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Domenica XXVII PA – Lc 17,5-10

Alla domanda dei discepoli di "accrescere la loro fede". La risposta di Gesù lascia forse trasparire un qualche fastidio, quasi un'alzata di spalle. L'importante non è la quantità, ma la qualità.


Luca è molto attento a cercare di indirizzare la sua comunità (e noi) sui sentieri della sequela e della misericordia. Lo preoccupa la quotidianità del vivere cristiano, la capacità di essere perseveranti nonostante le difficoltà, le preoccupazioni quotidiane, le ricchezze, i piaceri della vita. Non che ultime due siano un male per sé stesse: la condanna del ricco epulone nell’Evangelo di domenica scorsa, non avviene a causa di queste bensì dell’essere esclusivamente incentrato sulla sua realtà, senza alzare lo sguardo su quanto lo circonda e così non accorgendosi di Lazzaro, di chi ha bisogno di aiuto, non solo economico.

Già nel cap. 9,23-27 aveva posto l’attenzione sulla necessità per il credente, se desidera realmente porsi alla sequela del Signore, di prendere la propria croce ogni giorno e, in quell’occasione, Gesù indica: “Chi vuole salvare la sua anima la perderà; ma chi avrà perduto la sua anima a causa mia, questi la salverà”. In Cristo non si perde l’anima, la si trova, perché egli è la vita, ma la mondanità caratterizzata dalla ricchezza, dal potere, dal sesso tolgono la vita quando se ne diventa schiavi.

Per questo invita ad avere perseveranza, pazienza e quella fede che è potenza di vita se vissuta alla sequela e in comunione con il Cristo. Per questo, oggi, gli apostoli gli chiedono: “Accresci la nostra fede!”; comprendono che da soli non ce la si può fare.

La risposta di Gesù sconcerta nei suoi paradossi: una fede grande come il più piccolo dei semi potrebbe ordinare a un gelso di sradicarsi e di andare a trapiantarsi nel mare che, oltre a tutto, è salato e quindi non adatto alla vita di nessun vegetale arboreo. Ma quello che il Signore vuole dirci è che non è importante la quantità bensì la qualità della fede di ciascuno di noi e prosegue con una parabola urticante: quella del servo che, dopo aver svolto tutti i suoi doveri e quanto gli è stato chiesto e ordinato, è dichiarato “inutile” nel senso che non è indispensabile.

Certo, nessuno si attende che il padrone esprima gratitudine rovesciando l’ordine sociale; però è da notare che, all’interno della parabola, lo schiavo non viene definito “inutile”. È nel commento che Gesù, rivolgendosi ai discepoli, conclude: “Quando avete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: schiavi inutili siamo, ciò che dovevamo fare, l’abbiamo fatto”. 

Sicuramente per Dio non siamo certamente inutili se va in cerca della piccola dramma (che siamo noi) persa per sbadataggine in una fessura del pavimento e non si da pace fintantoché non la trova. Potrebbe benissimo non considerarci tanto siamo piccoli difronte a lui; invece ci ama senza pretendere alcun ricambio: la sua logica rifugge dal campo dell’utile e dello scambio di qualsiasi tipo. Con l’invito ad essere “umili” Gesù ci invita ad essere motivati solo dalla gratitudine per l’amore con il quale lui, nonostante tutto, ci viene sempre incontro.

Ci ha anche detto che, nell’era messianica, avverrà un rovesciamento delle convenzioni sociali e lui stesso si cingerà per servirci. Se ci pensiamo bene, è quello che ha già fatto nella sua vita con il suo insegnamento e la sua croce fiorita nella risurrezione, che è sì del Padre ad una vita vissuta in quel modo, che ci invita a far nostra.

 

Negli Evangeli proclamati in queste ultime domeniche, Luca ci ha delineato un piccolo compendio di vita comune per la Chiesa chiamata ad annunciare il Cristo fra la sua Pasqua e il suo ritorno nella gloria. Due elementi la caratterizzano: la fede e l’obbedienza.

La fede, il credere, non ha nulla a che vedere con la pratica religiosa; è invece l’innamorarsi dell’altro che non è un moto irrazionale ma chiede ragionevolezza (non razionalità): È quello scegliersi che sperimentiamo verso il compagno o la compagna della vita ponendo la nostra fiducia (fede) nell’altro, è un “credere” nell’altro che non è creduloneria ma consapevolezza dell’amore ricevuto senza alcun merito, a prescindere da quello che siamo noi. È l’affidarsi completamente all’altro; il non farlo significa quell’avere poca “fede” che i discepoli riconoscono in loro.

Per quanto “piccola” è chiamata comunque a rendersi concreta nella capacità di perdono e nella correzione fraterna (peccato che la liturgia incomprensibilmente non ci faccia proclamare i primi 5 versetti di questo capitolo che propongono proprio questo). 

L’obbedienza, poi, non può accontentarsi di rispettare tutti i precetti di Mosè, perché non si tratta solo di rispettare la volontà del Padre, ma di inserirsi in questa che è misericordia per opposizione a ciò che crea ingiustizia. 

La vita di una comunità credente è allora chiamata ad esprimere una fede-obbedienza capace di perdonare senza limiti perché questa è la giustizia di Dio; una misericordia tutt’altro che bonacciona perché lascia aperta la possibilità di finire nello Sheol: per chi crea scandalo “È preferibile per lui che gli sia legata una macina da mulino al collo e venga gettato nel mare”.

 

In una realtà dove tutti si sentono più uomini quando possono comandare sugli altri fino a fagocitarli come l’ultimo film di Guadagnino (“Bones and All”) delinea bene, la fede crea un mondo nuovo dove si compete non per dominare ma per servire i bisogni degli altri. Se questo non accade è perché c’è poca fede.

Gesù ha iniziato un mondo nuovo nel quale l’umanità ha preso coscienza della sua natura divina perché Dio non è padrone, è servo e questa sua natura l’ha comunicata a noi: si diventa più servi quanto più si crede. È questa la figliolanza divina che ci è stata donata

 

(BiGio)

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