Perché mai non dovremmo tutti desiderare un’anestesia eterna che ci doni l’incapacità di provare dolore, sofferenza o fatica? Considerata superficialmente, la questione pare indiscutibile: se esiste un modo per eliminare tutto ciò che mi fa soffrire, perché mai non dovrei buttarmici a capofitto? Se davvero esiste un “lubrificante universale” in grado di eliminare tutti gli attriti, gli spigoli e le asperità dell’esistenza, a chi devo dare tutti i miei soldi per averlo?
Chi la pensa così fraintende due cose fondamentali: la prima è la funzione del dolore, la seconda è il rapporto tra la mente e la realtà. Sono due cose sulle quali bisogna soffermarsi un po’, per comprenderne le implicazioni. In una società in cui l’analgesico è sempre a portata di mano e il benessere è riuscito a penetrare ogni anfratto della vita, è molto facile fraintendere la natura e la funzione del dolore. L’idea che soffrire sia una malattia e non il sintomo di una malattia ha convinto molti che intervenendo sul dolore si riesca a debellare la malattia.
In alcuni casi è vero, e lo stesso vale per una delusione d’amore, il tradimento di un’amicizia, la morte di un parente: in tutti questi casi, la sofferenza che consegue al fatto potrebbe essere letta come un puro effetto collaterale e perciò meritevole di essere soppressa. Come un analgesico non andrà a inficiare la guarigione, altrettanto un antidepressivo non ritarderà l’elaborazione del lutto. Anzi: essi potrebbero facilitare, in una certa misura, la ripresa di una normalità che è stata messa in pausa da quell’inconveniente. In altre parole, il significato di quel dolore ci risulta già manifesto, e non ha altre funzioni se non quella di segnalare quel che già sappiamo.
Ma il dolore, tanto quello fisico quando quello psicologico ed emotivo, non è sempre così. Un dolore all’anca potrebbe segnalare ...
L'intera analisi di Rick DuFer continua a questo link:
https://www.viandanti.org/website/la-societa-dellanalgesico/
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