dove già vanno.

Ogni parola è una fatica, neanche si riesce a finire di dirla

(...) "

(Fabio Norcini)


Il Papa, in un evento passato sotto silenzio, ai giovani: «Cambiate l’economia che uccide con una nuova economia della vita»

I giovani possono «cambiare un sistema enorme e complesso come l’economia mondiale». Anche in questa «epoca non facile», segnata da crisi ambientale, pandemia e guerre in Ucraina e altrove. Nonostante «la nostra generazione» pur lasciando «in eredità molte ricchezze », non abbia saputo «custodire il pianeta» e non stia «custodendo la pace». I giovani sono chiamati a diventare «artigiani e costruttori della casa comune». A costruire una «nuova economia», ispirata a Francesco d’Assisi, che sia «amica della terra», ad edificare «un’economia di pace». 


L’obiettivo è trasformare «un’economia che uccide» in «un’economia della vita, in tutte le sue dimensioni». Papa Francesco è ad Assisi per la sesta volta. Una visita lampo, meno di tre ore, per chiudere l’evento Economia di Francesco, che ha chiamato nella città del Poverello mille giovani provenienti da tutto il mondo col sogno di cambiare il sistema economico mondiale.

Il discorso del Pontefice è potente. Francesco sottolinea il valore profetico dell’evento, che esprime «una visione nuova dell’ambiente e della terra». Infatti non basta «fare il maquillage », ma bisogna «mettere in discussione il modello di sviluppo ». Magari lavorando su un tema innovativo come l’«economia delle piante», per superare «il paradigma economico del Novecento » che ha «depredato le risorse naturali e la terra», abbandonare le «fonti fossili d’energia» e accelerare lo sviluppo di quelle «a impatto zero o positivo».

Francesco parla chiaro. Il discorso preparato è già lungo, ma lui lo arricchisce con numerosi interventi a braccio. E sono le parole più applaudite dai giovani.

Come quando attacca la «gassosità» della finanza, quando invita, con ironia, a guardare «la faccia», specchio di una società e di un’economia «tristi, pessimiste, ciniche», dei giovani che studiano «nelle università ultraspecializzate in economia liberale», quando elogia gli «eroi di oggi» che rifiutano di lavorare in industrie che fabbricano armi. Quando con un sorriso li esorta: «Se non avete niente da dire almeno fate chiasso!». O quando denuncia l’«inverno demografico» in cui si preferisce accudire cagnolini piuttosto che generare figli, o la «schiavitù» delle donne che vengono licenziate se rimangono incinte.


L'intero resoconto dell'intervento del Papa a cura di Gianni Cardinale a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202209/220926cardinale.pdf


Non così generosa. Il bluff della Cina sul debito africano

Il mese scorso l’annuncio trionfare del colpo di spugna delle banche cinesi su alcuni prestiti concessi alle economie del Continente. Una generosità parziale visto che lo sconto riguardava solo i finanziamenti infruttiferi, privi cioè di interessi. E così il debito tossico è rimasto al suo posto


A qualcuno potrebbe sembrare un bluff. Qualcosa non torna dietro il colpo di spugna sui prestiti delle banche cinesi ai governi africani, finiti nel giro di venti anni nella morsa mortale del debito verso Pechino a causa degli ormai famosi prestiti-trappola. Come raccontato da Formiche.net, lo scorso agosto alcuni istituti del Dragone hanno deciso di cancellare d’un colpo una ventina di finanziamenti concessi a 17 Stati africani, finiti a un passo dalla miseria dopo che, alle prime avvisaglie di insolvenza, Pechino ha cominciato ad azzannare asset e infrastrutture del Paese indebitato.

Sembra una specie di atto misericordioso verso del economie in via di sviluppo, dunque più fragili. La realtà è un’altra: è vero che la Cina ha depennato dalla lista dei debitori alcuni Paesi africani, ma lo stralcio ha riguardato i soli prestiti infruttiferi, quelli cioè senza interessi. La differenza è sostanziale, visto che quando si parla di finanziamenti a lungo termine e dell’ordine di miliardi, gli interessi sono stellari.

In altre parole, hanno raccontato diversi media finanziari africani, Pechino ha lasciato in essere i prestiti più sostanziosi, quelli che prevedono il pagamento degli interessi, oltre alle rate. Ed è proprio quello il cappio stretto intorno alle economie del Continente. Secondo la Banca mondiale, i Paesi più poveri del mondo, molti dei quali in Africa, devono saldare 35 miliardi di dollari di debiti nel 2022, di cui circa il 40% è dovuto proprio alla Cina.


L'intero articolo di Gianluca Zappolini a questo link: 

https://formiche.net/2022/09/cina-africa-prestiti-debito/


Il Foglietto "La Risurrezione" di Domenica 2 ottobre

 


Accadde questa Domenica ... il Battesimo di Giovanni

Domenica è stato celebrato il Battesimo di Giovanni

figlio di Marianna e Mattia. Presentandocelo hanno detto: "Come l’acqua anche un bambino dona vita nuova e amore in forme ogni giorno infinitamente diverse e, attraverso l’acqua del Battesimo, desideriamo che Giovanni possa crescere nella gioia del Signore, accompagnato da persone che non si vergognano di testimoniare con la propria vita l’amore di Cristo sulla terra. Ci auguriamo che questo Battesimo possa essere il primo di molti passi insieme a questa comunità della Resurrezione!” 




Alla Presentazione delle Offerte, i genitori hanno regalo una pianta alla Comunità:

"Questa pianta che ora portiamo in dono per la nostra chiesa della Cita per noi rappresenta proprio questa comunità. Noi siamo sicuri che Giovanni, come ognno di noi, possiamo essere acqua vera e viva che dona nutrimento per fare crescere e fiorire tutta la comunità!” 



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Cercavano un luogo senza trovarlo per poter ...

Cercavano un luogo dove poter celebrare la loro annuale più importante festa religiosa. Non lo trovavano finché non hanno bussato chiedendo aiuto alla nostra Parrocchia e hanno trovato accoglienza nella sala grande del Patronato anche perché la nostra Costituzione (art. 19) garantisce a tutte le minoranze religiose di poter celebrare i loro culti.



Il Bramino insiste: "La guerra si fermerà solo quando tutte le creature potranno vibrare della vita che Dio ha messo in loro". 

Con gioia abbiamo accolto nella nostra comunità la grande festa induista del Durga Purja e dopo la Messa la gente ha potuto continuare a pregare per la pace. Ma Takur insiste: "Non basta che siamo tutti per la pace. Dipende dal cuore custodire la nostra unione con la creazione, con gli alberi e gli animali. Se distruggiamo tutto la natura si ribellerà. Nessuno in città ci ha dato un luogo per celebrare la nostra festa che dura tre giorni e grazie a voi che ci avete aperto le porte della vostra comunità".


Il cielo in una stanza. Oggi Abbiamo visto, come azzarda con fantasia Gesù nel vangelo di oggi, gli alberi sradicarsi e volare a cercare una terra più feconda: è l'impossibile che la fede ti permette di intravvedere anche in questo tempo oscuro. Centinaia di fratelli e sorelle induiste ci hanno mostrato la fede di chi vede cambiamenti che sembravano impossibili. Sono loro la foresta di testimoni di un futuro possibile. E una stanza disadorna e vuota del patronato è diventata un angolo di cielo. Il Cielo in una stanza.


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La festa celebra la dea Durga e comprende anche il culto di Shiva, che è suo marito, oltre che quello di LakshmiSaraswatiGanesha e Kartikeya, considerati suoi figli.


Presso la religione induistaDurgā o Durga (lett. dal sanscrito "colei che difficilmente si può avvicinare") è una forma di Devi, ovvero della Madre Divina (che assume anche molte altre forme, tra cui SarasvatiParvatiLakshmiKālī).[1]È raffigurata come una donna che cavalca un leone, sebbene più raramente la si trovi raffigurata anche su una tigre, con numerose braccia le cui mani impugnano diversi tipi di armi e fanno dei mudrā (gesti simbolici eseguiti con la mano). Questa forma della Dea è l'incarnazione dell'energia creativa femminile (Shakti). Di carattere ambivalente, ha in sé entrambi i poteri di creazione e distruzione.


Secondo il racconto del Devi Mahatmyam del Mārkaṇḍeya Purāṇa, la forma di Durga o dea Shamila, dea della seduzione e portatrice di pace, fu creata come dea guerriera per combattere e distruggere il demone Mahishasura. Grazie ad intense preghiere a Brahmā, Mahishasura ebbe la grazia di non poter essere sconfitto da alcun uomo o essere celeste. In virtù di questo potere, attaccò i Deva che andarono in aiuto della Trimurti (BrahmāVisnù e Śiva), ma Mahishasur sconfisse tutti gli dèi compresa la triade stessa. 


La sua forma è di una bellezza accecante, con il viso scolpito da Śiva, il busto da Indra, il seno da Chandra (la Luna), i denti da Brahma, le natiche dalla Terra, le cosce e le ginocchia da Varuṇa (il vento), e i suoi tre occhi da Agni (il fuoco), il corpo dorato e dieci braccia. Ogni dio le diede anche la sua arma più potente: Śiva il tridente, Viṣṇu il disco, Indra la vajra, dalla quale scaturisce la folgore, ecc.

Domenica XXVII PA – Lc 17,5-10

Alla domanda dei discepoli di "accrescere la loro fede". La risposta di Gesù lascia forse trasparire un qualche fastidio, quasi un'alzata di spalle. L'importante non è la quantità, ma la qualità.


Luca è molto attento a cercare di indirizzare la sua comunità (e noi) sui sentieri della sequela e della misericordia. Lo preoccupa la quotidianità del vivere cristiano, la capacità di essere perseveranti nonostante le difficoltà, le preoccupazioni quotidiane, le ricchezze, i piaceri della vita. Non che ultime due siano un male per sé stesse: la condanna del ricco epulone nell’Evangelo di domenica scorsa, non avviene a causa di queste bensì dell’essere esclusivamente incentrato sulla sua realtà, senza alzare lo sguardo su quanto lo circonda e così non accorgendosi di Lazzaro, di chi ha bisogno di aiuto, non solo economico.

Già nel cap. 9,23-27 aveva posto l’attenzione sulla necessità per il credente, se desidera realmente porsi alla sequela del Signore, di prendere la propria croce ogni giorno e, in quell’occasione, Gesù indica: “Chi vuole salvare la sua anima la perderà; ma chi avrà perduto la sua anima a causa mia, questi la salverà”. In Cristo non si perde l’anima, la si trova, perché egli è la vita, ma la mondanità caratterizzata dalla ricchezza, dal potere, dal sesso tolgono la vita quando se ne diventa schiavi.

Per questo invita ad avere perseveranza, pazienza e quella fede che è potenza di vita se vissuta alla sequela e in comunione con il Cristo. Per questo, oggi, gli apostoli gli chiedono: “Accresci la nostra fede!”; comprendono che da soli non ce la si può fare.

La risposta di Gesù sconcerta nei suoi paradossi: una fede grande come il più piccolo dei semi potrebbe ordinare a un gelso di sradicarsi e di andare a trapiantarsi nel mare che, oltre a tutto, è salato e quindi non adatto alla vita di nessun vegetale arboreo. Ma quello che il Signore vuole dirci è che non è importante la quantità bensì la qualità della fede di ciascuno di noi e prosegue con una parabola urticante: quella del servo che, dopo aver svolto tutti i suoi doveri e quanto gli è stato chiesto e ordinato, è dichiarato “inutile” nel senso che non è indispensabile.

Certo, nessuno si attende che il padrone esprima gratitudine rovesciando l’ordine sociale; però è da notare che, all’interno della parabola, lo schiavo non viene definito “inutile”. È nel commento che Gesù, rivolgendosi ai discepoli, conclude: “Quando avete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: schiavi inutili siamo, ciò che dovevamo fare, l’abbiamo fatto”. 

Sicuramente per Dio non siamo certamente inutili se va in cerca della piccola dramma (che siamo noi) persa per sbadataggine in una fessura del pavimento e non si da pace fintantoché non la trova. Potrebbe benissimo non considerarci tanto siamo piccoli difronte a lui; invece ci ama senza pretendere alcun ricambio: la sua logica rifugge dal campo dell’utile e dello scambio di qualsiasi tipo. Con l’invito ad essere “umili” Gesù ci invita ad essere motivati solo dalla gratitudine per l’amore con il quale lui, nonostante tutto, ci viene sempre incontro.

Ci ha anche detto che, nell’era messianica, avverrà un rovesciamento delle convenzioni sociali e lui stesso si cingerà per servirci. Se ci pensiamo bene, è quello che ha già fatto nella sua vita con il suo insegnamento e la sua croce fiorita nella risurrezione, che è sì del Padre ad una vita vissuta in quel modo, che ci invita a far nostra.

 

Negli Evangeli proclamati in queste ultime domeniche, Luca ci ha delineato un piccolo compendio di vita comune per la Chiesa chiamata ad annunciare il Cristo fra la sua Pasqua e il suo ritorno nella gloria. Due elementi la caratterizzano: la fede e l’obbedienza.

La fede, il credere, non ha nulla a che vedere con la pratica religiosa; è invece l’innamorarsi dell’altro che non è un moto irrazionale ma chiede ragionevolezza (non razionalità): È quello scegliersi che sperimentiamo verso il compagno o la compagna della vita ponendo la nostra fiducia (fede) nell’altro, è un “credere” nell’altro che non è creduloneria ma consapevolezza dell’amore ricevuto senza alcun merito, a prescindere da quello che siamo noi. È l’affidarsi completamente all’altro; il non farlo significa quell’avere poca “fede” che i discepoli riconoscono in loro.

Per quanto “piccola” è chiamata comunque a rendersi concreta nella capacità di perdono e nella correzione fraterna (peccato che la liturgia incomprensibilmente non ci faccia proclamare i primi 5 versetti di questo capitolo che propongono proprio questo). 

L’obbedienza, poi, non può accontentarsi di rispettare tutti i precetti di Mosè, perché non si tratta solo di rispettare la volontà del Padre, ma di inserirsi in questa che è misericordia per opposizione a ciò che crea ingiustizia. 

La vita di una comunità credente è allora chiamata ad esprimere una fede-obbedienza capace di perdonare senza limiti perché questa è la giustizia di Dio; una misericordia tutt’altro che bonacciona perché lascia aperta la possibilità di finire nello Sheol: per chi crea scandalo “È preferibile per lui che gli sia legata una macina da mulino al collo e venga gettato nel mare”.

 

In una realtà dove tutti si sentono più uomini quando possono comandare sugli altri fino a fagocitarli come l’ultimo film di Guadagnino (“Bones and All”) delinea bene, la fede crea un mondo nuovo dove si compete non per dominare ma per servire i bisogni degli altri. Se questo non accade è perché c’è poca fede.

Gesù ha iniziato un mondo nuovo nel quale l’umanità ha preso coscienza della sua natura divina perché Dio non è padrone, è servo e questa sua natura l’ha comunicata a noi: si diventa più servi quanto più si crede. È questa la figliolanza divina che ci è stata donata

 

(BiGio)

È davvero di fede che i discepoli hanno bisogno?

Capita spesso anche a noi di sentirci a corto di fede. Ci riesce più facile volgere la questione in un insieme di buoni propositi, in generica benevolenza, in un sistema di valori ‘cristiani’, ma è raro che reggano il confronto con la realtà. Una visione cristiana è certo buona cosa, ma non è la fede di cui i discepoli sentono il bisogno. Ebbene?


A volte c’è in noi una resistenza che ci tiene ad un passo dalla ‘fede vera’. il processo formativo della coscienza in questi ultimi secoli si basa sul principio dell’autonomia critica. La rappresentazione della realtà fa capo al soggetto che in essa definisce e persegue i propri obiettivi, quindi le responsabilità e la libertà. La ragione è il mezzo principale di questa ricerca, senza contare il ruolo degli istinti che verrà indagato più avanti con la psicologia.
Nasce nella cultura europea l’uomo ‘libero’, autodiretto (non senza sacrifici umani). Quel che è vero, quel che è bene e rende felici passa per la coscienza soggettiva. Non è cosa scontata, non sempre non dovunque, lo sappiamo.
Si tratta di un processo storicamente dato: la conquista moderna dell’autocoscienza si è avvalsa di strumenti culturali nuovi, il razionalismo è il principale. Questo sembra ora fare difficoltà alla fede. In un voluminoso lavoro di Storia della Chiesa, due tomi, c’è un lungo capitolo che si intitola: I secoli nemici della fede, dall’illuminismo ad oggi. Ma sarà?
Ciò detto dell’autocoscienza moderna di cui siamo fatti, per cercare di risolvere le nostre resistenze va ricordato che l’uomo, in natura, è in cerca del proprio bene e crede a quel che vede o sente o legge (quando sa leggere), per esperienza. Ma è possibile credere se si è assolutamente e interiormente liberi. Può sembrare strano che i discepoli gli chiedano di accrescere la loro fede: gli stanno accanto! La richiesta avrebbe senso più per noi che veniamo secoli dopo. Ma se pensiamo che quello che gli stanno chiedendo in verità è di amare a quel modo e di servire il prossimo con quella umiltà ci siamo dentro tutti, loro e noi.
 
Per chiudere il discorso sulla moderna difficoltà a credere, il razionalismo che abbiamo usato per comprendere il mondo e il nostro ruolo in esso va dismesso quando si ‘ragiona’ del bene e della felicità personale, perché questo sapere viene dal desiderio e dall’esperienza. La libertà nel credere implica un’umiltà specifica per tacitare la pretesa intellettualistica che vorrebbe ridurre il credibile al razionalizzabile, tutta la realtà ai fenomeni con cui si presenta, ignorando l’essere. I cinque sensi non sono sufficienti, ce ne sono altri. "Una buca non può contenere il mare", fece notare Sant'Agostino al bimbo che correva avanti e indietro col secchiello. "Come la tua mente non può contenere Dio", gli rispose il bambino prima di scomparire.
Gesù non forza la coscienza. “Se vuoi”. “Vieni e vedrai”. Valore ripreso dalla morale cattolica, passando per san Tommaso. Non i sensi di colpa, non la ricerca di sicurezza, non il dovere, ma la libertà è necessaria per scegliere qual è la felicità, qual è il bene. E quale se non l’essere amato di un amore assolutamente libero, che non chiede niente in cambio, nemmeno di essere riconosciuto o apprezzato, nonché ricambiato?
Tu puoi andar per la tua strada senza saperne nulla, nell’indifferenza; ma se appena appena te ne accorgi e hai il coraggio di guardarlo in viso, basta poco: un granello di senape, ti innamori così tanto da riamarlo del suo stesso amore e sei uno con lui. Così dicono i mistici. Dante prova a dirlo in quel verso stupendo "Amor che a nullo amato amar perdona". È un ‘peccato’, nel senso di perdita, se ci fermiamo prima, ma non una condanna. C’è stata una santa in Firenze a fine ‘500 che avendo conosciuto l’amore di Cristo, la si vedeva uscir di chiesa e urlare per la via: “L’amore non è amato, l’amore non è amato”. Di nome faceva Maria Maddalena, di cognome de’ Pazzi. Ci sta.
 
(Valerio Febei e Rita)