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Per il momento da Venerdì 30 maggio 2025 questo Blog sarà implementato solo con notizie ecclesiali della Parrocchia.  I Post con la proposta...

Domenica XXV PA - Mt 20,1-6

Il Padrone non è preoccupato di avere molti operai, ma che ciascuno abbia di che vivere nella gioia e nella gratuità. Con questa parabola Gesù vuole demolire una volta per tutte la “religione dei meriti” che cerca di applicare alla fede i criteri economici di Mammona.

 

Il percorso nel quale la Liturgia ci sta conducendo a fare in queste domeniche sta sviluppando il tema dei rapporti interpersonali e all’interno delle Comunità, su come gestire gli inevitabili conflitti e sul fatto che se non si riesce ad uscire dalla ristretta visione della giustizia umana per abbracciare e condividere con tutti la misericordia del Padre, quest’ultima dovrà superare le difficoltà di trovarsi “legata” dalle nostre resistenze e, il nostro volto non rifletterà il suo cuore.

 

Oggi l’invito è a fare un ulteriore passo nella comprensione di quale sia il modo di agire del Padre, perciò di chi egli realmente sia al di là di ogni stereotipo, quale sia il suo progetto per la vita per gli uomini e la realtà che sono chiamati a realizzare cioè il “regno dei cieli”. La liturgia dell’anno A non ci propone nessuna delle due moltiplicazioni dei pani che Matteo narra, una in terra di Israele e l’altra in terra pagana ma, uno dei significati di entrambe, è che la condivisione rende ricchezza e offre il necessario a tutti. A un primo livello interpretativo la parabola di oggi si inserisce in questo tema ed il Padrone che a più riprese (5 volte) nell’arco della giornata assolda lavoratori per il lavoro nella sua vigna, alla fine tratta allo stesso modo dal primo all’ultimo tutti quelli che ha trovato, anche chi ha lavorato una sola ora. Da notare è la sottolineatura che, coloro che man mano a diverse ore del giorno vengono inviati a lavorare, non erano dei fannulloni ma pur essendo disponibili, nessuno li aveva chiamati al lavoro. Emerge allora non tanto che la vigna aveva bisogno di molti operai, ma che il Padrone era preoccupato perché, chi non fosse stato chiamato al lavoro, quel giorno sarebbe rimasto senza paga: non avrebbe quindi avuto di che comprare da mangiare per lui e l’intera sua famiglia.

Alla fine della giornata dà a tutti la paga contrattata con quelli della prima chiamata, anche a chi ha lavorato forse anche meno di un’oretta. 

Qui avviene un cambio di paradigma: dalla giustizia umana a quella di Dio che guarda in base ai bisogni delle persone, non ai loro meriti. Infatti il Padrone viene contestato (anche da noi?) e risponde piuttosto rudemente: “Amico io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene” e non semplicemente con l’edulcorato “va” delle nostre traduzioni. Anche quell’”amico” è un appellativo con una doppia possibile comprensione. Matteo lo mette sulla bocca di Gesù solo qui, quando si rivolge al commensale senza la veste nunziale e nell’orto del Getsemani  a Giuda che lo sta tradendo e continua: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” che letteralmente si traduce con “Oppure il tuo occhio è maligno?”. Conclude la parabola in modo simile chiusura del capitolo precedente (Mt 19,30): “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”. 

L'avranno capito i suoi discepoli? La madre dei figli di Zebedèo subito dopo si troverà a chiedere i primi posti, i più importanti per i propri figli. E noi che cosa ci troviamo a chiedere? Nel nostro lavoro sicuramente giustizia e retribuzioni corrispondenti alle competenze e capacità; la soppressione di situazioni di caporalato e bieco sfruttamento con salari ben al di sotto della soglia vitale ed è corretto ma la parabola vuole dirci altre cose.

Innanzitutto la vigna è immagine del popolo; piantata dal Signore con grande cura, della quale è orgoglioso e dalla quale si aspetta un frutto buono e abbondante (Is 5,1-2).

Dal prodotto della vigna si estrae il vino che rallegra il cuore (Ps 104) e il Siracide (31,27) si chiede “che vita è quella dove manca il vino? Fin dall’inizio è stato creato per la gioia”. Il vino non è certo indispensabile per la vita come l’acqua, ma simbolo della festa, della gioia, della gratuità. 

Ecco quello che desidera produrre il Padrone della vigna della parabola e ci tiene che il suo frutto sia abbondante e dia molta gioia. Questo è il motivo per il quale chiama gli uomini a lavorare nella vigna, nel creato. Questa dovrebbe essere l’immagine di una vita nella fede senza quegli spessi panni di pesanti fardelli imposti che fruttano tristezza al posto della gioia, della gratuità, della giustizia alla quale ci chiama il suo regno già nel nostro oggi. Il portare il peso di quelle zavorre imposte ci porta a pensare che in cambio alla fine ci sarà una giusta ricompensa. Quando ragioniamo in questo modo di fatto continuiamo a porre al centro il nostro io e cerchiamo di costringere Dio alla nostra visione di giustizia retributiva, dimenticando che la condizioni posta da Gesù a chi lo vuole seguire, è dimenticare sé stessi e pensare solo a donare gioia ai fratelli.

 

Con questa parabola Gesù vuole allora demolire la “religione dei meriti”. Chi ha avuto il dono della fede fin dalla fanciullezza avrà la medesima ricompensa di chi vi sarà giunto in un’altra fase della vita, anche nella vecchiaia. Il dono della fede rimane sempre attivo, sta all’uomo accoglierlo nella sua vita quando sarà in grado di accorgersene, quando le condizioni della sua ricerca lo renderanno possibile.

 

Il compito di “chiudere” questa parabola spetta a noi nel senso che è un invito costante a tener presente che la giustizia di Dio non è la nostra e che “come il cielo è lontano dalla terra, le sue vie non sono le nostre vie” (Is 55. 8), quindi ci è chiesto di rimanere aperti e capaci di accogliere la sua novità che non potrà non sorprenderci e sorprenderci ancora e ancora con la sua misericordia e capacità di amore altro ogni limite.

 

(BiGio)

Andate anche voi

Più che sulla vigna, l'attenzione del proprietario è focalizzata sulla preoccupazione per le persone. Colpisce il triste e doloroso lamento dei lavoratori invitati all'ultima ora del giorno: "Nessuno ci ha presi a giornata.


Il funzionamento di qualsiasi gruppo o istituzione richiede che i suoi membri assumano compiti diversi per la realizzazione del bene comune. Questo, specialmente nell’ambito della chiesa, non dovrebbe creare differenti gradi di dignità e di privilegio, ma rafforzare l'uguaglianza, nella diversità dei tempi e dei servizi che ogni persona è chiamata a svolgere. Dio stesso, nell'insegnamento di Gesù, rivela un amore generoso e gratuito, che non si limita alla giustizia e va oltre i meriti di ciascuno.

Nel linguaggio simbolico della parabola, la vigna è l'umanità. A questa vigna sono invitati a lavorare alcuni giornalieri contrattati "all’alba" per "un denaro al giorno".
In diverse ore del giorno il proprietario della vigna esce per invitare altri nuovi lavoratori: "Andate anche voi nella vigna". Più che sulla vigna, l'attenzione del proprietario è focalizzata sulla preoccupazione per le persone: "Ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati"; "Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?". Colpisce il triste e doloroso lamento dei lavoratori invitati all'ultima ora del giorno: "Nessuno ci ha presi a giornata". E vanno a lavorare per il resto della giornata senza contrattare nessun salario.
La paga alla fine della giornata, uguale per tutti, rispetta e compie la giustizia degli accordi iniziali: "Non hai forse concordato con me per un denaro?". Ma non tiene conto della diversità dei lavoratori, alcuni dei quali hanno lavorato molte più ore di altri. Ed ecco l'insegnamento della parabola.
L'invito a lavorare per fare dell'umanità la famiglia felice dei figli e delle figlie di Dio è gratuito. Non mira a una ricompensa per i meriti. Spendere la propria vita al servizio degli altri, lavorando nella vigna del mondo, non dà diritto a privilegi o separazioni, ma realizza quello che ciascuno è chiamato a fare, seguendo chi l'ha fatto per primo, Gesù. La chiamata è gratuita, ed anche la risposta, e la stessa paga per tutti, indipendentemente dalle ore, dalla quantità di lavoro e dai compiti svolti per la comunità.
Questo può suscitare il malcontento e il fastidio di alcuni, che si sentono più meritevoli di altri, e pretendono un riconoscimento diverso: "Abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo".
È difficile per noi pensare a questa uguaglianza radicale, perché molte volte nella stessa comunità ripetiamo i criteri della società, in cui il mercato è l'unica legge che governa: io cerco con tutti i mezzi di ottenere il più possibile, dando da parte mia il meno che posso. I criteri di Dio, invece, sono sconcertanti. Egli dà quello che è giusto, e molto di più, gratuitamente. È "ingiusto", da un punto di vista umano. La logica di Dio non è la logica degli uomini: “Tu sei invidioso perché io sono buono?". Ciò che Dio vuole è solo la felicità dell'uomo.
Potremmo essere tentati di abusare di un tale Dio, perché sappiamo che ci "paga" al di là dei nostri meriti, oppure possiamo cercare di imitarlo, come figli e figlie che riproducono in sé stessi le caratteristiche del Padre.
(Benardino Zanella)

Un prete al servizio della comunità

La revisione del modo di essere chiesa ha (e non può che avere) implicanze dirette sulle varie componenti del tessuto ecclesiale, in particolare sui carismi e sui ministeri che vanno sempre più ripensati in un’ottica comunitaria e con l’obiettivo di far crescere partecipazione e corresponsabilità. La comunità cristiana non può  essere concepita come una massa di individui, che ricercano ciascuno la soddisfazione del proprio bisogno religioso, ma come una realtà viva e articolata in cui ogni fedele è chiamato a fornire il proprio insostituibile apporto all’edificazione della casa comune.

Nel contesto di questa visione di chiesa va inserito anche il ruolo del prete, che riveste una rilevante  importanza in ragione del particolare servizio che è chiamato a svolgere. L’ecclesiologia del Vaticano II, con l’introduzione delle due grandi categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” ha segnato con chiarezza l’ambito e la modalità di esercizio di tale servizio, mettendo l’accento sulla necessità di inscriverlo all’interno (non dunque al di fuori o al di sopra) della comunità  e di finalizzarlo alla sua crescita.

Le difficoltà attuali 

  1. La perdita di autorità

Le due categorie accennate sono al centro della costituzione Lumen gentium, dove l’aver anteposto il capitolo sul “popolo di Dio” a quello dedicato alla gerarchia – una vera “rivoluzione copernicana” secondo alcuni – ha determinato il passaggio da una concezione verticistica di chiesa a una concezione di chiesa “dal basso”, radicata nel sacerdozio comune dei fedeli che scaturisce dal battesimo; mentre a sua volta, l’aver messo al centro della riflessione il concetto di  “comunione” ha reso trasparente l’esigenza di sviluppare una forma di unità differenziata e pluralistica, frutto del contributo responsabile di tutti i fedeli. Una chiesa dunque non più egemonizzata da una élite di eletti, la ecclesia docens,  e costituita da una pletora assai più numerosa di fedeli, la ecclesia discens, il cui compito è quello di sottostare agli orientamenti dottrinali e alle direttive pastorali dettate dai primi.
Le difficoltà ad accettare di fatto questa visione da parte di chi riveste un ruolo gerarchico – dal papa ai vescovi e ai preti – dopo secoli di clericalismo si è ben presto manifestata. Alla perdita del ruolo sociale assai rilevante nell’ambito di una società chiusa come quella preindustriale si è accompagnata, grazie alle scelte fatte dal Concilio, il venir meno di un supporto istituzionale, che garantiva al prete l’attribuzione di una indiscussa autorità dalla quale ricavava autoaffermazione, gratificazione e sicurezza. L’abbandono dei ruoli del passato ha dunque lasciato il posto all’esercizio di una funzione, che oltre a sminuirne il potere decisionale, esige l’acquisizione di particolari attitudini, quali l’autorevolezza personale, la capacità di dialogo e lo spirito di servizio.           

L'articolata riflessione di Giannino Piana continua a questo link:

https://www.esodoassociazione.it/site/index.php/i-nostri-temi/futuro-del-cristianesimo/565-un-prete-al-servizio-della-comunita-3



È settembre, si riprendono le attività ma attenzione, non è ripetere ...

La “ripresa” è ben diversa dalla “ripetizione”: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport… vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. 

Diverso è “riprendere”: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima… Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti “ripetente” è sinonimo di bocciato e “mi sono ripreso” di salute: facciamo una “ripresa” quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia “ripetuto” ma “ripreso”?

La riflessione di Alessandro Davenia continua a questo link: 

https://www.profduepuntozero.it/2023/09/12/ultimo-banco-169-graziato/



Parrocchia si cambia, ma come?

A memoria potremmo dire che sono almeno 30 anni che nella Chiesa italiana si parla della riduzione del clero. E contemporaneamente si è messa in moto qualche iniziativa nella linea dell’unificazione delle parrocchie. Allora, però, c’erano ancora preti tra i 50 e i 60 anni e dunque il tema era far sì che qualcuno acconsentisse a non essere più parroco, come pure convincere i seminaristi, che ancora c’erano, a non pensare di diventare parroci subito. Tutto questo però in ordine sparso, per via di sperimentazioni e di alchimie tra preti, e qualche volta, religiose. E, soprattutto, senza mai guardarsi indietro: chi stava arrivando?

In questo contesto la lettera del vescovo di Torino (cf. SettimanaNews, qui) apre strade e offre l’occasione per qualche considerazione di diverso tenore. Nel contesto della lettera sembra chiara la consapevolezza che le piccole comunità non sono abbandonate, sono collegate tra loro e a loro è offerto un centro eucaristico per una celebrazione degna del nome, ma anche per un esercizio della carità e della formazione di respiro ampio. 
Ḕ assolutamente vero che si impiega l’auto per tutto, e per le nostre comunità la distanza del luogo della celebrazione non dovrebbe far problema. D’altra parte, c’è una pigrizia nei confronti del luogo e dell’orario di celebrazione insostenibile e per nulla giustificata.
Molte comunità però sono anziane, soprattutto quelle dei piccoli centri, perciò sorge la domanda se, per loro, sarà efficace lo spostamento. E poi il Piemonte ha montagne, e in generale l’Italia con le sue Alpi, Prealpi, Appennini, è fatta di tanta montagna… e qui entra in gioco la fattibilità concreta.
Neve e ghiaccio, acqua? L’instabilità del clima ci suggerisce fenomeni molto più forti del solito producendo situazioni in cui è sconsigliato spostarsi. In questo caso, il rischio è di tornare ancora alla messa in tv, magari con la diretta streaming del centro eucaristico della zona.

Ma tutte queste difficoltà, tecniche e via via affrontabili, diventano in realtà elementi significativi perché lo sfondo in cui questa strutturazione della vita delle comunità viene a collocarsi  è quella di uno schema tradizionale: il prete è presidente di fronte al popolo di Dio. E allora?


L'interessante tematizzazione continua a questo link:


Il Crocifisso non può mai essere un obbligo.

Senza entrare nella evidente questione della laicità dello Stato e della separazione, invocata dallo stesso Gesù, tra Cesare e Dio, per un fedele dovrebbe essere doloroso, ritengo, pensare che la presenza del simbolo cristiano sia o possa essere imposta. Proibire sarebbe ed è un errore doloroso, come è o sarebbe sbagliato imporre.

A poche ore dalla partenza di papa Francesco per Marsiglia, la deputata leghista Simona Bordonali, quale prima firmataria, ha depositato con altri del suo partito, una proposta di legge per rendere obbligatoria l’apposizione del Crocifisso in scuole, uffici, carceri e porti. Chi non adempisse l’obbligo, per la proposta legge, dovrebbe poter essere multato fino a mille euro.

Prima di tutto è interessante notare la novità dell’inserimento anche dei porti nell’elenco dei luoghi dove imporre la presenza del Crocifisso. Non è difficile osservare che in molti porti italiani i “crocifissi” non scarseggiano, a volte bloccati su strutture galleggianti, impossibilitati a scendere, o trattenuti in vicine tendopoli. E siccome molti porti del sud sono sovrastati dalla famosa Madonna di Porto Sicuro o altre dai nomi simili, viene da chiedersi se si abbia idea di cosa significhi immaginari respingimenti o pratiche simili, oggi molto diffuse, sotto lo sguardo di chi prima fu costretto alla fuga dal proprio Paese e poi fu crocifisso dal potere costituito.

L'intera riflessione di Riccardo Cristiano a questo link:


Crisi delle Chiese. Se il Cristianesimo non “funziona più”

Una interessante intervista a Brunetto Salvarani di Claudio Paravati.

La teoria della secolarizzazione sembra non essersi avverata ma il ritorno del religioso non è quello delle Chiese piene di fedeli, né di preti, pastori e missionari: è la fine delle chiese cristiane tradizionali?


È necessario partire da un dato di fatto: diversamente rispetto a un passato recente, oggi, una sia pur rapida istantanea sulle varie credenze non può che fotografarle come un processo in costante divenire; ed è possibile senza problema alcuno scegliere di essere atei o agnostici, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio specifico percorso all’interno delle religioni. Inoltre, mi pare un evento ormai conclamato l’es-culturazione del cristianesimo – come la chiama Christoph Theobald – dal paesaggio sociale e dall’immaginario europei; un evento che giustificherebbe ampiamente l’aprirsi di un dibattito pubblico, di cui in realtà per ora si fatica alquanto a scorgere i contorni. In questo scenario (mosso), scorgo due narrazioni fondamentali sul futuro delle Chiese: una, minoritaria, ottimista, e un’altra, largamente prevalente, pessimista. 

L'interessante intervista continua a questo link:

Dal 1950 in Africa ci sono stati 214 colpi di Stato: ma cosa c'è dietro?

 I colpi di Stato non sono tutti uguali. Non lo sono le cause, le modalità, i  protagonisti. E soprattutto, non lo sono i tempi. I tempi storici. Ecco perché interpretarli richiede uno sforzo di comprensione e uno sguardo meno rigido. Al susseguirsi di golpe in Africa degli ultimi anni non c’è una sola risposta. E quelle di oggi potrebbero non essere le stesse quando ci sarà stato modo di osservare il risultato di questi avvenimenti. L’unica cosa davvero certa è che il continente sub-sahariano sta vivendo una evoluzione. Nuova, in qualche modo imprevista (e in larga misura, imprevedibile). 

Molti dei colpi di Stato nei primissimi anni dalle indipendenze sono stati “manovrati” dagli ex colonizzatori europei (soprattutto da Francia e Belgio) e dagli USA e questo vale anche per gli assassinii di leader carismatici e critici nei confronti di chi li aveva fino ad allora dominati e per questo ritenuti pericolosi (solo la Francia è ritenuta coinvolta in 22 casi di omicidi dal 1963), come Patrice Lumumba, primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo (con la responsabilità di Bruxelles) e Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso che contestò la schiavitù economica a cui l’Occidente aveva sottoposto l’Africa e chiese l’annullamento del debito voluto dai colonizzatori, “una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata” disse. Oppure per il colpo di Stato che sostituì il presidente del Ghana, Kwame Nkrumah. 

Troppo comunista per un presidente come Lyndon Johnson. “Il colpo di Stato in Ghana è un altro esempio di colpo di fortuna fortuito. Nkrumah stava facendo di più per indebolire i nostri interessi di qualunque altro africano nero. In reazione alle sue inclinazioni fortemente filo-comuniste, il nuovo regime militare è quasi pateticamente filo-occidentale”. 

Così scriveva, in una lettera indirizzata al presidente degli Stati Uniti, il suo assistente agli Affari della sicurezza nazionale. “We face neither East nor West: we face forward” (non guardiamo né ad Est né ad Ovest: guardiamo al futuro), affermava quello che è stato il presidente del primo paese dell’Africa sub-sahariana a conquistare l’indipendenza (1957). Ma le idee (e le dichiarazioni) panafricaniste di Nkrumah non sono mai state apprezzate da chi voleva continuare a tenere il controllo su paesi che solo formalmente stava lasciando. Bisognava schierarsi e schierarsi “dalla parte giusta”. 

 

 

L'interessante e documentata analisi di Antonella Sinopoli continua a questo link:


https://www.valigiablu.it/africa-colpi-di-stato-2023/



L’omicidio di Giovanni Cutolo a Napoli, la nostra indifferenza e le generazioni senza futuro

Giogiò, oggi lo chiamano tutti così spinti da sincera partecipazione emotiva, ma scusate la franchezza, tra qualche giorno, Giovanni Battista Cutolo, il giovane musicista assassinato per niente, in piazza Municipio a Napoli se lo ricorderanno solo la famiglia, la fidanzata e gli amici.


C’è stato un tempo vuoto che mi sembra pesi come la lapide di marmo che mercoledì ha chiuso i resti di Giogiò.

Quel tempo vuoto è di tre anni. Non poco. Da quando l’assassino aveva 13 anni fino ai suoi 16. A 13 anni accoltellò un suo coetaneo e fu accusato di tentato omicidio. Non era imputabile, troppo piccolo per andare in galera. E poi passa del tempo e a 16 anni spara tre colpi di pistola contro un altro ragazzo, Giovanni appunto, e lo uccide. A 16 anni è sempre un “muccusiello” che però evidentemente era solo passato dal coltello a “o fierr” (la pistola), e che ora andrà nel carcere minorile.

Che cosa è successo in quel tempo? Chi si è occupato di quel bambino che aveva cercato di uccidere e che poi alla fine lo ha fatto 3 anni dopo? Non era imputabile e quindi? Forse bisognava prendersene cura, forse bisognava tenerlo d’occhio. Invece era tranquillamente avviato alla carriera di rapinatore di Rolex, come altri ragazzini del suo quartiere. Come anche Ugo Russo, vivo nella cronaca e ucciso da un carabiniere libero dal servizio che aveva cercato di rapinare.

Ora è facile dire che bisogna buttare la chiave. Ma che abbiamo fatto quando aveva 13 anni e già aveva conosciuto e praticato il male?


La riflessione di Amalia De Simone continua a questo link:


https://www.valigiablu.it/napoli-omicidio-giovanni-cutolo-musicista/





Cammino sinodale. Cei: “Aprire strade da percorrere perché tutti abbiano posto nella Chiesa”

Linee guida per la fase sapienziale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia. "Nuove ministerialità" per i laici e valorizzazione del ruolo delle donne. Tra le proposte, affidare ad un diacono l'amministrazione di parrocchie prive di parroco residente.


“Proseguire nel percorso avviato, rafforzando l’esercizio del discernimento a partire dai temi e dalle domande proposte nelle Linee guida e indicando decisioni possibili, impegni, aspetti ancora da sviluppare”. E’ l’obiettivo delle Linee guida per la fase sapienziale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia , diffuse. “Queste Linee guida, facendo tesoro del biennio narrativo – sottolinea il Consiglio episcopale permanente nell’introduzione al documento – gettano un ponte verso la fase profetica, incamminando le Chiese in Italia verso un discernimento operativo che prepari il terreno alle decisioni, necessariamente orientate a un rinnovamento ecclesiale e mai introverse; anche quando l’attenzione è puntata sulla vita interna delle nostre comunità, il pensiero è sempre quello estroverso della missione: rendere più agili alcune dinamiche ecclesiali (dottrinali, pastorali, giuridiche, amministrative) per rendere più efficace l’incontro tra il Vangelo, energia vivificante e perenne, e l’umanità di oggi”. Soprattutto in un tempo in cui “i lavori sinodali si intrecciano con i problemi e i drammi di ciascuno, che sono i problemi e i drammi del mondo: gli strascichi sanitari, economici e sociali della pandemia, il clima di guerra tragicamente ravvivatosi, le crisi ambientali, occupazionali, esistenziali. Un senso di precarietà e di smarrimento avvolge molte persone e famiglie nel nostro Paese”. Il testo – che si arricchisce di alcune infografiche – contiene infine il Cronoprogramma con l’agenda delle tappe e degli appuntamenti che condurranno all’apertura della fase profetica nel maggio 2024.

L'intera sintesi di M. Michela Nicolas continua a questo link:

Domenica XXIV PA - Mt 18, 21-35

Il perdono di Dio è senza condizioni ma per esprimersi pienamente ha bisogno che facciamo nostro verso gli altri questo suo modo d’essere. In fin dei conti non è questo che preghiamo nel Padre Nostro “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?


Dopo il confronto Pietro e Gesù che aveva evidenziato qualche asprezza, il Signore aveva riproposto ai discepoli le sue scelte di vita invitandoli a scegliere se continuare a porre al centro i loro progetti personali o il bisogno degli altri, mettendo in conto che questo avrebbe potuto metterli in difficoltà e farli soffrire: questo significa il “seguirlo”.

Una volta deciso ci si trova a camminare assieme e, a questo punto, la Liturgia ci ha condotto a soffermarci attorno ai rapporti che intercorrono in ogni comunità umana e alle relazioni che si instaurano e che possono scivolare ed esprimere discussioni, contrasti, incomprensioni. Cosa fare in questi casi? Gesù invita a non avere tentennamenti e di mettersi a disposizione per fare un tratto di strada con chi sta sbagliando, prima personalmente, poi assieme a qualche amico, infine con l’intera comunità giungendo anche a compiere atti dirompenti, ma sempre in quell’atteggiamento verso il fratello che non deve rimanere senza il nostro amore anche se lui si allontana non ricambiando.

 

Questa Domenica ci viene chiesto di soffermarci ancora ed approfondire il tema su come gestire i rapporti all’interno della Comunità. I discepoli da buoni ebrei conoscono la legislazione rabbinica che indicava in tre il numero di volte nelle quali si doveva perdonare al fratello, poi si era liberi di accedere alle vie legali. Pietro, pensa di fare bella figura con Gesù chiedendogli se si dovesse fare fissando un numero più che doppio: sette. La risposta è secca: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” ribaltando l’affermazione di Lamek che aveva indicato in settantasette volte il limite della sua vendetta, vantando di aver ucciso un uomo per averlo solo scalfito (Gn 4,24). Indicando così che non avrebbe mai perdonato alcuna offesa finché non avesse avuto piena soddisfazione.

Gesù con la sua affermazione desidera avvertirci che la mancanza di perdono conduce alla morte, se non fisica, certamente a quella dei rapporti all’interno delle comunità; un perdono che deve essere non solo quantitativamente illimitato, ma pure qualitativamente incondizionato.

La distanza che intercorre tra quanto indicato dal Signore e le nostre spontanee reazioni immediate è nell’esperienza di tutti e di ogni comunità umana, anche cristiana. Per l’uomo il perdonare è una debolezza, è l’incapacità di vendicarsi, la pazienza è spesso associata all’essere codardi, quando non viene ritenuta una cosa dannosa per l’identità e l’equilibrio psichico della persona. Questo modo di pensare però ha il suo punto debole nel fatto che pone al centro l’individuo attorno al quale ruota tutto l’universo. È esattamente il contrario del modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo che ci chiede di far nostro.  Qui Gesù cerca di spiegarlo con un’altra parabola, quella di un re che volle fare i conti con i suoi servi e la differenza di atteggiamento tra questo e uno dei suoi sottoposti.

Nei confronti di uno che scopre debitore nei suoi confronti di 10.000 talenti che non era una moneta, ma una unità di peso corrispondente tra i 26 e i 60 chili di oro, quindi una quantità inimmaginabile. Verificata l’impossibilità di restituzione, prima si avvale della giustizia disponendo fosse venduto lui con la sua famiglia e poi rinchiuso in prigione fintantoché non gli avesse restituito l’intero debito.  Non essendo questo non possibile si trattava di una condanna a vita. In seguito alle invocazioni di avere pietà (il verbo greco letteralmente dice “un cuore grande” nei suoi confronti), il re si muove a compassione cioè prova un “immenso amore viscerale” e lo lascia andare condonandogli il debito. Sotto non ci sta nessun ragionamento, nessun calcolo. Emerge solo quell’amore materno che scaturisce dalle doglie del parto e che, nelle icone bizantine, facilmente è rappresentato dal ventre rigonfio e prominente del crocefisso che ha il resto della corporatura scarna.

La descrizione dell’atteggiamento di questo re il cui regno è “simile al regno dei cieli”, desidera dirci che l’amore di Dio per l’uomo è infinito e che è sempre pronto a perdonarci, perché lui continua in ogni caso ad amarci, tanto più se gli chiediamo sinceramente di avere un cuore grande nei nostri confronti, riconoscendo la nostra realtà di uomini di poco cuore, di fede piccola e tremolante. 

La parabola prosegue con il racconto di un contrapposto atteggiamento di questo servo che, avvalendosi della “giustizia”, non cede alla supplica di un compagno e lo manda in prigione per un debito del tutto rifondibile in pochi mesi (la cifra corrispondeva al salario di circa tre mesi di lavoro). La domanda che ci viene posta con quale dei due atteggiamenti desideriamo sintonizzarci. Desideriamo essere uomini di giustizia o uomini di Dio?

Nel primo caso ci ritroveremo a soffocare l’altro in un atteggiamento di vendetta che può essere dilazionata nel tempo tenendo le mani alla gola dell’altro impedendogli di vivere. Nel secondo caso ci troveremo a riprodurre il volto del Padre che è solo amore.

Le espressioni finali di Gesù desiderano insegnarci che chi non sa, non solo perdonare, ma anche condonare in modo incondizionato, può essere una persona giusta secondo i criteri di questo mondo, ma Dio non lo riconosce come figlio, non vede in lui le proprie sembianze perché non è secondo il suo cuore. 

 

Nel Regno dei Cieli nel quale siamo chiamati a vivere già nel nostro oggi, non prevale più la giustizia, ma la misericordia e, richiamandoci a quanto Gesù aveva detto in precedenza sul legare e sullo sciogliere, significa che il perdono del Padre verso gli uomini rimane legato finché non si dipana nel perdono ai fratelli. Certo, lui ci ha già perdonato, ma questo suo perdono diventa efficace ed operativo quando il nostro si trasforma in perdono senza chiedere nulla in cambio verso gli altri. In fin dei conti non è questo che preghiamo nel Padre Nostro “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

 

(BiGio)

Gesù, la sua parabola sul perdono e fra Cristoforo

Il perdono illimitato si apre anche nella nostra letteratura


Subito dopo la sua confessione di fede, Pietro si parò davanti a Gesù che annunciava la passione. “Questo non ti accadrà mai!”. E ricevette una lezione che ancora se la ricorda. “Va' via, satanaTu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dioma secondo gli uomini!” (Mt 16, 21-23). Quale era il pensiero di Dio che prevedeva la passione e la morte di Gesù? Abbiamo detto: l’inclusione della sofferenza e della morte nella redenzione, che sarebbero rimaste fuori stando a Pietro. C’è dell’altro, ovviamente: la remissione dei peccati “per voi e per tutti”, col suo sangue versato in ogni Eucarestia. Scena cruenta, eppure…

“La morte si sconta vivendo”, dice un verso di Ungaretti, 1916. La morte o “il male di vivere”, avrebbe scritto Montale in senso più esistenzialista. Paolo scriveva ai Romani (6,23): “Il salario del peccato è la morte”. La guerra, il tedio mortale, il sentimento persistente della colpa, il rimpianto, l’odio per sé stessi, la paura, la fuga nel passato… sono espressioni di morte, alla lunga esiti del peccato, secondo Paolo. Anche del peccato altrui, del male che ci viene fatto senza motivo e produce astio, turbamento, coazione a ripetere, buio nell’esistenza... La vittima si traveste in carnefice, l’umiliato in colpevole e neppure sa perché. Come scrollarsi di dosso questo destino?
La religione cristiana non è un’opzione come tante. È la soluzione come ciascuno ha modo di verificare liberamente.
 
A volte il ‘male di vivere’ scende in noi con una tale gravezza di spirito, accanto ad una visione chiara della irrimediabile vanità di ogni cosa, da lasciare la mente annichilita e lucida. Non c’è psicofilosofia che tenga. Ma ai più inquieti possono aprirsi orizzonti nuovi. Un prete augurava ai suoi: “Che vi venga un mal di pancia!”, così da piantarla con l’orgoglio. Smettetela di piangersi addosso, ché vi vengono i reumatismi”. Cadono i pregiudizi e ci si concede la facoltà d confrontarsi con la Parola e guardarci dentro. Appare allora il rimedio della compassione e del perdono.
Fra di noi, al meglio, possiamo disporre di un amico, di un’amica che ci avvicini nei momenti tristi e per ciò stesso è di sostegno quando le cose buttano male, ci sono contrasti in famiglia, sul lavoro, l’annuncio di una malattia… Una dolce esperienza di consolazione (‘stare con chi è solo’) preserva ‘l’umano’ dall’abbrutimento.
Gesù è questo e molto altro. Ascolta i mali che gravano sulla nostra coscienza, gli errori subiti e quelli fatti, il racconto del male che ne è venuto e, pur non passandoci su, si sostituisce a noi nella colpa, negli effetti, nel ‘salario’. Pago io.
 
“Ma tu vieni e seguimi”. Per fare esperienza che non cammini una via di fantasia, occorre la pratica del perdono, dato e chiesto. Diecimila talenti contro cento denari, miliardi di euro contro cento. Bando alle supponenze: siamo persone vere solo se viviamo di perdono. Occorre farne esperienza. Non la fa quel tale, condonato dei diecimila talenti, che caccia in galera chi gli deve spiccioli al confronto. È la ‘fatica’ di perdonare che rende effettivo il perdono ricevuto. Gesù è vero e non potrebbe parlare come parla se non facesse la ‘fatica, ‘quella’ fatica, di perdonarci. La stessa difficoltà di mettere in pratica il Vangelo sta a dimostrare che è vero e credibile. Il nostro gesto di perdonare fa scendere dentro di noi il balsamo dolcissimo della consolazione e della giustizia, perché rimette le cose a posto.
 
Renzo, scampato alla peste, torna a Milano in cerca di Lucia. Nel lazzaretto incontra fra Cristoforo che si occupa dei malati. E parlando dei suoi guai a partire da don Rodrigo, gli monta la rabbia e promette di ucciderlo se è scampato alla peste. Fra Cristoforo, a quelle parole, ripreso il vigore di un tempo, lo strattona e dice: -“Guarda, sciagurato!” E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l’altra dinanzi a sé, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all’intorno. “Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai tu quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene!”-. Una lavata di testa con lozione antiforfora. Renzo è mosso al pentimento e al perdono.  Si apre alla consolazione.
Ma è troppo lungo da riportare, troppo bello da riassumere. Capitolo XXXV de “I promessi sposi”.
 
(Valerio Febei e Rita)
 

Migranti, le proposte della Comunità di Sant’Egidio per una migrazione regolare

I salvataggi in mare, l'accoglienza, il decreto flussi, i minori non accompagnati: sono alcuni dei temi toccati dalle proposte concrete che la Comunità di Sant'Egidio rivolge alle istituzioni perché l'immigrazione non sia considerata una emergenza ma un fenomeno strutturale che può far crescere l'Italia

Dalla responsabilità dell’Europa nel salvare vite umane alla valorizzazione dei minori non accompagnati come risorsa per l’Italia. Sono alcune delle proposte che la Comunità di Sant’Egidio sottopone in queste ore all’attenzione delle istituzioni, perché le migrazioni siano affrontate come un fenomeno strutturale e non più come una emergenza.

“Basta morti in mare, la priorità è salvare vite umane. L’Europa si disinteressa e scarica tutto sull’Italia. Sui salvataggi in mare l’Europa deve essere messa di fronte alle proprie responsabilità, aiutando finanziariamente l’Italia. I fondi ci sono”: è la prima delle proposte per una immigrazione regolare illustrate da Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, durante una conferenza stampa che si è svolta oggi a Roma. Facendo riferimento alle ultime normative Impagliazzo ha anche chiesto di “tornare a portare le persone nei porti sicuri più vicini, perché così si aggiunge sofferenza a sofferenza”. “Bisogna smettere di pensare all’immigrazione come ad una emergenza e mettere in campo invece politiche a medio e lungo termine, perché il fenomeno è strutturale”.

L'intera proposta raccontata da Patrizia Caiffa continua a questo link:


Questa 80 Mostra del Cinema, dove ci ha invitato e ci invita a guardare?

Attenzione agli ultimi, ai migranti, a cercare di non lasciare mai indietro nessuno e a fare attenzione al dolore dell’altro con l’invito ad avere la capacità di metterlo al centro della nostra vita, uscendo da ristretto cerchio del nostro ego.



Non da critico ma da appassionato di cinema posso dire che questa edizione della Mostra di Venezia, l’ottantesima, è stata particolare sia per una qualità media dei film più alta delle ultime edizioni sia e soprattutto perché tutti hanno affrontato temi sociali anche scottanti. Personalmente ho visto 62 film, due dei quali sono una serie televisiva francese di 12 episodi di 50 minuti ciascuno e sei cotometraggi.

I premi sono andati a film di proposte d’autore di alta qualità, capaci di cogliere fratture e sfide del nostro presente: dalla condizione della donna (il Leone d’Oro a Povere creature firmato da Yorgos Lanthimos) al rapporto con la natura (il film del giapponese Ryusuke Hamaguchi Il male non esiste). Il tema dei migranti è stato al centro di due film premiati per la qualità del lavoro espressa da Matteo Garrone e Agnieszka Holland sui “cercatori di futuro”. Io capitano riscatta la nutrita ma deludente pattuglia italiana presente, però lo stile del regista scivola nella fiaba e, a mio avviso, per questo non riesce ad emozionare). Molto più coinvolgente ed efficace è Green Border un film potente nella denuncia con il suo cupo bianco/nero del “Game” tra Bielorussia e Polonia, nel quale si intrecciano le vite dei migranti, il lavoro “sporco” svolto dai militari (uno dei quali esprime tutto il disagio della sua doppia vita alla quale è costretto) e il districarsi tra le leggi delle Associazioni che cercano di portare aiuto con grande rischio personale.

 

Ma se si dovesse cercare un filo conduttore dello sguardo dove questa Mostra invita a guardare, non è solo l’attenzione agli “ultimi”, ai migranti, sul dovere di offrire aiuto (anche Comandante si inserisce su questo filone), nell’invito a cercare di non lasciare mai indietro nessuno, è piuttosto sul fare attenzione al dolore dell’altro con l’invito ad avere la capacità di metterlo al centro della nostra vita, uscendo da ristretto cerchio del nostro ego.

Ecco allora Memory nel quale due feriti dalla loro esistenza, si sostengono con tenerezza fronteggiando una precoce demenza per la quale Peter Sarsgaard (Coppa Volpi maschile) interpreta uno struggente ruolo di un uomo fragile e ferito, che trova un sussulto di serenità grazie alla storia d’amore con Sylvia. La famiglia si fa invece protagonista in Bastarden, un affresco storico che fotografa il bisogno di condivisione, di costruire legami familiari per dare senso alla propria esistenza. Lo rivela anche la sofferta e complessa storia d’amore tra Felicia e Leonard Bernstein in Maestro, insieme nonostante i deragliamenti e tiri mancini della vita.

 

Nella brillante e grottesca favola dark che ha vinto stra meritevolmente il Leone d’Oro, la protagonista Emma Stone fa una performance incredibile che ha subito affascinato. Nella sua interpretazione di Bella un passaggio importante, a mio avviso, è quello nel quale lei, che ha sempre vissuto in una realtà protetta, scopre che ci sono persone che vivono in una povertà estrema. Tra i pianti dona tutto quello che ha fino a rendersi lei stessa povera e “costretta” a sperimentare anche la prostituzione per poter sopravvivere. Certo, tutto in modo onirico compresi i paesaggi e le città, con quell’ingenuità che pervade tutto il film di una donna alla scoperta del mondo senza inibizioni e convenzioni sociali a lei totalmente estranee.

 

Anche in Dogman, che ha visto una performance stupefacente di Caleb Landry Jones, in lizza fino in fondo per la Coppa Volpi, interpreta un personaggio che da bambino ha subito molti abusi e maltrattamenti dal padre, tanto da convincersi che gli unici capaci di amore e fedeltà sono i cani e di questi si circonda. In una delle scene finali la psichiatra, che sta cercando di comprenderlo una volta che lui è finito in carcere, gli pone la domanda sul perché si sia confidato con lei e la sua risposta è stata “perché ho percepito che anche in te c’è dolore”. Quasi che questo sia la caratteristica che può unire gli esseri umani. Un film carico di simbolismo religioso, dalle sfumature cristologiche. Un film denso e importante.

Pure in La Bête (un film sul quale la critica si è divisa) in più parti compare la paura di poter soffrire in un rapporto con l’altro e, per questo vi sfugge continuamente. In una delle sequenze finali una veggente on-line dice all’interprete che non può dirgli nulla di più perchè lei è troppo chiusa nel suo io e per questo incapace di guardare a quanto accade attorno a lei. Quando alla fine i due personaggi potrebbero finalmente coronare il loro sogno d’amore, lei esplode in un grido disperato.

 

Mi ha lasciato sorpreso la Coppa Volpi femminile all’interprete di Priscilla mentre, a mio avviso, l’interpretazione maiuscola, raffinata, di Carey Mulligan, coprotagonista di “Maestro” avrebbe maggiormente meritato il premio.

 

Zobieta Z… (Woman off..) un film di forte problematicità ed intensità, affronta invece il tema di un uomo sposato (con un figlio) nel quale riemerge la sua natura di donna repressa fin dall’infanzia. Il cammino di conversione e riconoscimento della sua vera identità è complicato e reso improbo anche dalle leggi polacche. 

Il film non segue solo la traiettoria del protagonista nel suo faticoso percorso, ma allarga il campo anche ai suoi famigliari: in testa la moglie, che sulle prime si dimostra indignata e ferita, poi capace di perdonare ed essere solidale nella battaglia del marito tanto da giungere a promettergli che, quando sarà tutto finito, gli proporrà una scampagnata tra sole ragazze.

L’opera, non completamente ben riuscita, insiste sul senso d’amore e solidarietà che non deve mancare tanto in famiglia quanto nella società. Va però colto lo sforzo di costruire un film che favorisca dialogo e comprensione. 

 

El conde di Pablo Larrain ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, io direi che l’idea rileggere il trauma della dittatura di Pinochet tratteggiandolo come un vampiro insaziabile, era certamente buona ed alcune invenzioni, come quella di fare un frullato al gin con i cuori degli uccisi per assumerlo e così ringiovanire. Una storia dark, gotica e sarcastica girato in uno splendido bianco/nero (molti film hanno visto questa soluzione per esprimersi al meglio). Un film politico che mette sotto accusa non solo il dittatore cileno, ma anche altre figure dello stesso periodo (per esempio Margareth Thatcher) ma anche la Chiesa. L’originalità però finisce per perdersi in più di un rivolo che alla fine il film non decolla.


Tra gli altri film possono essere segnalati per l'attenzione che mettono su temi sociali Tatami sulle condizioni di pressione illiberale anche nel mondo dello sport che viene vissuta in Iran dalle donne (siamo nelle vicinanza dell'anniversario della morte di Mahsa Amini) e Yurt (Dormitory) sul tema di giovani che vivono compressi tra una Turchia laica e quella di Erdogan. Anche Holly, un film non riuscitissimo ma capace di far riflettere sulla capacità di suggestionare una giovane (bullizzata a scuola) che si autoconvince di avere poteri soprannaturali quando la sua unica capacità, che è un dono raro, è quella di saper ascoltare gli altri e farsi confidente delle loro difficoltà o problemi.


Chiudo citando altri due film che vale la pena di essere visti: Ferrari e lo splendido ironico affascinante giallo fuori concorso Hit man.

(Gianni Bacci)

Diplomazia. Ferrara: “Il Papa guarda ai popoli, non guarda agli apparati statali”

“La diplomazia della Santa Sede si sta profilando in modo sempre più stagliato”, dice l’ambasciatore al Sir, e “la prossima missione a Pechino del card. Zuppi inserisce un nuovo tassello, molto importante, perché almeno in parte la soluzione può passare per Pechino. Tuttavia, occorre grande realismo: la Santa Sede continua a lavorare soprattutto sul registro umanitario, che però ha necessariamente anche una dimensione politica”


“Mi pare che le questioni, nel medio e lungo periodo, non saranno più solo le armi in senso militare ma soprattutto l’arma diplomatica” e in questo quadro “la diplomazia della Santa Sede si sta profilando in modo sempre più stagliato”. Il Sir ha chiesto all’ambasciatore Pasquale Ferrara, attuale direttore generale degli Affari politici e di Sicurezza del Ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale, un punto sulla ricerca di una soluzione “diplomatica” al conflitto in Ucraina, alla luce della non facile “offensiva di pace” portata avanti dalla Santa Sede. Papa Francesco si trova in queste ore in Mongolia, terra tra Russia e Cina, e Pechino sarà la nuova tappa – dopo Kiev, Mosca e Washington – del suo “inviato di pace” card. Matteo Zuppi.


L'intera intervista a questo link:

https://www.agensir.it/europa/2023/09/01/diplomazia-ferrara-il-papa-guarda-ai-popoli-non-guarda-agli-apparati-statali/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2

Il costo della guerra. Così Mosca ha adattato la sua economia al conflitto

L’economia russa ha resistito ai contraccolpi del conflitto e essere ancora in uno stato ottimale. Tuttavia, quest’efficienza non può durare per sempre… Quali sono gli orizzonti temporali?

A diciotto mesi dall’invasione su larga scala dell’Ucraina, l’economia della Federazione Russa continua ad essere lontana dal tracollo. Anzi, in alcuni settori sta attraversando un “momento di floridità”: la produzione di veicoli blindati cingolati o semi-cingolati registrata nel giugno di quest’anno, ad esempio, è aumentata del 50% rispetto al giugno 2022, mentre la Banca Centrale riporta che nel primo trimestre del 2023 le imprese abbiano registrato la carenza di lavoratori più alta sin dal 1998, primo anno in cui simili dati sono stati raccolti.

Ovviamente, questo genere di cifre è prettamente contingenziale. Dati simili sono tipici di situazioni di conflitto, con la produzione militare sostenuta da una crescente spesa pubblica e l’arruolamento di persone in età lavorativa che attinge dagli stessi bacini di riferimento dell’impresa. Così come lo è un’inflazione rampante, altro fenomeno registrato in Russia nel periodo successivo all’inizio delle ostilità. Insomma, una vera e propria economia di guerra, ristrutturata ad hoc per garantire la massima efficacia dell’apparato bellico al minimo costo da parte della società.

Una macchina, quella messa in moto da Putin, che al momento sembra reggere ...

L'articolo di Lorenzo Piccioli continua a questo link:

https://formiche.net/2023/08/costo-guerra-mosca-conomia-conflitto/



Xi prepara la festa, ma come sono andati questi dieci anni di Via della Seta?

Un decennio fa il leader cinese Xi lanciava la sua iniziativa-faro che oggi sembra aver perso smalto. Inoltre, presto potrebbe dover fare a meno dell’Italia, primo e unico Paese del G7 ad avervi aderito con il governo Conte. Per il futuro, occhio alla parte “green”

Dieci anni fa, nel corso di una visita in Kazakistan, il leader cinese Xi Jinping lanciava la sua iniziativa-faro: l’infrastruttura geopolitica denominata “Belt and Road Initiative”. “Promuovere l’amicizia tra le persone e creare un futuro migliore” era il titolo del suo discorso tenuto alla Nazarbayev University di Astana. Cinque anni e mezzo più tardi l’Italia sarebbe diventata il primo e unico Paese del G7 ad aderire al progetto per collegare la Cina al Medio Oriente e all’Europa.

Oggi l’iniziativa, in Italia più nota come Via della Seta, compie dieci anni. Il governo Meloni sembra deciso a non rinnovare il memorandum d’intesa siglato dal governo Conte I. Anche alla luce della ricorrenza e della rilevanza dell’Italia, l’uscita sta avvenendo in modo silenzioso. Nella recente missione in Cina di Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri italiano, entrambe le parti hanno voluto evidenziare che il partenariato strategico che unisce i due Paesi dal 2004 è più forte del memorandum.

Ma a che punto è la Via della Seta? Jacob Mardell, esperto di Cina già al centro studi tedesco Merics e oggi coordinatore editoriale di n-ost, ha analizzato la situazione in cinque punti.

L'analisi di Gabriele Carrer e Emanuele Rossi continua a questo link:

https://formiche.net/2023/09/dieci-anni-via-della-seta-mardell/