La revisione del modo di essere chiesa ha (e non può che avere) implicanze dirette sulle varie componenti del tessuto ecclesiale, in particolare sui carismi e sui ministeri che vanno sempre più ripensati in un’ottica comunitaria e con l’obiettivo di far crescere partecipazione e corresponsabilità. La comunità cristiana non può essere concepita come una massa di individui, che ricercano ciascuno la soddisfazione del proprio bisogno religioso, ma come una realtà viva e articolata in cui ogni fedele è chiamato a fornire il proprio insostituibile apporto all’edificazione della casa comune.
Nel contesto di questa visione di chiesa va inserito anche il ruolo del prete, che riveste una rilevante importanza in ragione del particolare servizio che è chiamato a svolgere. L’ecclesiologia del Vaticano II, con l’introduzione delle due grandi categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” ha segnato con chiarezza l’ambito e la modalità di esercizio di tale servizio, mettendo l’accento sulla necessità di inscriverlo all’interno (non dunque al di fuori o al di sopra) della comunità e di finalizzarlo alla sua crescita.
Le difficoltà attuali
- La perdita di autorità
Le due categorie accennate sono al centro della costituzione Lumen gentium, dove l’aver anteposto il capitolo sul “popolo di Dio” a quello dedicato alla gerarchia – una vera “rivoluzione copernicana” secondo alcuni – ha determinato il passaggio da una concezione verticistica di chiesa a una concezione di chiesa “dal basso”, radicata nel sacerdozio comune dei fedeli che scaturisce dal battesimo; mentre a sua volta, l’aver messo al centro della riflessione il concetto di “comunione” ha reso trasparente l’esigenza di sviluppare una forma di unità differenziata e pluralistica, frutto del contributo responsabile di tutti i fedeli. Una chiesa dunque non più egemonizzata da una élite di eletti, la ecclesia docens, e costituita da una pletora assai più numerosa di fedeli, la ecclesia discens, il cui compito è quello di sottostare agli orientamenti dottrinali e alle direttive pastorali dettate dai primi.
Le difficoltà ad accettare di fatto questa visione da parte di chi riveste un ruolo gerarchico – dal papa ai vescovi e ai preti – dopo secoli di clericalismo si è ben presto manifestata. Alla perdita del ruolo sociale assai rilevante nell’ambito di una società chiusa come quella preindustriale si è accompagnata, grazie alle scelte fatte dal Concilio, il venir meno di un supporto istituzionale, che garantiva al prete l’attribuzione di una indiscussa autorità dalla quale ricavava autoaffermazione, gratificazione e sicurezza. L’abbandono dei ruoli del passato ha dunque lasciato il posto all’esercizio di una funzione, che oltre a sminuirne il potere decisionale, esige l’acquisizione di particolari attitudini, quali l’autorevolezza personale, la capacità di dialogo e lo spirito di servizio.
L'articolata riflessione di Giannino Piana continua a questo link:
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