L’Eucaristia della notte di Natale celebra il Cristo risorto e veniente nella gloria facendo memoria della sua nascita nella carne. Se nella notte pasquale cantiamo che “Cristo è veramente risorto!”, in questa notte cantiamo che il Risorto è veramente venuto nella carne umana condividendo il cammino di ogni uomo.
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Per il momento da Venerdì 30 maggio 2025 questo Blog sarà implementato solo con notizie ecclesiali della Parrocchia. I Post con la proposta...
L’Eucaristia della notte di Natale celebra il Cristo risorto nella memoria della sua nascita. Non solo la nascita…
Bariona o il figlio del tuono- Racconto di Natale per cristiani e non credenti di Jean-Paul Sartre
Tre brani tratti da Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti. Uno stralcio dal prologo e due dal quinto quadro, scena terza.
Gli stralci sono a questo link:
https://bibliotecalesca.wordpress.com/wp-content/uploads/2012/12/27_-sartre.pdf
Alberto Maggi: "Il Natale non è una favola mielosa"
Tanto scarno e asciutto è quel che scrivono i vangeli riguardo al Natale, quanto mielosa è diventata la maniera di presentarlo e di viverlo. La nascita di Gesù è infatti come impiastricciata in una melassa dolciastra, che rischia di impantanare la verità evangelica in una bella favola che va a toccare le corde dei sentimenti, ma che poco o nulla incide nella vita del credente.
L'intera riflessione di Alberto Maggi è a questo link:
Lettera di Natale 2024: "Alziamo lo sguardo"
È tempo di "risollevarci". Il card. Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, ha, infatti, così invitato il mondo occidentale: «Aiutateci ad alzare lo sguardo, perché non lo state facendo. State imitando quello che stiamo facendo noi, anche voi vi dividete e urlate parole di odio».
Per dar voce a questa speranza, vogliamo innanzitutto aiutarci reciprocamente a “risollevarci”: lo scatto dipende certo da noi, dalla nostra volontà, ma vi può contribuire l’aiuto di chi ci sta vicino e che ci può (ri)motivare o dare una mano. Perché – come affermava don Primo Mazzolari – «la speranza vede quello che ancora non c’è: gli occhi della carne vedono il seme che marcisce, la speranza vede già la spiga».
Risollevarci, dunque, per non rimanere ripiegati su noi stessi, vivendo nello sconforto e nella rassegnazione, concentrati solo sull’io, “girandoci dall’altra parte” rispetto al contesto sociale ...
L'intera intensa Lettera di Natale firmata da preti diocesani anche veneziani e da Associazioni è a questo link:
IV Domenica di Avvento - Lc 1,39-45
Il cammino di questo Avvento è iniziato con la promessa che il mondo dove regna la violenza dell’uomo sull’uomo finirà e saremo liberi in un altro già presente quando al centro della nostra vita sarà il bisogno dell’altro sul quale avremo la capacità di piegarci. È però necessario non essere chiusi, ripiegati su noi stessi ma attenti a quanto accade per essere pronti ad accorgersi che in questo c’è il Signore che manifesta la sua volontà ed agisce. La sua promessa allora diviene per noi una speranza che non delude perché fondata sulla sua parola e, più che la gioia, esploderà una letizia che avvolgerà tutto il nostro essere.
Ricevere una promessa nella quale si è chiamati credere, diventa gioiosa speranza al di là di ogni possibilità umana quando si appoggia sulla credibilità di chi la fa. Due sono le conseguenze: una spinta a cercare di verificarne l’autenticità e la necessità della condivisione; d’altro canto la gioia porta proprio a questo ed è esperienza comune a tutti. Dall’essere troppo bello per crederci all’irrefrenabile bisogno di raccontarlo mentre si scopre che concretamente sta accadendo.
Per esempio quando una donna, magari dopo molti tentativi andati a vuoto, scopre di essere incita e vede trasformarsi il suo corpo non può non annunciarlo a tutti ed è quello che ogni Comunità dovrebbe prendere coscienza. In fin dei conti nella celebrazione dell’Eucaristia è il Cristo che si incarna il lei, la riplasma trasformandola, rendendola nuova e dovrebbe avvertire l’urgenza di uscire dalle sue consuete mura, di alzarsi e andare “in fretta verso la regione montuosa”, cioè verso quella realtà faticosa che il Battista con Isaia ci ha indicato essere necessario spianare perché venga il Salvatore.
Domenica scorsa siamo stati invitai a riscrivere la grammatica dei nostri rapporti umani condividendo invece che di tenere per noi stessi, ponendo attenzione all’altro senza soprusi di alcun genere per creare fraternità facendosi dono. È quanto accade a Maria quando da Nazaret si avvia verso dove abita la cugina non andando per la comoda e sicura via che fiancheggiava il Giordano, ma si avventura nell’insicura zona montagnosa irta di incognite. Lì, in quel villaggio alle porte di Gerusalemme, si tratterrà per tre mesi (cioè fino alla nascita di Giovanni), allo stesso modo nel quale l’Arca dell'Alleanza sostò tre mesi nella casa di Obed-Edom di Gat prima che Davide la facesse entrare in città (2Sam 6,11-12).
Luca desidera così dirci che Maria è la nuova Arca dell’Alleanza: porta in sé non le Tavole con il Decalogo, ma colui che stabilirà la “nuova” Alleanza che non consiste nell’essere “diversa” bensì nell'essere per sempre.
Entrata in casa saluta Elisabetta che “fu colmata di Spirito Santo”. È questo un secondo movimento proposto dall’Evangelo alle nostre Comunità alle quali è chiesto di portare ogni dove il Signore che si "incarna" in loro, incontrando e "salutando", venendo incontro per prime facendosi prossimo, comunicando così lo Spirito che le inabita. L'impregno chiesto è quello di inzuppare le persone che incontrano della loro stessa vita divina, comunicando la possibilità di essere già oggi nel Regno di Dio, di essere nella piena fraternità e non nella violenza dell’ego, dell’uomo sull’uomo.
Per il cristiano il “salutare”, il portare salute (= la salvezza) è il riconoscere nel volto dell’altro la presenza dell’Eterno coinvolgendolo nella propria vita. È questo l’antidoto alla violenza, all’uso dell’altro a proprio uso e consumo. È questo che porta pace, lo “Shalom”, la presenza di Dio capace di rallegraee; cosa ben diversa da un semplice “ciao” che, tra l’altro, è la crasi dell’antico saluto veneziano “sciavo vostro” (=schiavo vostro), mi faccio vostro servitore: di cosa avete bisogno?
Il saluto allora diventa importante: è il riconoscere l’azione di Dio nell’incontro, ciò che ha e sta operando nell’altro e che ci coinvolge, che ci chiede di lasciarsi compromettere nella vita dell’altro. Allora ogni incontro sarà un dono, una “pentecoste”, un nuovo natale.
(BiGio)
Betlemme, l'agricoltore Daoud: io mi rifiuto di odiare, rifiuto la logica del nemico
A colloquio con la famiglia Nassar, fondatrice della fattoria Tent of Nations. Il proprietario dell'azienda, cristiano palestinese, racconta quanto sia esposta da decenni alle intimidazioni dei coloni israeliani e di come promuova una resistenza non violenta grazie a volontari che arrivano da ogni parte del mondo: Giubileo significa cambiamento, che una nuova era comincia. Spero porti giustizia e pace nella nostra regione
L'intervista di Antonella Palermo è a questo link:
Così i pannelli solari hanno contribuito ad aumentare la resa delle colture e la conservazione dell’acqua in Africa
L’agrivoltaico combina agricoltura e pannelli solari, offrendo elettricità pulita, aumento della resa agricola e conservazione dell’acqua. Uno studio in Kenya e Tanzania ha dimostrato che i sistemi agrivoltaici migliorano la sopravvivenza delle colture durante i periodi caldi, riducono l’irrigazione e generano risparmi energetici significativi.
L’agrivoltaico potrebbe essere una soluzione per la conservazione dell’acqua anche nelle aree desertiche africane.Le insicurezze alimentari, energetiche e idriche sono sfide che l’Africa orientale si trova a dover affrontare quotidianamente.I sistemi agrivoltaici potrebbero essere una soluzione a tutte e tre queste sfide, fornendo elettricità pulita, garantendo la produzione alimentare e conservando l’acqua. Studi statunitensi hanno già dimostrato che l’utilizzo di impianti fotovoltaici in agricoltura è un modo per proteggere i raccolti dalle situazioni climatiche estreme e conservare l’acqua.Gli stessi dispositivi potrebbero contribuire ad ...
L'intero articolo di Giorgia Burzachechi è a questo link:
L’ospedale della pace? Vive a Gerusalemme
Un luogo a Gerusalemme dove i sogni si realizzano. Un esempio di convivenza nel nome della speranza. Un ospedale dove i piccoli pazienti nati con gravi disabilità o rimasti feriti in incidenti, conflitti o attacchi terroristici possono tornare a guardare, con il sorriso, al futuro.
Nel quartiere di Kiryat Yovel sorge l’ospedale ALYN (l’acronimo in ebraico di «Società per l’aiuto ai bambini disabili») che «cura e riabilita in modo gratuito bimbi e adolescenti israeliani e arabo-palestinesi senza distinzioni di religione o etniche. Oggi disponiamo di 120 letti e sono circa 250 i piccoli visitati ogni giorno tra ospedale, ambulatori e nell’asilo nido del Centro di riabilitazione educativa», racconta al telefono Maurit Beeri, pediatra e dal 2011 direttore generale della struttura fondata nel 1932 dall’ortopedico americano Henry Keller.
Uno degli aspetti che contraddistingue l’ALYN Hospitalè la ricerca tecnologica applicata: e infatti qui ogni giorno si sviluppano terapie, protesi, strumenti per la mobilità che possano migliorare la vita di tanti giovani, non solo in Israele. In questo contesto si inserisce l’idea del nuovo Center for Smart Technologies for Independent Living, realizzato anche grazie al contributo italiano: «È qualcosa di sorprendente, perché la guerra non fa smettere di guardare al futuro», ricorda Beeri. «Il nostro obiettivo è rendere i bimbi più felici e autonomi. Molti non potranno guarire completamente, ma desideriamo possano vivere meglio. Stiamo mettendo a punto una tecnologia che li aiuti a essere indipendenti nel quotidiano: dall’accensione della tv al posizionamento di una sedia, con l’aiuto di un joystick».
In questi mesi di guerra tanti «feriti e spaventati» hanno trovato riparo qui: «Sono molte le difficoltà che incontriamo, dal reperimento dell’attrezzatura sanitaria al raggiungimento delle strutture. Speriamo solo che il conflitto abbia fine», confessa la dottoressa. Lanciando un messaggio di pace: «Tutti apparteniamo al genere umano e tutti amiamo i bambini. Dobbiamo tornare alla normalità e a guardarci negli occhi. Mi piace pensare che nell’acronimo dell’ospedale - sorride - sia “nascosto” anche un altro messaggio: All love you need». Tradotto: tutto l’amore di cui hai bisogno.
«In tempi dolorosi come quelli che stiamo vivendo sostenere i miracoli che quotidianamente si compiono all’ALYN significa credere e lottare con tutte le forze per superare gli ostacoli che ci pone davanti l’esistenza: malattie, incidenti o devastazioni dell’odio», spiega Piergiorgio Segre, presidente dell’associazione Amici di ALYN, che sostiene l’ospedale dall’Italia e conta oggi nel nostro Paese più di 500 soci «Non dobbiamo mai perdere la speranza - conclude la vicepresidente Antonella Imbesi Jarach - di vedere tornare il sorriso sul volto di una giovane vita che sembrava spezzata».
(Silvia Morosi)
Il sondaggio ISPI 2024: Gli italiani e la politica internazionale
A un mese dall’ insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, con la guerra in Ucraina che prosegue da quasi tre anni e il Medio Oriente in subbuglio dopo il conflitto a Gaza e la caduta di Assad in Siria, gli italiani guardano al 2025 con un misto di speranza e apprensione. A prevalere sembra più quest’ultima, soprattutto quando lo sguardo volge a ovest verso gli USA e a est verso la Russia. Ma una cosa è certa: in un anno segnato ancora una volta dalle guerre, c’è una gran voglia di pace.
Il sondaggio è a questo link:
Premio Sakharov: voci di pace, ansia di giustizia e libertà
La consegna del riconoscimento intitolato al dissidente russo è stata l'occasione per richiamare, all'Europa e al mondo, le numerose situazioni di violenza e oppressione in cui vivono troppi popoli in ogni continente. Il premio quest'anno è andato all'opposizione democratica venezuelana. Testimonianze anche da Palestina-Israele e Azerbaijan
Il racconto della consegna del premio di Gianni Borsa e Marco Calvarese continua a questo link:
Religioni, messianismi, guerre
Dinanzi alla lunga durata della seduzione della guerra, della «normalità» dei massacri, dell’accettazione rassegnata della deumanizzazione come modalità ordinaria dello sguardo, del paradigma amico-nemico tornato a reggere i rapporti tra i popoli, del riarmo forsennato come prospettiva economica e politica dei prossimi anni, della messa in conto delle tecnologie più raffinate al servizio della distruzione e del controllo sociale, dell’inganno sistematico dell’informazione, l’interrogativo che è giusto porsi è se tutto questo sia semplicemente il frutto di una (discutibile) razionalità geopolitica ancorata alla cultura del si vis pacem para bellum o se non vi siano altre energie che attraversano menti e cuori e li rendono disponibili alla regressione antropologica di questi tempi.
In particolare è bene chiedersi, ancorandosi alla linea interpretativa della corruptio optimi pessima, quali pervertimenti delle tradizioni religiose operino nel sottosuolo dei conflitti che sono in atto o che si stanno preparando. Ne cito solo alcuni perché sono talmente evidenti che è impossibile non coglierli. Innanzitutto ci ferisce ogni giorno la grande bestemmia contro la propria tradizione spirituale che il governo di Israele, autoproclamatosi «stato del popolo ebraico» con una specifica connotazione religiosa, sta pronunciando ogni giorno, citando le Scritture e presentandosi come il nuovo sterminatore di Amalek e di tutto ciò che gli appartiene «senza avere alcuna pietà … e uccidendo uomini, donne, fanciulli e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (così il primo ministro citando il testo biblico). L’utilizzo strumentale della Scrittura per giustificare il ...
La riflessione di Matteo Marabini continua a questo link:
I Dodici e il ruolo di guida nella Chiesa
«Non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta»
Fra le obiezioni classiche che vengono ripetute da chi non vuole nemmeno prendere in considerazione la questione c’è quella sul cosiddetto “collegio apostolico”: scelto da Gesù e costituito di soli uomini, salvo che l’espressione nemmeno esiste nel Nuovo Testamento. Le considerazioni su come valutare il gruppo rispetto al ruolo delle donne sono note da decenni, ma poiché si deve ormai spiegare che la Terra non sia piatta, può essere utile richiamarne alcune...
L'intero intervento di Emanuela Buccioni è a questo link:
https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202412/241210buccioni.pdf
L’Italia: terra di missione?
È notorio che oggi l'evangelizzazione ma anche la normale cura pastorale non stanno attraversando un'epoca di grandi successi. Nulla di paragonabile a quella che fu la meravigliosa espansione della fede all'epoca degli apostoli. Né a quella dell'alto medioevo o dell'evangelizzazione delle Americhe, anche se i metodi di allora sono non solo improponibili oggi, ma anche difficilmente giustificabili. Né a quella grande stagione missionaria che è stata l'Ottocento, nonostante certe sue contaminazioni con le conquiste coloniali.
Bisogna, però, aggiungere che siamo così condizionati dalla millenaria tradizione di un'Europa tutta cristiana.Resta il fatto che da noi il lavoro pastorale è sempre più faticoso e spesso sottoposto a non poche frustrazioni. Viviamo un processo di cambiamenti che in altri Paesi è più avanzato, mentre noi operiamo in un guado, in cui stiamo avanzando lentamente, con il dovere di non abbandonare, fino a che non si estinguano, vecchie pratiche sacramentali e con la difficoltà di inventare vie nuove di approccio alle persone, adeguate a una situazione nella quale ciò che è in crisi non è, in realtà, la pratica religiosa, ma la fede. Ne deriva più che comprensibilmente, un senso pesante di frustrazione. E, non di rado, la tentazione di incrociare le braccia e, poi, di farlo effettivamente.
Non è questa un'esperienza, di per sé estranea alla vita del credente. Tutt'altro...
L'intero intervento di Severino Dianich è a questo link:
https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202411/241130dianich.pdf
Non tutti, ma chiunque
La cosa difficile da spiegare agli uomini che resistono a ogni discorso sulla violenza maschile che li coinvolga in prima persona è che certo, non tutti, ci mancherebbe pure: ma chiunque. Non è questione di quantità, è questione di imprevedibilità
Il processo Pélicot è il caso che più facilmente fa venire a galla i “Non tutti gli uomini!” come pesci morti sulla superficie dell’acqua, proprio perché fra gli stupratori di Gisèle Pélicot c’era chiunque, bisogna dirlo, ripeterlo, che si capisca. Non erano mostri, erano uomini con una vita normalissima, vicini di casa di qualcuno, padri, fratelli. E tutti, uno dopo l’altro, hanno fatto la serie di scelte in sequenza che portavano a quello stupro, dalla frequentazione del sito in cui avveniva il primo abuso fino all’ultimo. E nessuno ha detto: questa roba non va bene, avverto le autorità. Dominique Pélicot è stato preso perché beccato a riprendere sotto la gonna delle donne in uno spazio pubblico, non certo per quello che faceva in casa sua con la complicità di decine (ma in fondo, più probabilmente, migliaia: tutti quelli che hanno letto l’annuncio e hanno pensato fosse normalissimo nel contesto) di uomini.
Non tutti: chiunque. Quello che gli uomini che fanno spallucce non vogliono capire è che per una donna c’è un vantaggio evolutivo nel dare per scontato che qualunque uomo possa rappresentare una minaccia alla sua incolumità. Se ne lamentano pure, ci sfottono: ci dispiace per voi che frequentate brutta gente, cambiate compagnie. Oppure ci danno delle pazze invasate. Gisèle Pélicot è stata violentata anche da un vicino di casa: lo frequentava? No: viveva nella casa accanto, come facciamo tutte, ogni giorno.
Non tutti: ma non sappiamo quali. La metafora che viene usata più spesso per provare a spiegare il pericolo agli uomini è questa: immaginatevi di entrare belli tranquilli in una fossa piena di serpenti, di cui solo alcuni sono velenosi. Non mi pare una metafora calzante, perché l’essere umano è addestrato da millenni di evoluzione ad allontanarsi dai serpenti, a meno che non abbia la certezza che si tratta di innocue bisce. Prima ti allontani, poi eventualmente allontani la biscia. La metafora corretta è quella di un piatto di risotto che contiene dei funghi velenosi collocato fra tanti piatti di risotto ai funghi commestibili: dall’odore non si capisce, dal sapore neanche, lo sai solo quando devi andare al Pronto Soccorso, se non stai direttamente morendo.
Non lo sappiamo. Non possiamo saperlo. Nessuno degli uomini che hanno abusato di noi aveva in testa un grande cartello con scritto “PERICOLO” a caratteri cubitali: anzi, sono gli stessi uomini a normalizzare e considerare legittimi comportamenti controllanti che costituiscono violenza psicologica, e che possono portare a quella fisica. Filippo Turetta, per citare quello le cui ossessioni sono state squadernate in lungo e in largo, era uno qualunque: carino e gentile all’inizio, diventa ossessivo, infine violento. Poteva saperlo, Giulia Cecchettin? No, perché “non tutti gli uomini”, ma soprattutto non quello lì, quello da cui nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Se l’avesse allontanato a forza, scomparendo dalla sua vita (come? Stiamo parlando di Vigonovo, non di Chicago), è probabile che lui avrebbe comunque trovato il modo di farle del male. Nessuno l’ha fermato, e per la legge italiana i suoi messaggi continui non costituivano comportamento persecutorio, pur essendo la manifestazione evidente del suo desiderio di rivalersi per il torto che sentiva di aver subito da lei, la privazione di un diritto.
Non tutti gli uomini commettono violenza, qualunque uomo può farlo, perché autorizzato da una cultura che si riferisce alle donne in maniera molto esplicita come funzioni sociali e familiari. Uno che non è mai stato violento in un modo può diventarlo in un altro. Uno che non si pensa violento, lo è. Non tutti gli uomini, ma qualunque uomo: non sappiamo quale. E non è una nostra responsabilità capirlo, è una responsabilità degli uomini identificare in sé gli elementi che giustificano la violenza, propria e altrui.
(Giulia Blasi)
Helsinki sta costruendo la pompa di calore più grande del mondo: 30.000 case riscaldate senza emissioni
La capitale finlandese guida la transizione energetica: entro il 2026, 30.000 abitazioni saranno riscaldate dalla pompa di calore più grande al mondo, riducendo drasticamente le emissioni di CO2
Helsinki si prepara a rivoluzionare il proprio sistema di riscaldamento con l’installazione della pompa di calore più grande al mondo. Questa innovazione rappresenta un passo fondamentale verso la decarbonizzazione della rete di teleriscaldamento della città, un sistema centralizzato che distribuisce il calore attraverso un’infrastruttura di tubazioni sotterranee a case e attività commerciali locali.Progettata per funzionare anche a temperature estreme di -20°C, la nuova pompa di calore sarà alimentata da elettricità proveniente da fonti rinnovabili, consolidando l’impegno di Helsinki verso la neutralità carbonica entro il 2030. Il progetto è stato commissionato dall’azienda energetica finlandese Helen Oy, con l’obiettivo di rendere operativa la nuova struttura entro la fine del 2026.Come spiega Juhani Aaltonen, ...
L'articolo di Ilaria Rosella Pagliaro è a questo link:
Le democrazie scricchiolano. Tempo di domandarsi perché
Avanzano nel mondo sistemi politici autoritari, mentre in quasi tutti i Paesi europei si rafforzano i partiti sovranisti e anti Ue. Nel vecchio continente, dove Putin affascina molti leader e milioni di cittadini, ci sono casi eclatanti, per quanto differenti tra loro: i più recenti sono quelli di Romania, Germania, Francia... Ci si può rassegnare al tramonto dei valori democratici?
Non ero mai stata dentro un carcere
Fino al 5 dicembre scorso, il carcere era per me un’astrazione, un luogo che avevo visto in televisione e di cui sembrava impossibile parlare in termini positivi. Troppi suicidi, troppo sovraffollamento, troppa poca cura verso i detenuti. Più che una struttura, o una serie di strutture orientate allo stesso fine - la rieducazione e il reinserimento di chi ha compiuto un reato - il carcere è, per la maggior parte della gente, uno spazio vuoto su cui proiettare paure, frustrazioni e fantasie di vendetta.
Il 5 dicembre, per la prima volta, sono entrata nel carcere di Prato. Ed era come me l’aspettavo, solo un po’ peggio e molto meglio.
Il carcere è una capsula pensata per ricordarti in ogni secondo dove sei, e quel dove è un mondo in cui le regole del mondo non valgono più. Oltre i cancelli elettrici (uno, due, tre, ho perso il conto) si entra in uno spazio vasto e per lo più freddo, fatto di lunghi corridoi, soffitti bassi e pareti decorate da murales che fanno poco per alleviare il senso di soffocamento. All’ingresso ero nervosa: ero lì per un incontro organizzato da Teatro Metropopolare, e anche se il gruppo di uomini scelti per partecipare era autoselezionato (erano quelli del laboratorio di teatro di Livia Gionfrida), c’è sempre un po’ di insicurezza nell’affrontare il genere di tematiche di cui mi occupo io, e non l’avevo mai fatto con un gruppo interamente maschile. Non sapevo cosa aspettarmi, e l’incertezza mi rendeva tesa.
Non c’è voluto molto per prendere le misure del gruppo: per fortuna erano tutti lì con la voglia di ascoltare, e così io. Lasciata la belligeranza fuori dalla porta, mi ero portata dietro solo la capacità di farmi capire. Ultimamente ho pochissima pazienza con gli uomini, specialmente quelli che hanno studiato e che pretendono di sapere come va il mondo: l’ignoranza che esibiscono in materia di questioni di genere e di diritti mi sembra deliberata, una scelta e non una casualità, il segnale visibile del privilegio bianco. Chi sta in carcere, quel privilegio non ce l’ha: il gruppo davanti a me era composto in larghissima parte da persone razzializzate. Mi è tornato in mente quello che dicevo a proposito dell’episodio di Delmastro e del blindato della polizia, poco tempo fa: in carcere ci vanno (e ci restano) quasi solo i poveri.
Ci siamo seduti in cerchio in un enorme stanzone color cemento, spoglio e freddo, e abbiamo cominciato a parlare, partendo dal concetto di felicità e della differenza fra definirsi per quello che si ha o per quello che si è. Con l’aiuto di Livia, ci siamo spostati piano piano su questioni di genere anche molto spinose, complicate: loro hanno parlato, detto la loro, ci siamo confrontati, abbiamo scherzato, e anche durante un momento di tensione (urla e rumori sopra le nostre teste) non abbiamo mai spezzato il cerchio, abbiamo continuato a parlare mettendoci più vicini per sentirci meglio.
Non so nulla delle loro storie personali. Non so cosa li abbia portati lì dentro. Saperlo mi avrebbe forse portata a giudicarli, a guardarli in maniera diversa. Non saperlo - non sapere se hanno commesso delle violenze, se il motivo per cui sono lì sia qualcosa che mi batto per prevenire, prima che per punire - mi ha permesso di parlare con gli esseri umani oltre l’errore. Qualunque cosa avessero fatto per finire in carcere, è rimasta fuori insieme alla mia miccia corta. È stato istruttivo: se da un lato è vero che ricadere sempre nella funzione pedagogica è sfinente, e che non ne possiamo più di uomini che ci dicono che se non siamo carine non possono stare dalla nostra parte (come se fosse una concessione, e non una scelta irrinunciabile perché giusta), dall’altro costruire ragionamenti fattuali su riflessioni collettive fa bene all’anima.
Non so chi abbia bisogno di sentirselo dire, ma: noi pensiamo che stare fuori dal carcere sia sempre e solo una questione di virtù, di scelte giuste, di dirittura morale. E invece, il più delle volte, è una questione di fortuna. Sono state due ore e mezza davvero belle, faticose e belle, in cui ho messo tutto l’impegno possibile. Quando sono uscita, e fuori il sole cominciava a calare e tutto intorno a me si colorava d’oro rosa, ho respirato e mi sono sentita, ancora un volta, fortunata. Come se mi avessero fatto un regalo.
(Giulia Blasi)
Papa Francesco ad Ajaccio: un passaggio fondamentale del suo discorso al Palais des Congrès
“Oggi, specialmente nei Paesi europei, la domanda su Dio sembra affievolirsi e ci si scopre sempre più indifferenti nei confronti della sua presenza e della sua Parola. Tuttavia, bisogna essere cauti nell’analisi di questo scenario, per non lasciarsi andare in considerazioni frettolose e giudizi ideologici che, talvolta ancora oggi, contrappongono cultura cristiana e cultura laica. Questo è uno sbaglio. Al contrario, è importante riconoscere una reciproca apertura tra questi due orizzonti: i credenti si aprono con sempre maggiore serenità alla possibilità di vivere la propria fede senza imporla, viverla come lievito nella pasta del mondo e degli ambienti in cui vivono; e i non credenti o quanti si sono allontanati dalla pratica religiosa non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”.
Dipendenti dai social: uno su tre lo ammette
"Ogni tipo di dipendenza è cattiva, non importa se il narcotico è l’alcol o la morfina o l’idealismo”, diceva Carl Gustav Jung, e chissà se oggi il grande psicanalista svizzero aggiungerebbe Internet e i Social Network alla lista. Secondo i dati raccolti da Demos per l’Osservatorio Nord Est del Gazzettino, infatti, i segnali di malessere sembrano piuttosto evidenti: il 28% dei nordestini è disposto a condividere l’idea di passare troppo tempo sui social network, ma di non riuscire a farne a meno.
L'intero report è a questo link: