IV Domenica di Pasqua - Gv 10,11-18: Il pastore "bello"

La proposta di Gesù è quella di essere come lui una persona “bella”, capace cioè di vivere e trasmette in pienezza l’amore del Padre a tutti coloro che incontra fino al dono della propria vita, “consumando” la propria vita, vivendo in questo modo fino alla fine. 



In questo periodo pasquale la Liturgia ci accompagna a piccoli passi a comprendere che Gesù non ha mai lasciato i suoi che si accorgono come stia in mezzo a loro, come la sua presenza sia stabile, non eterea. C’è poi l’invito a riconoscerlo non attraverso il suo volto, ma nel suo corpo con i segni della crocifissione, che oggi ci appaiono in una umanità provata dal dolore, dalle ferite inflitte dall’egoismo, dalla prevaricazione del potere, dal giocare con la vita delle persone nascondendosi dietro alle ideologie o alle strategie per raggiungere obiettivi politici o strategici. I molti conflitti di oggi ce lo dicono ma non serve andare lontano, anche all’interno delle nostre Comunità questo accade quando si vuole far passare le proprie idee, quando non si sa sostenere il confronto e all’autorevolezza si fa sostituire una autorità a volte senza fondamenta che la fa rifiutare o, peggio, subire passivamente. L’invito di tenere fisso lo sguardo sulle sue mani e sul suo costato è anche per noi; in questo modo potremo avere sempre davanti agli occhi quello che hanno fatto quelle mani che hanno costruito soltanto amore. Avremo così sempre presente il compito che il Risorto ci ha dato: mostrare a tutto il mondo le sue mani nelle nostre mani. Questo ci permetterà di strappare (questa è la radice del verbo “perdonare”) tutti i popoli dal mondo vecchio nel quale domina l’ego del potere e non del servizio che, invece, è la caratteristica del Regno del Padre che Gesù ha portato fra di noi e che ci chiede di implementare continuamente. È un compito che il Risorto ha affidato alla Comunità, non ai singoli e ogni Comunità dovrebbe costantemente verificare che cosa ha fatto e sta facendo di questo mandato ricevuto. 

All’interno di questa cornice, l’Evangelo oggi ci propone Gesù che si definisce come il “buon pastore”. La nostra mente corre subito all’immagine bucolica del Signore con una pecorella sulle spalle, ma è una immagine indotta da una traduzione errata. Infatti il termine greco “kalos” non significa “buono” bensì “bello”, condensando in questo aggettivo la somma di tutte le qualità che portano a definire così una persona, mentre l’altro aggettivo non è onnicomprensivo. 

C’è una qualità sopra tutte le altre che qualifica Gesù ed è quella che lo porta a dare la propria vita per le pecore. Anche qui però la traduzione non aiuta a comprendere il vero senso profondo. Il verbo greco utilizzato (tithemi) significa “porre”. Parafrasando: Gesù afferma che lui “pone la propria vita davanti alle pecore” e, con questo, intende proporre di essere come lui una persona “bella”, capace cioè di vivere e trasmette in pienezza l’amore del Padre a tutti coloro che incontra fino al dono della propria vita, “consumando” la propria vita, vivendo in questo modo fino alla fine. 

Di nuovo l’accento cade sulla differenza tra chi guarda solo ai propri interessi tirando a campare, guadagnando senza preoccuparsi di quanto gli accade attorno e chi, invece, guardando alle situazioni degli uomini che incontra, riversa su di loro l’amore del Padre senza pensare a se stesso. I primi sono i lupi e i mercenari che abbandonano il gregge al loro destino.

Questo essere da parte di Gesù segno efficace dell’amore del Padre tra gli uomini, l’evangelista Giovanni lo sottolinea anche facendo iniziare il primo versetto della pericope odierna con quel “Io sono” per richiamare il Nome di Dio. Quando Mosè chiese a Dio quale fosse il suo nome, ricevette come risposta dal roveto ardente “Io sono colui che sono”, vale a dire “Non importa tanto il mio nome ma quello che faccio per te sempre, giorno dopo giorno”.

 

Gesù riprende: “Io sono il pastore, quello bello perché conosco le mie pecore, le mie pecore conoscono me, io conoscoil Padre, il Padre conosce me”. Questo verbo nella Scrittura è sempre utilizzato per sottolineare quello realizza il rapporto sponsale tra due persone: due vite che si sintonizzano, “ponendo” (“dando”) reciprocamente la propria vita a favore dell’altro, perché ambedue possano raggiungere quella pienezza alla quale sono chiamati. 

Gesù continua: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare”. Qui si deve fare attenzione: poco prima (vv 3-4) ha affermato che lui è venuto per condurre fuori le pecore da ogni recinto e non desidera affatto rinchiuderle tutte in un nuovo ovile. Il “comando” che ha ricevuto dal Padre è quello “tirar fuori” tutti gli uomini da quei recinti che le tradizioni religiose e laiche costruiscono attorno a loro per garantirsene il controllo.

Tutte ascolteranno la mia voce” cioè realizzeranno la proposta di una nuova umanità dove al centro sta il bisogno dell’altro e non il ristretto proprio interesse personale. Questo è quel mettere la propria vita a disposizione di tutti in un atto libero di amore che realizza l’uomo “bello” perché viene ad essere nella pienezza della misericordia del Padre e suo strumento concreto nella nostra realtà quotidiana.

(BiGio)

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