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Per il momento da Venerdì 30 maggio 2025 questo Blog sarà implementato solo con notizie ecclesiali della Parrocchia.  I Post con la proposta...

Son passati trenta anni ma don Tonino è sempre presente

Trent'anni dalla morte di don Tonino Bello il suo messaggio non ha perso un grammo di attualità e capacità di provocazione. Il suo invito a seminare pace è più che mai attuale.


Tre suggerimenti di lettura che fanno memoria della sua figura legata al suo messaggio:

1 - La sua è la «Chiesa del grembiule», una delle immagini più efficaci che conia: «l'accostamento della stola con il grembiule a qualcuno potrà apparire un sacrilegio», scriveva, «eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato nel Vangelo che, per la "messa solenne" celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il maestro si cinse ai fianchi» per lavare i piedi agli apostoli:


Luca Kocci  a questo linkTonino della pace 

2 - Profeta di pace. Vescovo amico. Pastore scomodo. Poeta che illuminava di Vangelo gli angoli bui della periferia umana. Compagno di strada degli ultimi. Cosa infastidiva di lui? L'innocenza delle sue prese di posizione che profumavano di Vangelo e non potevano essere contestate? Il fatto che, per questo, mettesse a nudo i compromessi, le connivenze, i silenzi colpevoli, i privilegi?

intervista a Tonio Dell'Olio a cura di Riccardo Maccioni a questo linkDell'Olio: metteva a nudo i compromessi La sua era una Chiesa sui passi degli ultimi

3 - Era il 7 dicembre del 1992 quando, ormai in fin di vita per un cancro allo stomaco, Tonino Bello decise di recarsi a Sarajevo. «Andrò anche con le flebo», diceva a noi tutti, convinto che bisognava iniettare nelle vene della storia nuova linfa, per un mondo di pace. Dal suo insegnamento, l'invito a promuovere oggi nel mondo politiche nonviolente

Giancarlo Piccinni a questo linkTrent'anni senza «don» Tonino Bello Ma la sua profezia di pace scuote ancora 

Migranti e migrazioni in Europa e in Italia. La dashboard con tutti i numeri italiani e i dati UE

Quante sono le persone sbarcate in Italia nel corso del tempo? Quanti gli stranieri attualmente presenti nel nostro Paese, e quelli nei centri d’accoglienza? Che ruolo hanno le Ong nei salvataggi in mare? E quanti richiedenti asilo ottengono effettivamente una protezione? Quanti gli immigrati in Europa nel 2022?


Per rispondere a queste e altre domande, ISPI lancia una dashboard con i numeri per monitorare l’evoluzione degli sbarchi in Italia, ma anche le migrazioni regolari. Numeri pubblicamente disponibili, ma di non semplice reperibilità. E che, raccolti in una singola pagina, vogliono fornire una base solida per i ragionamenti e i dibattiti di questi mesi a questo link:

Nel 2022 sono immigrate in Europa 1,92 milioni di persone di questi, via mare in Italia, ne sono giunti 105.129
Senza l'immigrazione, nel 2019 la popolazione europea si sarebbe ridotta di mezzo milione: dati ufficiali della Commissione Europea 

 

Mons. Redaelli (Caritas italiana): “La migrazione non è emergenza ma realtà da governare”

Sono 660 i delegati di 173 Caritas diocesane presenti in questi giorni a Salerno al 43° Convegno nazionale in corso dal 17 al 20 aprile. Il tema su cui riflettere: 
"Agli incroci delle strade. Abitare il territorio, abitare le relazioni"


La migrazione “non è una emergenza ma una realtà con cui fare i conti con lucidità, realismo e capacità innovativa. Non è un problema da risolvere ma una realtà da governare nella sua complessità, dando attenzione ai diversi valori: alla vita fisica delle persone, ossia se uno sta morendo va salvato; alla dignità delle persone, al loro desiderio di pace, giustizia e di un cammino di vita migliore”. Ha parole chiare e nette monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana, affrontando il tema caldo delle migrazioni durante il suo intervento in apertura del 43° Convegno nazionale delle Caritas diocesane.

 

A spiegare bene il principio della carità è stato monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei.  “Il bisogno ha sempre un nome e un volto, come dice il Papa. Significa che davanti ad un uomo lo sguardo deve cogliere l’interezza del suo bisogno, non solo di pane ma anche di amicizia, di compagnia. Il rapporto con l’uomo che ha bisogno non può non aprirsi ad un impegno sociale e politico perché il bene della persona dipende anche dal contesto in cui vive”. 



L'intero servizio di Patrizia Caiffa a questo link:


https://www.agensir.it/chiesa/2023/04/18/mons-redaelli-caritas-italiana-la-migrazione-non-e-emergenza-ma-realta-da-governare/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2



Un problema ingombrante: il cristianesimo tossico

Meglio essere cristiani senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo (Ignazio d’Antiochia, + 108 d.C., martire). Giuseppe Dossetti ha affermato a Pordenone già nel 1994: “Non c’è un’età post-cristiana per chi ha fede. C’è un’età che ha un regime mutato, un regime globale – culturale, sociale, politico, giuridico, estetico – non ispirato al cristianesimo: cioè un’età non più di cristianità; questo sì, e di questo dobbiamo convenire. La cristianità è finita! E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità”.


La domanda è: a quale cristianesimo possiamo oggi continuare a credere?

Non sono pochi i paesi nei quali un certo populismo di destra sfrutta l’elemento religioso come il vero cemento culturale, come base identitaria della comunità nazionale. Vediamo il ritorno di una visione della religione formalista e culturalista, come fenomeno identitario e magari escludente. Anche sul piano politico vince e si afferma un semplicismo preoccupante nella realtà molto complessa del nostro mondo globalizzato.

Per quanto la cristianità sia finita siamo chiamati a credere nel Vangelo di Gesù. A identificarci con lui. È lui stesso “Vangelo”; per noi determinante. dobbiamo rifiutare decisamente certe ‘tossine’ presuntuose e narcisistiche e non preoccuparci di salvare i rottami della cristianità. “Il cristiano di domani o sarà un ‘mistico’, uno che ha ‘sperimentato’ qualcosa, o non sarà”. (Karl Rahner)


L'intera riflessione di Giuseppe Florio a questo link:

Il paradosso del clericalismo. La patologia ecclesiale e le forme storiche della “uscita”

A Sestri Levante, nell’ambito della Scuola di formazione teologica, Andrea Grillo ha tenuto una conferenza la sera del 4 aprile all’interno del corso intitolato: Clericalismo, malattia della Chiesa. Dagli appunti di quella serata ha tratto questo breve testo di riflessione. 


Che cosa è in gioco nel clericalismo? Direi che la questione oggi più evidente è quella di una chiesa “chiusa in sé” e incapace di “uscita”. Uscita da dove e verso dove? Si tratta per la Chiesa di uscire da sé, o, meglio, di far uscire Cristo da sé, perché possa raggiungere il mondo. Al centro vi è dunque una “sapienza di uscita” che la tradizione ha gestito in modi differenziati e che oggi ci chiede una forma del tutto nuova nel modo di riflettere e di agire. Perché la “differenza di Dio” non si dà più nella differenza di ordini sociali e di soggezioni personali. Questa questione culturale e sociale è centrale nel nostro problema. Forse esso consiste proprio nel fatto di non saper più distinguere queste varianti (culturali, sociali, antropologiche) tra due modi diversi di annunciare “la differenza di Dio”. In una paginetta che il futuro papa Francesco ha usato per il suo discorso poco prima di essere eletto, dice che la Chiesa deve ascoltare il “bussare del Signore”, che sta alla porta, ma bussa per uscire, non per entrare: vuole uscire nel mondo! Il clericalismo, potremmo dire, scaturisce dalla “cattura di Dio” nelle chiusure ecclesiali. Si fa coincidere la differenza di Dio con le differenziazioni sociali, burocratiche, formali che la Chiesa ha legittimamente elaborato lungo i secoli, ma che devono essere lette con lucidità, per saper discernere “ciò che non muore e ciò che può morire” (Dante). Certo, la differenza di Dio non si annuncia nella “indifferenza”. Non tutto è uguale! Il Dio che è “amore all’eccesso” dice una trasgressione e una differenza. Diremmo perciò che la differenza di Dio esige una nuova “non indifferenza”. Ed è qui il punto delicato e dolente. 

L'intera riflessione di Andrea Grillo a questo link:



Myanmar a due anni dal golpe e i profughi Rohingya, senza Stato e diritti, che non interessano a nessuno

Una delegazione del governo militare birmano è arrivata in Bangladesh per discutere i termini di un ambizioso quanto controverso piano di rimpatrio dei Rohingya, la minoranza islamica oggi ritenuta come “il popolo più perseguitato al mondo”. I funzionari hanno raggiunto l’area di Cox Bazar, dove ha sede il più grande campo profughi al mondo. 


Una delegazione del governo militare birmano è arrivata in Bangladesh per discutere i termini di un ambizioso quanto controverso piano di rimpatrio dei Rohingya, la minoranza islamica oggi ritenuta come “il popolo più perseguitato al mondo”. I funzionari hanno raggiunto l’area di Cox Bazar, dove ha sede il più grande campo profughi al mondo. Stando ai dati della sede bangladese dell’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), i rifugiati Rohingya nel campo sarebbero almeno 958 mila. Quasi l’intera popolazione un tempo residente in Myanmar. Non è chiara la portata delle operazioni previste dal progetto pilota, né quali condizioni verranno offerte ai profughi una volta rientrati in Myanmar, paese di cui non possono - a oggi - nemmeno chiedere la cittadinanza

***

Vivere in uno slum da anni, senza garanzie né prospettive, per scappare da un luogo dove lo stesso diritto alla vita è messo a rischio dalle autorità che lo governano. In un giorno diverso, un governo diverso - ieri il governo di Aung San Suu-Kyi, oggi la giunta militare - viene a bussare alle porte della baraccopoli per chiedere il ritorno di centinaia di migliaia di persone che si trovano lì per lo stesso motivo: fuggire le persecuzioni e l’invisibilità civile. È quanto accaduto lo scorso 15 marzo, quando una delegazione del governo militare birmano è arrivata in Bangladesh per discutere i termini di un ambizioso quanto controverso piano di rimpatrio dei Rohingya, la minoranza islamica oggi ritenuta come “il popolo più perseguitato al mondo”. 
I funzionari hanno raggiunto l’area di Cox Bazar, dove ha sede il più grande campo profughi al mondo. Qui, stando ai dati della sede bangladese dell’Agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR), i rifugiati Rohingya sarebbero almeno 958 mila. Quasi l’intera popolazione un tempo residente in Myanmar. La stessa agenzia non cita apertamente la visita della delegazione birmana e il progetto pilota in questione, ma a un certo punto è comparso un avviso di fermo temporaneo delle operazioni di registrazione dei documenti fino al 6 aprile.


Il reportage di Sabrina Moles continua a questo link:

https://www.valigiablu.it/rohingya-myanmar-bangladesh-rimpatrio/





Conviene essere egoisti. A nord-est uno su tre la pensa così

È l'avvento della società dell'egoismo? Guardando i dati dell'Osservatorio sul Nord Est, il dubbio viene. Oggi, un nordestino su tre (32%) si dichiara d'accordo con l'idea che "nella società di oggi conviene essere egoisti perché l'altruismo non è più un valore condiviso". Ma a colpire, insieme al valore odierno, è vedere come questo sia cambiato nel corso del tempo. 

Tra il 2010 e il 2017, l'adesione a questa opinione oscilla tra il 24 e il 26%. Nel marzo 2020, però, la percentuale scende bruscamente di 10 punti percentuali, arrestandosi al 16%. Nei giorni più bui della pandemia, quindi, ci abbiamo creduto. Che ne saremmo usciti migliori, che sarebbe stata una prova che ci avrebbe migliorato: come individui, come comunità, come Paese. Questa convinzione, però, sembra essersi trasformata rapidamente in illusione: nel 2021, il valore si riporta al 26%, per crescere ulteriormente e arrivare oggi al 32%. Quali sono i settori sociali nei quali si sta maggiormente radicando l'idea che la società moderna sia sempre più egoista? Guardando al genere, vediamo che questa opinione raccoglie più favori tra gli uomini (38%) che tra le donne (26%). Se consideriamo il fattore-età, poi, emerge che i meno convinti della "caduta dell'altruismo" sembrano essere gli anziani (21%) e le persone tra i 55 e i 64 anni (23%), mentre gli adulti e le persone di età centrale (35-54 anni) si fermano intorno alla media dell'area (32-35%). La condivisione di questa opinione, infatti, raggiunge la sua massima estensione tra i più giovani: con percentuali che variano dal 48 al 53%, è tra chi ha tra i 18 e i 35 anni che il consenso sale tanto da raggiungere (e superare) la maggioranza assoluta.


Il report di Natasha Porcellato continua a questo link:





M9: Le scarpe per vivere la vita degli altri - Mestre diventa capitale dell’empatia

Per tre giorni, dal 21 al 23 aprile dalle 10 alle 20 nel chiostro dell'M9 (il Museo del '900) trentuno paia di scarpe da indossare, 31 vite da ascoltare vestendone i panni. 

A raccontare le loro storie sono le voci di Nico, padre di un bimbo autistico che una notte ha deciso di aprire una pizzeria gestita da soli ragazzi autistici nel Milanese; di Manlio, familiare di una vittima dell’attacco terroristico in piazza della Loggia a Brescia; di Anisa, che lontana da casa per motivi di salute ha scoperto che la sua famiglia era stata travolta dal terremoto che ha distrutto la sua città natale; o di Meri, 55enne che da sempre ha desiderato avere figli e assieme alla sua compagna Francesca ne ha concepiti e cresciuti quattro. Per tre giorni, dal 21 al 23 aprile dalle 10 alle 20, Mestre diventerà «capitale dell’empatia» grazie all’opera esperienziale «Mettiti nelle mie scarpe» che trasformerà il chiostro dell’M9 in un temporary shop di scarpe dove chi entrerà non consumerà oggetti ma storie da ascoltare in cuffia, indossando le calzature di coloro che le raccontano per 10 minuti: giusto il tempo di sentirne la storia, vestire i panni delle loro vite. Ideata dall’artista inglese Clare Patey, direttrice dell’Empathy Museum di Londra e realizzata a Venezia da Fondazione Empatia Milano in occasione del trentennale della cooperativa sociale Itaca, l’iniziativa renderà il chiostro una sorta di biblioteca di scarpe a ingresso libero: i visitatori potranno sceglierne quante paia vorranno, calzarle e camminare per qualche minuto, ascoltando in cuffia le 31 storie, di cui 21 in italiano e 10 in lingua inglese.«Vestire i panni dell’altro è un atto rivoluzionario — ha commentato la presidente della fondazione Empatia Petra Mezzetti — in quanto richiede il coraggio di frequentare vite che non sono la nostra, guardare il mondo con gli occhi di chi parla, per una decina di minuti essere lui o lei». «Sarà un’occasione preziosa per tutti — ha aggiunto l’assessore alle Politiche educative Laura Besio — tanto per l’importanza che ha mettersi nei panni di un’altra persona, camminando realmente nelle sue scarpe, provando le sue emozioni, sogni e speranze, tanto per valorizzare ancora una volta Mestre come città dell’inclusività». Durante l’evento sarà attiva una raccolta fondi che andrà a sostenere l’associazione veneziana «Lunghi cammini», unica in Italia a proporre il modello del «lungo cammino educativo» rivolto a minorenni in condizioni di forte fragilità.

(da Il Gazzettino)

Il Foglietto "La Resurrezione" della II Domenica di Pasqua, 16 aprile

 


La nostra Preghiera nella II Domenica di Pasqua ...


Queste due ali d'orate sull'altare da questa domenica a quella di Pentecoste
sono una scultura di Lino Tagliapietra
intitolata Le ali della pace, ali alla pace che dobbiamo dare noi


Introduzione

In questa seconda domenica di Pasqua possiamo cogliere la Fede come il tema unificante delle tre letture.
Il Vangelo presenta il passaggio alla fede dell’incredulo Tommaso, proclama la beatitudine di chi crede senza vedere; la prima lettura parla dei membri della comunità cristiana come “coloro che avevano creduto”; la seconda lettura definisce i cristiani come “coloro che amano Gesù e credono in lui senza vederlo”. 
Legato al tema della fede è quello della Gioia, che pure attraversa le tre letture: anche la gioia è frutto della resurrezione di Cristo: gioia dei discepoli al vedere il Signore; gioia dei cristiani che amano il Signore e lo seguono nella fede; letizia che accompagna i credenti nell loro vita quotidiana, in particolare nella condivisione dei pasti.

Intenzioni Penitenziali

- Signore che chiami beati coloro che credono in te, Kyrie eleison.

- Cristo, che vieni in mezzo a noi per donarci la tua pace, Christie eleison.

- Signore che doni a noi lo Spirito che purifica le nostre colpe, Kyrie eleison.


- Signore Gesù quando il dubbio chiude i nostri occhi e le nostre orecchie ai tuoi segni e alla testimonianza degli altri...abbi pietà di noi...

- Cristo quando ci prende la paura della prova e siamo tentati di tirarci indietro, abbi pietà di noi...

- Signore che appari ai tuoi amici per confermare la loro fragile fede, abbi pietà di noi...


Preghiere dei fedeli

- Per la Chiesa: sull’esempio degli Apostoli possa riconoscere sempre Gesù Risorto e vivo, che mai l’abbandona, preghiamo.

- Per coloro che ci governano: mostrino maggiore sensibilità e attenzione nei confronti delle famiglie in difficoltà, di coloro che soffrono i disagi della disoccupazione e di tutti quelli che hanno perso ogni speranza. Per questo ti preghiamo.

- Per la nostra Comunità, donaci o Signore di essere perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere, così come lo furono i primi cristiani. Per questo ti preghiamo.

- Signore, fai che le discordie che dividono i popoli, le tensioni che alimentano la guerra tra le nazioni trovino soluzioni pacifiche per riportare il mondo a sperare in un futuro migliore. Per questo ti preghiamo.



La democrazia israeliana, le proteste e il grande rimosso: l’occupazione della Palestina

“La vita in Israele è fatta di molte ingiustizie e altrettanti errori, ma il peggiore di tutti è la rimozione di un fatto intollerabile: e cioè che noi siamo una nazione che continua a occupare un altro popolo da 55 anni”. David Grossman ha parlato così ai dimostranti che hanno manifestato contro Netanyahu, il suo governo e la riforma del sistema giudiziario


David Grossman ha cosìfatto entrare, in modo autorevole, la questione nodale dell’occupazione della Palestina nella protesta tutta israeliana-ebrea. L'occupazione è il grande rimosso, non solo in queste proteste. È il vulnus che erode la democrazia israeliana, segnata dunque da criticità molto profonde non da ora, non dall’ascesa al potere della destra estrema e suprematista, bensì da decenni. Un rimosso che significa vite, persone: 88 i palestinesi uccisi nei primi tre mesi del 2023 dalle forze armate o dai coloni israeliani. Una media di una persona uccisa al giorno.

I brevi video dalla Città Vecchia di Gerusalemme, registrati con i telefonini e postati sui social, non mostrano i momenti dell’uccisione di Mohammed Khaled al Osaibi, nella notte tra venerdì e sabato. Notte di ramadan. Mostrano, da lontano, il corpo sulla pavimentazione bianca della Spianata delle Moschee, all’altezza della Porta delle Catene, una delle porte che immette nel grande area dove si trovano la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia. Poche ore prima duecentomila persone si erano riunite per la preghiera del venerdì.
È l’audio, invece, a mostrare la realtà quotidiana dura, durissima, nella Città Vecchia. L’audio registra, infatti, la sequenza dei colpi, tanti: almeno una decina. Sono i colpi sparati dalle armi in dotazione alle guardie di frontiera israeliane. M16, in genere. Così è stato ucciso Mohammed Khaled al Usaibi, giovane medico di 26 anni, proveniente dalla cittadina di Hura, nel Negev. Ironia della sorte, aveva superato da poco gli esami per esercitare la professione di medico in Israele.


L'articolo di Paola Caridi continua a questo link:



Gv 20, 19 -31 A - II di Pasqua (parte prima)

“Pace a voi” non è un augurio, ma una affermazione, un dono e un compito: "spazzare via" il peccato


Iniziato con Maria di Magdala che precede l’aurora al sepolcro di Cristo trovandolo già vuoto, dopo il tramonto con le ombre della sera che già hanno coperto la terra, non avendo “ancora compreso la Scrittura, cioè che egli doveva risorgere dai morti”, i discepoli si sono rinchiusi in casa “per timore dei giudei”. Rimanere nascosti senza porsi molte domande e cercare di capire confrontandosi con la realtà esterna, forse poteva salvarli dal subire la medesima sorte del loro Maestro: “Andiamo anche noi a morire con lui” aveva detto convinto Tommaso detto Didimo quando Gesù aveva deciso contro il parere di tutti di andare in Giudea dove avevano già cercato di ucciderlo (Gv 11,8.16). 

È un atteggiamento comprensibile, sperimentato da tutti noi in un qualche momento della nostra vita ed è anche comune nelle istituzioni, nelle comunità. La Chiesa non fa eccezione nonostante gli stimoli e gli incompresi avvertimenti di papa Francesco. La paura porta a non poter essere quel “sale della terra”, quella “luce del mondo” che sono i compiti indicateci da Gesù e che impegnano al confronto con un mondo in continua evoluzione del quale, volenti o nolenti, facciamo parte e condividiamo la realtà. Essere come quei primi discepoli rinchiusi in sé stessi, significa non aver coscienza che in mezzo a noi c’è il Risorto ed è quello che ci svela l’Evangelo di oggi.

Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”. Innanzitutto non è una apparizione fugace, ma venne e rimase in mezzo a quel gruppo impaurito. Quella comunità e ogni comunità è chiamata a rendersi conto che Gesù è presente in mezzo ad essa non come un comandante, ma condividendo la situazione che sta vivendo. È questo che fa superare la paura del confronto e mette nella condizione di “vedere” e far crescere ovunque i germogli di risurrezione da lui posti. È questo che significa quel ripetuto “Pace a voi” che non è un augurio, ma una affermazione: “la pace”, cioè lo Shalomovvero la Presenza di Dio è con voitra di voi, in voi. il dono di una Presenza d’amore dato innanzitutto alla Comunità dei discepoli e solo di conseguenza ai suoi singoli componenti. Una Presenza che attesta una riconciliazione avvenuta in una realtà pacificata di piena comunione con il Padre. Shalom che non deve e non devono tenere per sé stessi ma va condiviso e riconosciuto ovunque, anche nelle situazioni più difficili o disperate.

Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” aggiunge il Risorto mostrando le mani e il costato: cioè il suo modo di agire che la Comunità generata dal suo petto squarciato è chiamata a proseguire nel servizio gratuito. È in questo modo d’essere che lo riconoscono e lo si riconosce ed è per questo dono gioiscono e che si gioisce.

Quindi Gesù “Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo”. Il verbo rarissimo qui usato compare solo altre due volte nella Scrittura: alla creazione dell’uomo (Gn 2,7) e in Ezechiele (37,1-10) sulle ossa aride che riprendono vita. Il dono dello Spirito è effuso sulla Comunità, di conseguenza sui singoli discepoli. Come per l’uomo in Genesi, anche qui viene dato un compito: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Il verbo che viene adoperato ha il significato di “portare via”, vale a dire che la Comunità dei discepoli hanno il compito di far sparire, di spazzare via la realtà del peccato, il modo vecchio vivere legato alle seduzioni del potere personale; l’incarico dato è quello di usare le mani per far sparire la violenza, il modo di vivere non secondo Dio, per costruire un mondo di pace. È la grande responsabilità data alla Comunità dei discepoli, a noi credenti.

(BiGio)

(continua nella seconda parte: 

https://parrocchiarisurrezione.blogspot.com/2023/04/gv-20-19-31-ii-di-pasqua-parte-seconda.html)



Gv 20, 19 -31 A - II di Pasqua (parte seconda)

La risposta di Tommaso più che un dubbio esprime sorpresa. Nessun rimprovero da parte di Gesù ma l'invito ad avere fisso lo sguardo sulle sue mani e sul suo costato che ci affidano un compito


Tutti gli Evangeli, a partire dai sinottici, terminano sottolineando la fatica che hanno fatto i discepoli a giungere a credere che Gesù è risorto: incredulità e durezza di cuore in Marco, turbamento e dubbi in Luca e Matteo. L’Evangelo di Giovanni non è da meno ed anche lui ci propone questa difficoltà attraverso la figura di Tommaso detto Didimo, il “nostro gemello” nel quale vediamo le nostre difficoltà.

Non ci viene detto perché non era con la Comunità quella sera. Sono state fatte molte ipotesi, ciascuna per tirare l’acqua al mulino della spiritualità dell’autore; personalmente non credo si possa aggiungere molto a quanto l’Evangelo dice e, quindi, è più corretto fermarsi senza correre il pericolo di fare solo delle illazioni gratuite.

In ogni caso, quando rientra i discepoli “gli dicevano: abbiamo visto il Signore!”. È importante il verbo all’imperfetto e non al passato remoto, perché indica una azione continuata: cercavano cioè di convincerlo anche insistendo. La risposta di Tommaso è quella di chi reagisce ad una notizia che sorprende: “Non ci credo. Troppo bello per essere vero! Se non faccio anch’io questa esperienza non ci credo”, quindi più che un dubbio è il desiderio di fare la medesima esperienza.

Otto giorni dopo”, sarà anche lui riunito “a porte chiuse” con gli altri discepoli, ancora ripiegati su sé stessi e di nuovo “venne Gesù e stette in mezzo a loro”.

Quello che ci viene chiesto di comprendere è che, se Dio lo possiamo incontrare nella preghiera nella nostra camera (Mt 6,6), il Risorto invece solo all’interno nella Comunità riunita nel suo nome nell’ottavo giorno: la domenica, il Giorno del Signore. È qui che lui ai presenti dona continuamente la pace, lo Shalom, e può essere fatta l’esperienza della sua presenza reale.

In questo senso è l’invito fatto a Tommaso e, attraverso lui a tutti noi, di guardare le sue mani e il suo costato e di tenerli sempre davanti agli occhi sapendo che quelle mani hanno costruito soltanto amore e che il compito affidatoci è quello di mostrare a tutto il mondo le sue mani nelle nostre mani. Sapendo che da quel costato ferito che rappresenta la sua vita donata per amore, è nata la Chiesa, la Comunità che come Tommaso è il nostro “didimo”, il nostro “gemello”, perché anche la nostra come quella delle origini è costituita da persone fragili, deboli, timorose ma alle quali il Signore Risorto non fa alcun rimprovero, bensì continua a soffiare donandole il suo Spirito e affidandole il compito di costruire il mondo nuovo, il Regno di Dio.

(BiGio)

Gv 20, 19-31 – II di Pasqua: il racconto di una "assenza" che è una bella notizia

Tommaso ci annuncia la bella notizia che qui oggi anche noi possiamo accogliere il suo stesso dono, perché suoi compagni nell’assenza, e giungere a fare anche noi la nostra professione di fede: mio Signore e mio Dio!



L’assenza di Tommaso il primo giorno della settimana, è un vangelo per noi, una bella notizia! La bella notizia di un’assenza.

È di fondamentale importanza che quella sera uno dei discepoli non si trovasse insieme agli altri per incontra il Signore risorto che si manifesta in mezzo a loro. Noi tutti possiamo identificarci in quel discepolo per fare la sua stessa esperienza. Infatti in chi era assente la sera della risurrezione del Signore tutti noi ci possiamo riconoscere: anche noi siamo, in riferimento al giorno della risurrezione, degli assenti! Anche noi siamo portatori delle stesse domande di Tommaso e condividiamo con lui il medesimo desiderio di vedere e di toccare.

Quando Tommaso ritorna nel gruppo degli Undici e sente la loro testimonianza non chiede di fare cose straordinari, di avere dei privilegi. Egli desidera solamente fare la stessa esperienza dei suoi compagni ai quali il Signore risorto aveva mostrato i segni della sua passione. Tommaso come loro vuole vedere e toccare i segni della passione di Gesù: per credere Tommaso vuole sperimentare le piaghe di colui che è per lui ha donato la sua vita.

La sera di Pasqua il Signore risorto era apparto ai discepoli ed era rimasto in mezzo a loro. Il Signore aveva mostrato loro le mani e i fianchi, facendo vedere i segni del suo amore per i discepoli. Da quella visione era nata la gioia, che è un dono pasquale che deve risplendere sul volto di tutti coloro che hanno incontrato il Signore. Nel Vangelo di Luca la gioia è ciò che si prova quando si sperimenta che la salvezza di Dio, la sua azione nella storia riguarda la mia vita e la coinvolge. I discepoli gioiscono nel vedere le piaghe del Signore, i segni ella sua passione perché in quel momento scoprono che egli li ha amati fino al dono della vita. Il Risorto poi li aveva inviati, definendo la loro missione come la continuazione della missione che lui stesso, Gesù, aveva ricevuto dal Padre.

Tommaso, l’assente, non chiede altro che la gioia… di poter sperimentare la stessa gioia che hanno vissuto i discepoli presenti la sera del giorno della risurrezione. Il discepolo assente chiede di poter vedere e toccare anche lui i segni della passione del Signore, di poter sentirsi anche lui oggetto di un amore così forte da donare la vita. Tommaso chiede di poter sperimentare anche lui come i presenti quella sera che la Pasqua di Gesù ha a che fare con la sua vita, la riguarda da vicino, la tocca e la trasforma. In questo senso Tommaso chiede la gioia: non desidera un privilegio, ma di condividere ciò che dovrebbe appartenere ad ogni discepolo di Gesù.

Otto giorni dopo, proprio come noi oggi otto giorni dopo Pasqua, Gesù viene e sta in mezzo ai discepoli nuovamente radunati… è ciò che accade ogni otto giorni da quando Gesù è risorto. Quella sera dell’ottavo giorno anche Tommaso, l’assente, è presente e Gesù gli permette di fare la stessa esperienza dei suoi compagni: vedere e toccare i segni della sua passione. Anche Tommaso può essere nella gioia perché ha visto i segni dell’amore di Dio per lui. Non siamo più nel giorno di Pasqua, ma nella comunità dei discepoli radunati è come se quel giorno di fosse fatto eterno. Anche otto giorni dopo, il primo giorno della settimana, è sempre nuovamente possibile del Signore morto e risorto per me, di cui la comunità dei suoi discepoli custodisce la memoria. Per questo anche Tommaso può giungere a fare la sua personale professione di fede: mio Signore e mio Dio! Non più un Dio creduto per sentito dire, ma il mio Dio, il mio Signore, perché ho visto i segni del suo amore per me.

È questo il vangelo di Tommaso, la bella notizia della sua assenza nella quale tutti noi possiamo riconoscerci. In fondo tutti siamo assetati di gioia: quella gioia che è dono del Risorto e nulla e nessuno può infrangere. Quella gioia che nasce dal vedere e toccare i segni dell’amore che Dio ha per noi personalmente. Tommaso ci annuncia la bella notizia che qui oggi anche noi possiamo accogliere il suo stesso dono, perché suoi compagni nell’assenza, e giungere a fare anche noi la nostra professione di fede: "mio Signore e mio Dio!"

(Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli)

Voci e repliche a confronto: Mancuso e Di Segni sulla "Legatura di Isacco" (Il sacrificio di Isacco)

Rav Gianfranco Di Segni replica ancora alle parole del teologo Vito Mancuso, pubblicate in un articolo su La Stampa del 27 marzo, Non per una sterile polemica ma per una discussione costruttiva, perché – come afferma il Talmud – da questa si accresce la conoscenza.


L’interpretazione ebraica del passo biblico sulla “legatura di Isacco” (Genesi cap. 22) è profondamente diversa da quella proposta da Mancuso. La traduzione del versetto da lui riportata, “Prendi il tuo amato unico figlio, Isacco, va’ nella terra di Morijà e là offrilo in olocausto” (Gen. 22:2), è certo una traduzione possibile ma non l’unica. Come nella maggior parte dei casi, traducendo da una lingua all’altra si perde la molteplicità di diverse letture che può esserci nella lingua originale, in questo caso l’ebraico. La parola “offrilo” traduce il termine ebraico veha’alèhu, che significa in realtà “fallo salire”. La connessione fra salire e i sacrifici è ovvia: la fiamma del fuoco sale in alto. Rashì (Francia, 1040-1105), il massimo commentatore della Torà degli ultimi mille anni, interpreta il termine nel senso letterale, ossia che l’ordine divino è di far salire il ragazzo sul monte. Così scrive Rashì a commento di quel versetto: “Il Signore non disse ad Abramo ‘scannalo’, perché non era Suo desiderio farlo scannare bensì di farlo salire sul Monte”. E continua Rashì: “Dopo che l’ebbe fatto salire, Dio gli disse: Fallo scendere”.

Le interessantissime letture proposte da Raccontare Di Segni (ma da leggere sono anche i commenti seguenti) a questo link:

https://riflessimenorah.com/abramo-e-iefte/?fbclid=IwAR2Gvo1jn3IVQswLO4hO1oLap94FWe1OiRLqlsiftyZgcX-k_Y9R86aKkvg



 

“Potere di insegnare e di battezzare” ai laici e alle donne? Dalla società dell’onore alla società della dignità

Tra le richieste emerse dal “Cammino sinodale tedesco” vi è il completo superamento di una espressione che risale a Tertulliano e che si può sintetizzare così: possono battezzare (e insegnare) i vescovi, i presbiteri, i diaconi, il laici maschi, non le donne. Si deve dire che questa posizione di Tertulliano, bene conosciuta lungo la tradizione, ha subito nel tempo grandi revisioni. Da un lato la elaborazione di una “competenza femminile” sul battesimo, legata al “caso di necessità” o al “pericolo di morte”. Accanto a ciò si ammetteva anche un “insegnamento” possibile per le donne, purché restasse rigorosamente “in privato”.


Questa differenziazione valeva a due livelli:

o   sul piano naturale, la donna era collocata nella sfera privata.

o   sul piano istituzionale il compito formale era riservato al clero ordinato, non ai laici. 

Così si è creato un sistema per cui la “funzioni di rappresentanza ecclesiale” si sono concentrate:

o   sui maschi piuttosto che sulle donne, per natura

o   sui chierici piuttosto che sui laici, per istituzione.

Questo sistema funzionava non solo per grazia, ma per cultura. E’ la cultura della “società dell’onore”, che si basa sulla diseguaglianza, e che proprio così annuncia Dio e fa esperienza della trascendenza. La differenza di Dio è assicurata dalle “differenze di onore”: tra donna e uomo, tra clero e laici e dalle infinite differenze di grado interne ad ognuna di queste categorie.

La fine della società dell’onore e l’inaugurazione della società della dignità ha messo a dura prova tutto il sistema ministeriale della Chiesa, che si era modellato in grande sintonia con quell’archetipo. Se si guarda che cosa era il Cerimoniale dei Vescovi fino al Concilio Vaticano II, si capisce da dove viene il nostro pregiudizio sul potere episcopale. La Chiesa cattolica ha provato prima a difendersi dalla eguaglianza, identificando sé stessa come societas inaequalis, ma poi ha lentamente accettato di rivedere le proprie categorie. Oggi noi siamo in mezzo al guado di questa grande “metafora”: stiamo trasportando le migliori esperienza ecclesiali dal linguaggio della società dell’onore al linguaggio della società della dignità. 


L'interessante articolo di Andrea Grillo a questo link: