L’invito di questo Evangelo è quello di non concentrarsi su nostri difetti cercando di correggerli ma a vivere serenamente orientando la propria vita per il bene degli altri. È compito del Vignaiolo, del Padre, quello di "purificare" i tralci che siamo noi perché sia possibile che i nostri frutti maturino in pienezza.
Gli Evangeli del periodo pasquale ci conducono prima a comprendere le nuove caratteristiche della presenza di Gesù risorto nella Comunità dei discepoli, in quale forma o meglio quali siano le realtà nelle quali lui si fa presente facendoci superare le incertezze, lo scoramento dopo la sua morte. Le mani e il costato ferito che ci mostra, li troviamo oggi nelle situazioni di dolore nelle quali l’umanità costantemente sprofonda e l’invito, il “comando” datoci è quello di continuare a fare quello che hanno fatto le sue mani: continuare a “strappare” gli uomini dal mondo vecchio dominato dall’egoismo introducendoli nel Regno del Padre al cui centro c’è il bisogno dell’altro.
Il secondo passo che la Liturgia di questo periodo ci propone è quello di comprendere meglio quest’ultimo aspetto e, nelle ultime due domeniche, ci ha proposto due immagini: quella del “Pastore bello” che pone la sua vita davanti a noi invitandoci ad inserirsi in essa come i tralci in una vite (è l’immagine di oggi) e continuare così la sua missione.
Dopo la sua morte il Risorto ha insegnato ai suoi e a noi oggi, a vivere quella percezione di vuoto che la sua nuova realtà faceva inizialmente percepire come il luogo della fede e a rendersi conto che questa, da una parte costringe a prendere coscienza della propria libertà da vivere nella corresponsabilità, dall’altra preserva dal voler riempiere quel “vuoto” con degli idoli che preservi dall’angoscia e dalle incertezze. In fin dei conti è quanto è avvenuto anche dopo la creazione al termine della quale Dio si è “ritirato” lasciando all’uomo il compito di portare a compimento la sua opera.
Come quella della scorsa settimana, anche la pericope di questa V Domenica inizia con Gesù che afferma: “Io sono” rivendicando così per sé il nome di quel Dio che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente, aggiungendo d’essere “la vera vite” e lo è perché porta frutto. Questa espressione ritorna per ben sette volte (numero perfetto che indica la completezza) ed altrettante volte ritorna il verbo rimanere o, meglio perché più evocativo, dimorare.
Perché non è un verbo che indica un passivo adeguarsi in uno status quo, bensì desidera indicare la quotidiana fatica di porre i propri passi sulle orme di Cristo che, quando si volse a guardare i due discepoli del Battista che lo seguivano, chiese loro che cosa cercassero e, questi, gli risposero: “Rabbì, dove dimori?” e Gesù rispose: “Venite e vedrete” (Gv 1,37-39). Lo stare dove dimora il Signore è accettare di inserirsi e rimanere nel suo agire che è quello del Padre. Un amore che avvolge e non è l’esperienza di un momento, ma l’accettare di inserirsi in una storia di amore sempre più dinamica. Sta anche nella nostra esperienza umana: solo quando un rapporto di amore prende continuità si fortifica e porta a condividere pienamente le vite allargandone sempre più i confini verso gli altri. Il rapporto con il Signore giunge a far dire a Paolo “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,19). Inoltre la sequela, che porta a dimorare nell’amore di Cristo, diviene il fondamento per poter rimanere come fratelli nella comunione ecclesiale. Si sarà così capaci di portare “molto frutto” ma senza questo rapporto intimo con Gesù non si può “fare nulla” come Lui stesso “non può far nulla da se stesso se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19). È il rendersi conto di questo “nulla” che offre al Padre la possibilità di agire attraverso il Figlio e, con Lui, attraverso noi nel mondo.
Troppo spesso si pensa di essere già discepoli, di essere già cristiani e di essere a posto così. Questo Evangelo ricorda che la vita cristiana è un cammino in cui, strada facendo, si impara a divenire discepoli. È un andare in cui la fecondità è possibile grazie a una potatura che consente l’innesto vivificante in Cristo, il vitigno dal quale fluisce la linfa vitale. Se un tralcio se ne stacca, finisce per seccarsi e non portare più frutto: diventa inutile.
Ma anche si sa che in un tralcio dopo lo spuntare di tre grappoli, perché questi possano maturare al massimo, i viticci seguenti vanno con continuità eliminati. È quello che fa il Padre che, non tanto “pota” il tralcio che sta portando frutto, quanto “lo purifica” (questo il significato del termine greco usato) ed è questo l’agire del Padre con tutti i discepoli. Tutti ovviamente abbiamo dei difetti ma l’invito di questo Evangelo è quello di non concentrarsi su questi ma a vivere serenamente orientando la propria vita per il bene degli altri; le imperfezioni, i difetti, i limiti se sono d’impedimento nel portare più amore, sarà il Padre senza quasi ce ne accorgiamo che ci orienterà al loro superamento. È il compito del vignaiolo, non il nostro. Pensare di far nostro questo compito, porterebbe ad accentrare l’attenzione solo su noi stessi perdendo di vista il bisogno dell’altro e facendoci così perdere il flusso della linfa.
(BiGio)
Nessun commento:
Posta un commento