È davvero di fede che i discepoli hanno bisogno?

Capita spesso anche a noi di sentirci a corto di fede. Ci riesce più facile volgere la questione in un insieme di buoni propositi, in generica benevolenza, in un sistema di valori ‘cristiani’, ma è raro che reggano il confronto con la realtà. Una visione cristiana è certo buona cosa, ma non è la fede di cui i discepoli sentono il bisogno. Ebbene?


A volte c’è in noi una resistenza che ci tiene ad un passo dalla ‘fede vera’. il processo formativo della coscienza in questi ultimi secoli si basa sul principio dell’autonomia critica. La rappresentazione della realtà fa capo al soggetto che in essa definisce e persegue i propri obiettivi, quindi le responsabilità e la libertà. La ragione è il mezzo principale di questa ricerca, senza contare il ruolo degli istinti che verrà indagato più avanti con la psicologia.
Nasce nella cultura europea l’uomo ‘libero’, autodiretto (non senza sacrifici umani). Quel che è vero, quel che è bene e rende felici passa per la coscienza soggettiva. Non è cosa scontata, non sempre non dovunque, lo sappiamo.
Si tratta di un processo storicamente dato: la conquista moderna dell’autocoscienza si è avvalsa di strumenti culturali nuovi, il razionalismo è il principale. Questo sembra ora fare difficoltà alla fede. In un voluminoso lavoro di Storia della Chiesa, due tomi, c’è un lungo capitolo che si intitola: I secoli nemici della fede, dall’illuminismo ad oggi. Ma sarà?
Ciò detto dell’autocoscienza moderna di cui siamo fatti, per cercare di risolvere le nostre resistenze va ricordato che l’uomo, in natura, è in cerca del proprio bene e crede a quel che vede o sente o legge (quando sa leggere), per esperienza. Ma è possibile credere se si è assolutamente e interiormente liberi. Può sembrare strano che i discepoli gli chiedano di accrescere la loro fede: gli stanno accanto! La richiesta avrebbe senso più per noi che veniamo secoli dopo. Ma se pensiamo che quello che gli stanno chiedendo in verità è di amare a quel modo e di servire il prossimo con quella umiltà ci siamo dentro tutti, loro e noi.
 
Per chiudere il discorso sulla moderna difficoltà a credere, il razionalismo che abbiamo usato per comprendere il mondo e il nostro ruolo in esso va dismesso quando si ‘ragiona’ del bene e della felicità personale, perché questo sapere viene dal desiderio e dall’esperienza. La libertà nel credere implica un’umiltà specifica per tacitare la pretesa intellettualistica che vorrebbe ridurre il credibile al razionalizzabile, tutta la realtà ai fenomeni con cui si presenta, ignorando l’essere. I cinque sensi non sono sufficienti, ce ne sono altri. "Una buca non può contenere il mare", fece notare Sant'Agostino al bimbo che correva avanti e indietro col secchiello. "Come la tua mente non può contenere Dio", gli rispose il bambino prima di scomparire.
Gesù non forza la coscienza. “Se vuoi”. “Vieni e vedrai”. Valore ripreso dalla morale cattolica, passando per san Tommaso. Non i sensi di colpa, non la ricerca di sicurezza, non il dovere, ma la libertà è necessaria per scegliere qual è la felicità, qual è il bene. E quale se non l’essere amato di un amore assolutamente libero, che non chiede niente in cambio, nemmeno di essere riconosciuto o apprezzato, nonché ricambiato?
Tu puoi andar per la tua strada senza saperne nulla, nell’indifferenza; ma se appena appena te ne accorgi e hai il coraggio di guardarlo in viso, basta poco: un granello di senape, ti innamori così tanto da riamarlo del suo stesso amore e sei uno con lui. Così dicono i mistici. Dante prova a dirlo in quel verso stupendo "Amor che a nullo amato amar perdona". È un ‘peccato’, nel senso di perdita, se ci fermiamo prima, ma non una condanna. C’è stata una santa in Firenze a fine ‘500 che avendo conosciuto l’amore di Cristo, la si vedeva uscir di chiesa e urlare per la via: “L’amore non è amato, l’amore non è amato”. Di nome faceva Maria Maddalena, di cognome de’ Pazzi. Ci sta.
 
(Valerio Febei e Rita)

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