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Per il momento da Venerdì 30 maggio 2025 questo Blog sarà implementato solo con notizie ecclesiali della Parrocchia. I Post con la proposta...
L'educazione sessuale? certo che va fatta, ma ...
«Il massacro a Gaza e in Cisgiordania è terrorismo»
«Difendersi dall'aggressione di Hamas è un dovere. Difendersi dall'esistenza stessa del popolo palestinese è un crimine contro l'umanità. L'assumere criteri avvocateschi e corporativi a protezione acritica da ogni critica è il maggior contributo che gli ebrei possano dare all'antisemitismo» Se ogni critica viene respinta come "antisemita", l'accusa di antisemitismo diventa una pretesa di privilegio: quello di essere esentati dalla critica in memoria della Shoà
Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano.
Tra Hamas e la politica di destra di Israele c’è stato un antagonismo collusivo. In che cosa collusivo? Entrambi convergevano nel rifiuto del compromesso di pace...
L'intervista a cura di Umberto De Giovannangeli continua a questo link:
https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202404/240424levidellatorredegiovannangeli.pdf
"Habemus Papam”, la mostra di Maupal per Francesco a Venezia
Nella città lagunare aperta al pubblico l'esposizione con le opere dello street artist per dare il benvenuto al Papa in visita a Venezia
Dai vicoli di Borgo Pio a Roma alle calli di Venezia, la street art di Mauro Pallotta, meglio conosciuto come Maupal, è sbarcato in Laguna nel complesso della ex chiesa di San Lorenzo, nel sestiere di Castello con le sue opere: Habemus Papam, la mostra vede Papa Francesco come protagonista. Dal primo famoso poster del Papa supereroe con la valigetta nera dei "valores", alle immagini del Pontefice che confessa con le cuffie o gioca a pallavolo con alcuni bambini schiacciando il cuore oltre la rete dell'odio ("hate") o ancora che disegna una colomba, simbolo di pace, su un muro di Roma, fino alle cinque icone diffuse durante la Quaresima 2024 dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale per accompagnare il Messaggio del Pontefice nel tempo di preparazione alla Pasqua.
“È il mio percorso dedicato al Papa in questi oltre dieci anni”, ha detto Maupal all'inaugurazione della mostra, realizzata in collaborazione con il Comune di Venezia. Sono opere create "attraverso una grafica comprensibile da tutti, anche da un bambino di 4 anni", ha affermato. Tutte "rappresentano i vari step che Papa Franceco ha affrontato in questi anni".
Papa Francesco a Venezia: fotocronaca e link con brevi sintesi
Nei link trovate una fotocronaca e una breve sintesi di quanto ha detto
V Domenica di Pasqua - Gv 15,1-8
L’invito di questo Evangelo è quello di non concentrarsi su nostri difetti cercando di correggerli ma a vivere serenamente orientando la propria vita per il bene degli altri. È compito del Vignaiolo, del Padre, quello di "purificare" i tralci che siamo noi perché sia possibile che i nostri frutti maturino in pienezza.
Gli Evangeli del periodo pasquale ci conducono prima a comprendere le nuove caratteristiche della presenza di Gesù risorto nella Comunità dei discepoli, in quale forma o meglio quali siano le realtà nelle quali lui si fa presente facendoci superare le incertezze, lo scoramento dopo la sua morte. Le mani e il costato ferito che ci mostra, li troviamo oggi nelle situazioni di dolore nelle quali l’umanità costantemente sprofonda e l’invito, il “comando” datoci è quello di continuare a fare quello che hanno fatto le sue mani: continuare a “strappare” gli uomini dal mondo vecchio dominato dall’egoismo introducendoli nel Regno del Padre al cui centro c’è il bisogno dell’altro.
Il secondo passo che la Liturgia di questo periodo ci propone è quello di comprendere meglio quest’ultimo aspetto e, nelle ultime due domeniche, ci ha proposto due immagini: quella del “Pastore bello” che pone la sua vita davanti a noi invitandoci ad inserirsi in essa come i tralci in una vite (è l’immagine di oggi) e continuare così la sua missione.
Dopo la sua morte il Risorto ha insegnato ai suoi e a noi oggi, a vivere quella percezione di vuoto che la sua nuova realtà faceva inizialmente percepire come il luogo della fede e a rendersi conto che questa, da una parte costringe a prendere coscienza della propria libertà da vivere nella corresponsabilità, dall’altra preserva dal voler riempiere quel “vuoto” con degli idoli che preservi dall’angoscia e dalle incertezze. In fin dei conti è quanto è avvenuto anche dopo la creazione al termine della quale Dio si è “ritirato” lasciando all’uomo il compito di portare a compimento la sua opera.
Come quella della scorsa settimana, anche la pericope di questa V Domenica inizia con Gesù che afferma: “Io sono” rivendicando così per sé il nome di quel Dio che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente, aggiungendo d’essere “la vera vite” e lo è perché porta frutto. Questa espressione ritorna per ben sette volte (numero perfetto che indica la completezza) ed altrettante volte ritorna il verbo rimanere o, meglio perché più evocativo, dimorare.
Perché non è un verbo che indica un passivo adeguarsi in uno status quo, bensì desidera indicare la quotidiana fatica di porre i propri passi sulle orme di Cristo che, quando si volse a guardare i due discepoli del Battista che lo seguivano, chiese loro che cosa cercassero e, questi, gli risposero: “Rabbì, dove dimori?” e Gesù rispose: “Venite e vedrete” (Gv 1,37-39). Lo stare dove dimora il Signore è accettare di inserirsi e rimanere nel suo agire che è quello del Padre. Un amore che avvolge e non è l’esperienza di un momento, ma l’accettare di inserirsi in una storia di amore sempre più dinamica. Sta anche nella nostra esperienza umana: solo quando un rapporto di amore prende continuità si fortifica e porta a condividere pienamente le vite allargandone sempre più i confini verso gli altri. Il rapporto con il Signore giunge a far dire a Paolo “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,19). Inoltre la sequela, che porta a dimorare nell’amore di Cristo, diviene il fondamento per poter rimanere come fratelli nella comunione ecclesiale. Si sarà così capaci di portare “molto frutto” ma senza questo rapporto intimo con Gesù non si può “fare nulla” come Lui stesso “non può far nulla da se stesso se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19). È il rendersi conto di questo “nulla” che offre al Padre la possibilità di agire attraverso il Figlio e, con Lui, attraverso noi nel mondo.
Troppo spesso si pensa di essere già discepoli, di essere già cristiani e di essere a posto così. Questo Evangelo ricorda che la vita cristiana è un cammino in cui, strada facendo, si impara a divenire discepoli. È un andare in cui la fecondità è possibile grazie a una potatura che consente l’innesto vivificante in Cristo, il vitigno dal quale fluisce la linfa vitale. Se un tralcio se ne stacca, finisce per seccarsi e non portare più frutto: diventa inutile.
Ma anche si sa che in un tralcio dopo lo spuntare di tre grappoli, perché questi possano maturare al massimo, i viticci seguenti vanno con continuità eliminati. È quello che fa il Padre che, non tanto “pota” il tralcio che sta portando frutto, quanto “lo purifica” (questo il significato del termine greco usato) ed è questo l’agire del Padre con tutti i discepoli. Tutti ovviamente abbiamo dei difetti ma l’invito di questo Evangelo è quello di non concentrarsi su questi ma a vivere serenamente orientando la propria vita per il bene degli altri; le imperfezioni, i difetti, i limiti se sono d’impedimento nel portare più amore, sarà il Padre senza quasi ce ne accorgiamo che ci orienterà al loro superamento. È il compito del vignaiolo, non il nostro. Pensare di far nostro questo compito, porterebbe ad accentrare l’attenzione solo su noi stessi perdendo di vista il bisogno dell’altro e facendoci così perdere il flusso della linfa.
(BiGio)
Senza di me non potete far nulla. Nulla di cosa?
La società dell'analgesico
Perché mai non dovremmo tutti desiderare un’anestesia eterna che ci doni l’incapacità di provare dolore, sofferenza o fatica? Considerata superficialmente, la questione pare indiscutibile: se esiste un modo per eliminare tutto ciò che mi fa soffrire, perché mai non dovrei buttarmici a capofitto? Se davvero esiste un “lubrificante universale” in grado di eliminare tutti gli attriti, gli spigoli e le asperità dell’esistenza, a chi devo dare tutti i miei soldi per averlo?
Chi la pensa così fraintende due cose fondamentali: la prima è la funzione del dolore, la seconda è il rapporto tra la mente e la realtà. Sono due cose sulle quali bisogna soffermarsi un po’, per comprenderne le implicazioni. In una società in cui l’analgesico è sempre a portata di mano e il benessere è riuscito a penetrare ogni anfratto della vita, è molto facile fraintendere la natura e la funzione del dolore. L’idea che soffrire sia una malattia e non il sintomo di una malattia ha convinto molti che intervenendo sul dolore si riesca a debellare la malattia.
In alcuni casi è vero, e lo stesso vale per una delusione d’amore, il tradimento di un’amicizia, la morte di un parente: in tutti questi casi, la sofferenza che consegue al fatto potrebbe essere letta come un puro effetto collaterale e perciò meritevole di essere soppressa. Come un analgesico non andrà a inficiare la guarigione, altrettanto un antidepressivo non ritarderà l’elaborazione del lutto. Anzi: essi potrebbero facilitare, in una certa misura, la ripresa di una normalità che è stata messa in pausa da quell’inconveniente. In altre parole, il significato di quel dolore ci risulta già manifesto, e non ha altre funzioni se non quella di segnalare quel che già sappiamo.
Ma il dolore, tanto quello fisico quando quello psicologico ed emotivo, non è sempre così. Un dolore all’anca potrebbe segnalare ...
L'intera analisi di Rick DuFer continua a questo link:
https://www.viandanti.org/website/la-societa-dellanalgesico/
Il 24 aprile è stato l’anniversario del genocidio armeno e l’ideologia degli autori. La riflessione di Cristiano
La lezione del genocidio armeno è attualissima e riguarda la deriva che i nazionalismi e l’esclusivismo etnico possono causare. Ecco che emerge un’urgenza. La Dichiarazione sulla fratellanza umana firmata ad Abu Dhabi da papa Francesco e dall’imam dell’università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyeb, mira a porci al riparo anche da queste degenerazioni. La riflessione di Riccardo Cristiano
Quella del 24 aprile è una data importante per gli armeni e per il riconoscimento del loro genocidio, ancora negato dai turchi. Ricordarlo è importante anche per capirlo, e coglierne la lezione, sempre valida.
Nella storia delle terre che furono dell’impero ottomano c’è stata da subito confusione tra comunità religiosa e nazione. Lo dice la stessa della parola che fu assunta per tradurre questo vocabolo sconosciuto , “nazione”, introdotto in quei territori dalla spedizione napoleonica. Non esistendo, all’inizio fu usato il vocabolo “millet”, che indicava le comunità religiose che vivevano nell’impero ottomano. Ecco come mai nelle cronache del tempo si parla così di sovente di “nazione cristiana”. Tutto sommato all’inizio del Novecento l’indipendenza della Bulgaria fu proclamata in una chiesa, nella chiesa dei quaranta martiri. E anche l’indipendenza greca fu molto segnata dal fattore religioso, con transfer di cristiani e musulmani da un paese all’altro, per creare la nazionalista uniformità: per dire greci in Grecia, Turchia in Turchia si diceva basta minareti in Grecia, basta campanili in Turchia. Finiva un mondo problematico ma plurale.
Il sistema ottomano non era di certo un sistema perfetto, ma per molto tempo era stato preferibile a quello europeo che al tempo non prevedeva alcuna convivenza con l’Altro, tanto che sappiamo della triste storia delle espulsioni degli ebrei e dei mori dalla cattolicissima Spagna, tanto per fare l’esempio più noto. Gli ottomani invece ...
La riflessione di Ricardo Cristiano continua a questo link:
https://formiche.net/2024/04/genocidio-armeno-ideologia-degli-autori/#content
Un digiuno per la pace - Dialogo tra Fiammetta e Giovanni
Più si prolunga la guerra più la pace sembra irraggiungibile, e con il passare del tempo sembra anche aumentare il rischio di assuefazione, si finisce col fare l’abitudine alla guerra e a considerarla normale e inevitabile, una cosa con cui si deve convivere. Invece non è vero. La pace non è un miraggio o un’illusione, non è filosofia romantica da nostalgici hippies, la pace è un diritto dei popoli. Ed è un dovere delle istituzioni garantirla.
Bisogna ascoltare e vedere con gli occhi dell’altro. Sembra impossibile, ma è quanto avvenuto in Sudafrica quando nel 1990 si è fatto l’accordo per la fine dell’apartheid con l’ANC considerato fino ad allora un gruppo terroristico con a capo Nelson Mandela, “terrorista” liberato dopo 27 anni di detenzione. Lo stesso sembrava avvenire con gli accordi di Oslo del 1993 tra Israele e OLP, ma l’esito è stato diverso, l’avvio del processo di pace è stato fatto arenare determinando le premesse a tutto quel che è accaduto poi.
Una riflessione sul 25 Aprile
Non è facile scrivere a proposito del 25 Aprile, il rischio è cadere nella retorica e nulla uccide la storia più della retorica. Cercheremo di proporre un percorso diverso che privilegi aspetti oggi poco noti o addirittura dimenticati di quegli anni.
Quale immagine abbiamo maggiormente presente quando parliamo della Liberazione d’Italia? Sicuramente le sfilate dei partigiani nelle città liberate oppure una delle tante fotografie nelle quali vediamo singoli partigiani pronti al combattimento. La guerra in montagna è stata una componente forte della lotta resistenziale che ha coinvolto decine e decine di migliaia di italiani dall’8 settembre del ’43 fino al 25 Aprile ‘45. I partigiani hanno scritto pagine epiche e innumerevoli sarebbero i fatti d’arme da ricordare. Eppure se ci fermassimo alla lotta partigiana in montagna o in città non avremmo un quadro completo della Resistenza, che chiama in causa altre memorie oggi da riscoprire.
La riflessione del prof. Giancarlo Restelli continua a questo link:
Nel ventre della parola: Quando persino sdegno e rabbia possono diventare una preghiera
«Tra le varie realtà presenti prima della creazione, oltre alla Toràh c'è il pentimento. Come possibile che ci fosse il pentimento prima del peccato? Nella Bibbia anche Dio si pente, e certo non aveva peccato. Il pentimento è qualche cosa che l'uomo tiene con sé, come si tiene in casa una medicina anche se non si è ammalati.»
Questo brano di Paolo De Benedetti continua a questo link:
L’Italia cresce dell’86% nell’export di armamenti pesanti
Si colloca al sesto posto a livello mondiale. L’altro dato sorprendente è che il 71% delle nostre armi va ai paesi mediorientali, Qatar, Egitto e Kuwait in testa. Gli Stati Uniti si confermano al vertice tra gli esportatori. Cala la Russia e precipitano gli acquisti africani. L’Europa raddoppia le importazioni
Ma il dato davvero sorprendente è la crescita esponenziale dell’export: +86%, passando dal 2,2% al 4,3% dei volumi complessivi internazionali esportati. Già nel report dell’anno scorso il Sipri certificava una nostra crescita del 45%.
Quest’anno ci indica come il paese con la crescita maggiore. Per dire, la Francia al secondo posto è cresciuta del 47%. Ma a preoccupare è conoscere dove vanno a finire le nostre armi: al primo posto troviamo il Qatar (27%), poi l’Egitto (21%) e al terzo il Kuwait (13%). Ma siamo anche il secondo esportatore in Turchia (rappresentiamo il 23% delle armi acquistate da Ankara) e il terzo in Israele (0,9%). Complessivamente il 71% delle esportazioni italiane è stato destinato al Medioriente....
L'articolo di Gianni Ballarini continua a questo link:
https://www.nigrizia.it/notizia/italia-armi-sipri-medioriente-crescita
Servizio sanitario nazionale. Turati (Un. Cattolica): “Manca il dibattito su come si vogliono davvero spendere le risorse”
“Non credo che sia diffusa la percezione di alcune difficoltà del sistema, se non per la questione dei tempi di accesso. Aspetto sul quale tutti sono preoccupati”, afferma il docente di Scienza delle Finanze, secondo cui “non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi”. “Posto che nessuno sarebbe contrario ad aumentare la spesa per la sanità pubblica, il tema è da dove si recuperano le risorse”, aggiunge “convinto che dovremmo attivare processi di revisione della spesa che ci consentano di spendere meglio”
Vite ferme: storie di migranti in attesa
Si parla molto, e molto si scrive, di asilo, di rifugiati, di politiche di accoglienza e più ancora di non-accoglienza. Al netto delle trappole del senso comune e delle retoriche ostili, quelle che confondono immigrati e rifugiati, parlano di una crescita “esponenziale” dell’immigrazione senza guardare i dati, pensano che l’Italia sia il crocevia delle migrazioni verso l’Europa a causa della sua posizione geografica, anche i discorsi più seri e fondati trattano quasi sempre del fenomeno dall’alto e dall’esterno.
Criticano le politiche governative, e ci vuol poco; fanno le pulci al sistema italiano di gestione dell’asilo, anche in questo caso con poca fatica; attaccano l’accoglienza “umanitaria”, che non piace agli intellettuali “impegnati” e ai loro epigoni, ma raramente hanno osservato da vicino e dall’interno la vita dei centri di accoglienza e l’esperienza quotidiana delle persone lì ospitate.
Il libro di Paolo Boccagni da poco pubblicato ha invece il merito e insieme l’originalità di raccontare un’esperienza di osservazione diretta, ravvicinata e prolungata della vita di numerosi richiedenti asilo accolti in una struttura della città di Trento.
Il filo conduttore del lavoro è rappresentato dagli spazi del centro, dalla portineria, all’ufficio degli operatori, alle camere che ospitano le persone accolte. Nelle stanze prende forma l’esistenza sospesa delle persone, di cui Boccagni evita volutamente di raccontare le origini e la storia, per concentrarsi sulla loro quotidianità: come vivono lo spazio loro assegnato, come interagiscono con gli operatori e con gli altri ospiti, come si misurano con le regole della convivenza, come ...
L'intera recensione di Maurizio Ambrosini è a questo link:
UE: popoli, non populismi
Otto vescovi del confine che spaccava l’Europa nella prima metà del Novecento (Francia-Germania) si sono ritrovati a Sey-Chazelle (Mosella, Francia) l’8 aprile. Nella casa di uno dei fondatori dell’Europa unita, Robert Schuman, hanno firmato una lettera pastorale dal titolo: Un nuovo respiro per l’Europa.
Il reportage di Lorenzo Prezzi è a questo link:
L’inclusione che esclude. Perché non ci interroghiamo sulla classe sociale?
Il 99% delle controversie sulle tematiche legate all’inclusione derivano dal modello “Big 8” concepito vent’anni fa da Deborah Plummer: orientamento sessuale, genere, nazionalità, età, etnia, disabilità mentale o fisica, religione e ruolo organizzativo.
Nelle aziende, la totalità delle azioni di intervento è su questi temi. Il nobile sforzo è quello di “neutralizzare” gli impatti negativi che queste dimensioni possono avere sulle traiettorie di carriera e sulle chance di occupazione. Se un’azienda non lo facesse, saremmo autorizzati a dire che – questa azienda – manifesta comportamenti discriminatori.
Ma, cosa manca in questo elenco?
L'intera analisi di Andrea Laudadio è a questo link:
Oggi è l'Earth Day: i 10 Comandamenti Green che ognuno di noi dovrebbe rispettare per salvare il Pianeta in "chiave artistica"
In occasione dell'Earth Day, vi suggeriamo una serie di comandamenti che ognuno di noi dovrebbe seguire ogni giorno per proteggere il nostro splendido e vulnerabile Pianeta
Il nostro Pianeta deve fare i conti con le crescenti minacce legate ai comportamenti dell’uomo, le cui conseguenze spaventose sono sotto gli occhi di tutti. Il tempo per salvare la Terra sta per scadere (come ribadito dagli scienziati di tutto il mondo) e oggi più che mai occorre ripensare le nostre azioni, a partire da quelle quotidiane che spesso diamo per scontate. Per sensibilizzare tutti sul futuro del Pianeta che ci ospita, greenMe ha lanciato l’iniziativa “Comandamenti Green”.
Si tratta di 10 comandamenti che tutti noi dovremmo interiorizzare e rispettare per agire concretamente, partendo dalla consapevolezza che non esiste un Pianeta B, come sottolineato più volte dagli attivisti che lottano contro i cambiamenti climatici.Ed è proprio da questa questa presa di coscienza che dovremmo ricominciare a prenderci cura della nostra cara Terra. Come? Sforzandoci il più possibile di proteggerla e non inquinarla per renderla un posto migliore sia per noi che per le altre specie animali e vegetali che vi abitano.
I 10 “Comandamenti Green”, grazie al talento e alla creatività dell’illustratrice Alessandra Loreti, sono proposti in chiave artistica a questo link:
https://www.greenme.it/ambiente/earth-day-comandamenti-green-salvare-pianeta/
Dal tramonto di oggi inizia la festa di Pasqua ebraica
È cosa nota che la festa di Pesach celebra la liberazione degli ebrei dall’Egitto. Se è chiaro da cosa sono stati liberati, la domanda che ci si può porre è: sono liberi di fare cosa? Liberi di essere chi? Di stare dove?
IV Domenica di Pasqua - Gv 10,11-18: Il pastore "bello"
La proposta di Gesù è quella di essere come lui una persona “bella”, capace cioè di vivere e trasmette in pienezza l’amore del Padre a tutti coloro che incontra fino al dono della propria vita, “consumando” la propria vita, vivendo in questo modo fino alla fine.
In questo periodo pasquale la Liturgia ci accompagna a piccoli passi a comprendere che Gesù non ha mai lasciato i suoi che si accorgono come stia in mezzo a loro, come la sua presenza sia stabile, non eterea. C’è poi l’invito a riconoscerlo non attraverso il suo volto, ma nel suo corpo con i segni della crocifissione, che oggi ci appaiono in una umanità provata dal dolore, dalle ferite inflitte dall’egoismo, dalla prevaricazione del potere, dal giocare con la vita delle persone nascondendosi dietro alle ideologie o alle strategie per raggiungere obiettivi politici o strategici. I molti conflitti di oggi ce lo dicono ma non serve andare lontano, anche all’interno delle nostre Comunità questo accade quando si vuole far passare le proprie idee, quando non si sa sostenere il confronto e all’autorevolezza si fa sostituire una autorità a volte senza fondamenta che la fa rifiutare o, peggio, subire passivamente. L’invito di tenere fisso lo sguardo sulle sue mani e sul suo costato è anche per noi; in questo modo potremo avere sempre davanti agli occhi quello che hanno fatto quelle mani che hanno costruito soltanto amore. Avremo così sempre presente il compito che il Risorto ci ha dato: mostrare a tutto il mondo le sue mani nelle nostre mani. Questo ci permetterà di strappare (questa è la radice del verbo “perdonare”) tutti i popoli dal mondo vecchio nel quale domina l’ego del potere e non del servizio che, invece, è la caratteristica del Regno del Padre che Gesù ha portato fra di noi e che ci chiede di implementare continuamente. È un compito che il Risorto ha affidato alla Comunità, non ai singoli e ogni Comunità dovrebbe costantemente verificare che cosa ha fatto e sta facendo di questo mandato ricevuto.
All’interno di questa cornice, l’Evangelo oggi ci propone Gesù che si definisce come il “buon pastore”. La nostra mente corre subito all’immagine bucolica del Signore con una pecorella sulle spalle, ma è una immagine indotta da una traduzione errata. Infatti il termine greco “kalos” non significa “buono” bensì “bello”, condensando in questo aggettivo la somma di tutte le qualità che portano a definire così una persona, mentre l’altro aggettivo non è onnicomprensivo.
C’è una qualità sopra tutte le altre che qualifica Gesù ed è quella che lo porta a dare la propria vita per le pecore. Anche qui però la traduzione non aiuta a comprendere il vero senso profondo. Il verbo greco utilizzato (tithemi) significa “porre”. Parafrasando: Gesù afferma che lui “pone la propria vita davanti alle pecore” e, con questo, intende proporre di essere come lui una persona “bella”, capace cioè di vivere e trasmette in pienezza l’amore del Padre a tutti coloro che incontra fino al dono della propria vita, “consumando” la propria vita, vivendo in questo modo fino alla fine.
Di nuovo l’accento cade sulla differenza tra chi guarda solo ai propri interessi tirando a campare, guadagnando senza preoccuparsi di quanto gli accade attorno e chi, invece, guardando alle situazioni degli uomini che incontra, riversa su di loro l’amore del Padre senza pensare a se stesso. I primi sono i lupi e i mercenari che abbandonano il gregge al loro destino.
Questo essere da parte di Gesù segno efficace dell’amore del Padre tra gli uomini, l’evangelista Giovanni lo sottolinea anche facendo iniziare il primo versetto della pericope odierna con quel “Io sono” per richiamare il Nome di Dio. Quando Mosè chiese a Dio quale fosse il suo nome, ricevette come risposta dal roveto ardente “Io sono colui che sono”, vale a dire “Non importa tanto il mio nome ma quello che faccio per te sempre, giorno dopo giorno”.
Gesù riprende: “Io sono il pastore, quello bello perché conosco le mie pecore, le mie pecore conoscono me, io conoscoil Padre, il Padre conosce me”. Questo verbo nella Scrittura è sempre utilizzato per sottolineare quello realizza il rapporto sponsale tra due persone: due vite che si sintonizzano, “ponendo” (“dando”) reciprocamente la propria vita a favore dell’altro, perché ambedue possano raggiungere quella pienezza alla quale sono chiamati.
Gesù continua: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare”. Qui si deve fare attenzione: poco prima (vv 3-4) ha affermato che lui è venuto per condurre fuori le pecore da ogni recinto e non desidera affatto rinchiuderle tutte in un nuovo ovile. Il “comando” che ha ricevuto dal Padre è quello “tirar fuori” tutti gli uomini da quei recinti che le tradizioni religiose e laiche costruiscono attorno a loro per garantirsene il controllo.
“Tutte ascolteranno la mia voce” cioè realizzeranno la proposta di una nuova umanità dove al centro sta il bisogno dell’altro e non il ristretto proprio interesse personale. Questo è quel mettere la propria vita a disposizione di tutti in un atto libero di amore che realizza l’uomo “bello” perché viene ad essere nella pienezza della misericordia del Padre e suo strumento concreto nella nostra realtà quotidiana.
(BiGio)