Domenica XXVIII – Lc 17,11-19

Non solo lottare per entrare dalla porta stretta, ma anche capacità di accogliere un dono e di rendere grazie

 

Il centro del racconto sta alla fine: uno solo è tornato indietro a glorificare Dio e a ringraziare Gesù. È uno straniero, un samaritano che erano considerati dei miscredenti blasfemi, come quello che si era fermato a soccorrere l’uomo assalito dai briganti e lasciato mezzo morto ai margini della strada.

È uno guardato con disprezzo che rende testimonianza che Dio ha agito come è avvenuto dopo la liberazione degli ebrei dall’Egitto: tutte le potenti azioni di Dio trovano la loro pienezza solo quando Anna canta l’azione del loro Goel: “Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trionfato, cavallo e cavaliere ha gettato nel mare ...! (Es. 15,1 ss). È da quel momento che gli israeliti non sono più servi del Faraone, ma del Signore: “Lodate servi del Signore il Signore, lodate il nome del Signore” (Ps 113).

È quel tornare del samaritano per lodare Dio e ringraziare Gesù quando per strada si è scoperto guarito, che porta a compimento l’opera del Signore. Solo quando è riconosciuta si può dire che ha raggiunto pienamente il suo obiettivo; se questo non avviene, è come se le mancasse qualcosa. 

Quello straniero non si è fermato al “miracolo” ricevuto, ma ha avuto la capacità di andare oltre; non ha guardato solo sé stesso, ma ha saputo alzare lo sguardo al di là della sua realtà riconoscendo in quanto accaduto l’opera di Dio. Quando questo avviene non si riesce a rimanere indifferenti, il canto sgorga dirompente come fa cantare il salmo 125: “Quando il Signore le nostre catene ruppe e infranse, fu come un sogno. Tutte le bocche esplosero in grida, inni fiorirono in tutte le gole!”.

 

Da notare che i dieci lebbrosi non chiedono di essere guariti, ma di avere “pietà di loro” e Gesù non dice loro che saranno sanati, ma di fare quanto prescriveva il Levitico che al capitolo 13 che norma rigidamente e dettagliatamente cosa fare in caso di lebbra, malattia all’epoca inguaribile: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. 

Tutti per strada si scoprono improvvisamente liberati dalle loro piaghe. Nove rimangono fedeli alla Legge e all’invito di Gesù, uno va oltre alla lettera della Scrittura e, disobbedendo, ne rimanda l'osservanza: c’è qualcosa di più urgente da fare. Gli altri corrono dai sacerdoti per certifichino la guarigione, poter così rientrare a godere delle relazioni sociali e riprendere una vita normale senza dover dipendere dall’incerta carità altrui.

Certo, si sono rivolti al “maestro” chiedendogli “pietà”, consapevoli che se lo avesse voluto, avrebbe potuto sanarli come accadde.

Ma questa non è “fede” perché quest’ultima non è il semplice tener per vero quanto è stato detto da Gesù. È un qualcosa che trasforma nel profondo e porta a saper riconoscere in quanto accade l’azione di Dio guardarsi e a guardare fuori di sé stessi, dal proprio piccolo interesse. 

La fede è “aderire” a Cristo, a unirsi e conformarsi al suo modo di operare. Questo è quello che lo scoprirsi guarito suscita al samaritano che, in quanto straniero ed eretico, non avrebbe dovuto avere gli strumenti nemmeno per iniziare questo percorso. Invece gli emarginati, gli esclusi, i poveri sembrano essere avvantaggiati perché non hanno nulla da perdere, nulla da difendere, nulla dietro cui trincerarsi in difesa di sé stessi, del proprio io.

È lo scoprire che la gloria di Dio non sta nel suo operare con “potenza”, nel fare miracoli, ma nel mostrare il suo volto che amore e tenerezza per l’umanità.

Ecco perché Gesù dice al samaritano che ha scoperto questo: “Alzati, va’, la tua fede ti ha salvato”.

La fede è un “alzarsi” e un “andare” verso quella pienezza di vita alla quale siamo stati chiamati al nostro venire al mondo. È questa la “salvezza” che ci viene donata e per la quale, se ce ne accorgeremo, saremo in grado esplodere in un canto di lode dando gloria a Dio.

 

Erano in dieci che vanno incontro a Gesù al suo entrare in un villaggio. Non è un numero a caso. Per gli ebrei il Minianè il numero minimo per poter pregare e rappresentare la comunità intera. Quindi quei 10 lebbrosi sono l’intera popolazione di quel paese che ha bisogno di essere purificata. Rappresentano tutti noi e tutta l’umanità colpita da malattie, dolore, peccato, fame, miserie, guerre violenze, emarginazioni, soprusi. Con il suo agire ha sfigurato la creazione; è la lebbra che ha inquinato i mari, i fiumi, i campi con pesticidi velenosi; ha provocato il cambiamento climatico che porta distruzioni, morte, siccità. 

Non è certo chiedendo a Dio di operare con la sua “potenza” nel fare miracoli di risanare la situazione, ma nell’andare ai “sacerdoti”, a chi detiene il potere di fare il possibile, pur a piccoli passi, per ridare equilibrio alla natura e al nostro vivere prima che sia troppo tardi. Sta a noi e a loro mostrare un volto di amore e tenerezza per l’umanità che significa dare corpo e interpretare quello del Padre misericordioso.

 

Gesù sta continuando il suo cammino verso Gerusalemme e, come all’inizio del tratto precedente, anche qui in questa nuova fase il tema è quello della salvezza. Se fino ad ora era stato illustrato che bisogna “lottare per entrare dalla porta stretta”, in questa nuova sezione l’accento va sulla capacità di accoglierla e di rendere grazie. Sono due facce della medesima medaglia; la prima chiede di sapersi mettere in gioco, la seconda di accorgersi che il Padre continua a cercarci e ci corre incontro come ha fatto con il figlio che se n’era andato quando si è messo sulla strada del ritorno. Basta che attiviamo in noi un granellino di senape.

 

(BiGio)

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