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Non ero mai stata dentro un carcere

Per qualche anno ho vissuto molto vicino al Coroneo di Trieste senza farci troppo caso: era lì senza farsi notare, un palazzo fra gli altri di quella zona anche piuttosto centrale della città, a pochi passi dalla stazione e dalle vie dello shopping triestino. 


Fino al 5 dicembre scorso, il carcere era per me un’astrazione, un luogo che avevo visto in televisione e di cui sembrava impossibile parlare in termini positivi. Troppi suicidi, troppo sovraffollamento, troppa poca cura verso i detenuti. Più che una struttura, o una serie di strutture orientate allo stesso fine - la rieducazione e il reinserimento di chi ha compiuto un reato - il carcere è, per la maggior parte della gente, uno spazio vuoto su cui proiettare paure, frustrazioni e fantasie di vendetta. 

Il 5 dicembre, per la prima volta, sono entrata nel carcere di Prato. Ed era come me l’aspettavo, solo un po’ peggio e molto meglio.

Il carcere è una capsula pensata per ricordarti in ogni secondo dove sei, e quel dove è un mondo in cui le regole del mondo non valgono più. Oltre i cancelli elettrici (uno, due, tre, ho perso il conto) si entra in uno spazio vasto e per lo più freddo, fatto di lunghi corridoi, soffitti bassi e pareti decorate da murales che fanno poco per alleviare il senso di soffocamento. All’ingresso ero nervosa: ero lì per un incontro organizzato da Teatro Metropopolare, e anche se il gruppo di uomini scelti per partecipare era autoselezionato (erano quelli del laboratorio di teatro di Livia Gionfrida), c’è sempre un po’ di insicurezza nell’affrontare il genere di tematiche di cui mi occupo io, e non l’avevo mai fatto con un gruppo interamente maschile. Non sapevo cosa aspettarmi, e l’incertezza mi rendeva tesa.

Non c’è voluto molto per prendere le misure del gruppo: per fortuna erano tutti lì con la voglia di ascoltare, e così io. Lasciata la belligeranza fuori dalla porta, mi ero portata dietro solo la capacità di farmi capire. Ultimamente ho pochissima pazienza con gli uomini, specialmente quelli che hanno studiato e che pretendono di sapere come va il mondo: l’ignoranza che esibiscono in materia di questioni di genere e di diritti mi sembra deliberata, una scelta e non una casualità, il segnale visibile del privilegio bianco. Chi sta in carcere, quel privilegio non ce l’ha: il gruppo davanti a me era composto in larghissima parte da persone razzializzate. Mi è tornato in mente quello che dicevo a proposito dell’episodio di Delmastro e del blindato della polizia, poco tempo fa: in carcere ci vanno (e ci restano) quasi solo i poveri. 

Ci siamo seduti in cerchio in un enorme stanzone color cemento, spoglio e freddo, e abbiamo cominciato a parlare, partendo dal concetto di felicità e della differenza fra definirsi per quello che si ha o per quello che si è. Con l’aiuto di Livia, ci siamo spostati piano piano su questioni di genere anche molto spinose, complicate: loro hanno parlato, detto la loro, ci siamo confrontati, abbiamo scherzato, e anche durante un momento di tensione (urla e rumori sopra le nostre teste) non abbiamo mai spezzato il cerchio, abbiamo continuato a parlare mettendoci più vicini per sentirci meglio.

Non so nulla delle loro storie personali. Non so cosa li abbia portati lì dentro. Saperlo mi avrebbe forse portata a giudicarli, a guardarli in maniera diversa. Non saperlo - non sapere se hanno commesso delle violenze, se il motivo per cui sono lì sia qualcosa che mi batto per prevenire, prima che per punire - mi ha permesso di parlare con gli esseri umani oltre l’errore. Qualunque cosa avessero fatto per finire in carcere, è rimasta fuori insieme alla mia miccia corta. È stato istruttivo: se da un lato è vero che ricadere sempre nella funzione pedagogica è sfinente, e che non ne possiamo più di uomini che ci dicono che se non siamo carine non possono stare dalla nostra parte (come se fosse una concessione, e non una scelta irrinunciabile perché giusta), dall’altro costruire ragionamenti fattuali su riflessioni collettive fa bene all’anima.

Non so chi abbia bisogno di sentirselo dire, ma: noi pensiamo che stare fuori dal carcere sia sempre e solo una questione di virtù, di scelte giuste, di dirittura morale. E invece, il più delle volte, è una questione di fortuna. Sono state due ore e mezza davvero belle, faticose e belle, in cui ho messo tutto l’impegno possibile. Quando sono uscita, e fuori il sole cominciava a calare e tutto intorno a me si colorava d’oro rosa, ho respirato e mi sono sentita, ancora un volta, fortunata. Come se mi avessero fatto un regalo.

(Giulia Blasi)

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