e-mail della Parrocchia: ss.risurrezione@patriarcatovenezia.it - Telefono e Fax: 041-929216 - ........................................................................... e-mail del Blog: parrocchiarisurrezionemarghera@gmail.com

Post in evidenza

Notizie su questo Blog

Per il momento da Venerdì 30 maggio 2025 questo Blog sarà implementato solo con notizie ecclesiali della Parrocchia.  I Post con la proposta...

Ognuno vale quanto la vita di Dio

Si parla di un unico pastore che è Cristo, ma non di un unico ovile. Ognuno, attirato dal Signore, è chiamato a trovare la sua strada verso di Lui, a compiere la propria umanità. Ognuno ha la possibilità, nella sua vita, di ascoltare la sua voce, di conoscere il Pastore. Il cammino è verso una pienezza di umanità, sicché anche chi professa un'altra fede, o nessuna fede, non viene meno a una vocazione, non è escluso dall'essere sua pecora.


«Io sono il buon pastore»: dice Gesù. È necessario evitare una concezione sdolcinata, bucolica, "poetica" dell’immagine del «pastore». Infatti, in questi versetti Gesù lo presenta, innanzitutto, come una figura drammatica: il pastore dà la vita per le pecore. Ed è proprio ciò che lo caratterizza di più e lo distingue dai pastori solo di nome: i «mercenari», che scelgono di salvarsi e lasciano così le pecore in balia del lupo. In effetti, la vita di Gesù non è stata lieve e romantica: ha affrontato il lupo, che disperde il gregge, ha affrontato i mercenari, quelli che si presentano con i titoli accademici di pastori, ma che si interessano solo di se stessi. Gesù ha affrontato questi per difendere le pecore, e ha accettato anche la morte per proteggerle. Ha custodito il gregge anche quando è arrivato il lupo, difendendolo fino alla morte. Gesù non si è sacrificato, si è offerto, «ha deposto» (letteralmente) la sua vita: per la vita delle sue pecore.
 
Non dobbiamo ignorare la drammaticità, non dobbiamo evacuare le categorie del peccato, del male, perché oggi non sono più "moderne". Gesù vi ha lottato contro, e ha donato la sua vita per vincerle ed eliminarle. La drammaticità diventa cifra del suo amore e della sua opera. E quando guardiamo il male e il peccato di oggi - forse più grandi che ai tempi di Gesù - dobbiamo vedervi il pastore che li affronta, che non si salva, perché con l’autosalvezza non avrebbe salvato più nessuno; ma rimane lì, con atto di gratuità e di dono; di un bene e di un voler bene così grandi da vincere il lupo, con la propria morte.
 
La realtà del pastore «buono», cioè vero, autentico, che difende le pecore con la propria vita, sta nel fatto che Egli non esercita una semplice funzione nei confronti delle pecore, ma vive con esse un legame personale e di amore: «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me». Ed è un legame profondamente teologico, cioè fondato sulla relazione del buon pastore con il Padre: «Così come il Padre conosce me e io conosco il Padre». Per questo Gesù non svolge solo un ruolo e un dovere nei confronti delle pecore, ma vive una relazione d'amore con esse: unica ragione per la quale si possa offrire la vita realmente per salvaguardare la vita delle pecore.
Se non si vive una relazione d'amore con il Padre, se non ci si lascia amare da Lui, si è solo funzionari del sacro, araldi di una morale disumana, custodi di un potere religioso coercitivo, invece che servitori del bene di tutti, soprattutto dei più fragili e di più "dispersi". Gesù non ci ama per volontarismo e protagonismo, ma perché, dall’eternità, vive l'amore del Padre, e non ha potuto fare a meno di venire al mondo per amare noi, povere persone umane, «così come» in Lui vive l'amore del Padre.
Perché, sappiamo, il vero amore è l'opposto della chiusura in sé esclusivista. L'amore è fatto per abbracciare fuori della propria relazione soprattutto chi ha più bisogno di essere amato. Lo stesso fatto di generare dei figli risponde a questa caratteristica dell'amore.
 
La dimensione inclusiva dell'amore porta Gesù a rivelare di «avere altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare e ascolteranno la mia voce, e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». La punteggiatura è diversa nel testo letterale, e lega maggiormente l'ascolto della voce del pastore a queste altre pecore che Lui deve guidare.
Gesù è il pastore universale. Non ci sono esclusioni. Possono esserci recinti diversi, ma Lui va a costituire l'unico gregge perché è il pastore di tutti. Va a formarsi un popolo composito che supera i recinti religiosi. È nella realtà della glorificazione attraverso la croce che si crea la dinamica di un abbraccio che non esclude più nessuno: «Quando sarò innalzato la terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Guardando a Lui, al dono della sua vita per amore nostro, ci si scopre tutti appartenenti al suo gregge. Qui si parla di un unico pastore che è Cristo, ma non di un unico ovile. Ognuno, attirato dal Signore, è chiamato a trovare la sua strada verso di Lui, a compiere la propria umanità. Ognuno ha la possibilità, nella sua vita, di ascoltare la sua voce, di conoscere il Pastore. Il cammino è verso una pienezza di umanità, sicché anche chi professa un'altra fede, o nessuna fede, non viene meno a una vocazione, non è escluso dall'essere sua pecora.
 
Gesù dichiara di avere «il potere di dare la propria vita e di riprenderla di nuovo». È l'unico potere che si attribuisce, ed è pure un potere che è privo di qualsiasi volontà di potenza. Gesù si fa protagonista della propria vita, facendola diventare tutto ed è esclusivamente dono. E dono, come abbiamo visto, per tutti, senza esclusione, anche per i più lontani e ignari. A Gesù la vita non è tolta: è Lui che liberamente la offre, la pone, donandola con tutta la passione che gli viene dall'amore e dalla cura delle pecore.
«Per questo il Padre mi ama»: Gesù ha coscienza ed esperienza dell'amore del Padre non perché si è custodito in quanto Figlio di Dio, ma perché si è speso, si è "perso" per le pecore. È dall'eternità nell'intimità d'amore di Dio (cfr. Gv 1,18), ma ha perduto tutto per non perdere nemmeno una delle pecore affidategli. Tutta la gloria di Dio è lo scambio appassionato tra il Padre e il Figlio nel compiacersi che, con il dono della vita umana e divina del Figlio, ogni persona, di qualsiasi epoca, è custodita da Dio e arriverà alla pienezza di vita umana.
 
(Alberto Vianello)

Israele, Gaza e la credibilità dell'Europa

La guerra a Gaza ha posto l’Europa di fronte alle sue divisioni e alla sua impotenza. E a distanza di sei mesi, il silenzio del continente sulle violazioni israeliane ha eroso la credibilità del continente nei paesi del ‘Sud Globale’.


“Spagna e Irlanda hanno intenzione di riconoscere lo Stato palestinese. Con un po' più di cautela, secondo Emmanuel Macron “riconoscere uno stato palestinese non è un tabù per la Francia”. La maggioranza dei paesi dell'Unione Europea, come l'Italia, evitano la questione. I vertici Ue – Commissione e Consiglio – mantengono quell'ambiguità che in diplomazia segnala un disagio. Dopo i massacri di Hamas del 7 ottobre, la solidarietà europea per Israele era stata forte e univoca. Di fronte all'uso palesemente improprio del diritto di difendersi che Israele sta facendo a Gaza, la Ue è una volta di più in ordine sparso. Non c'è una politica europea su ciò che sta accadendo nella Striscia, non un piano comune per gli aiuti alla popolazione né uno per il “day after”, quando finirà la guerra. Il cosidetto ‘Global South’, nuovo protagonista del presente e soprattutto del futuro dei poteri e degli equilibri internazionali, osserva perplesso”.

L'analisi dell'ISPI è a questo link:



Tre diverse letture sulla "Dignitas infinita" (3). Oggi: La dignità umana di cui parla Francesco non può essere letta con un occhio solo

Dopo i primi due commenti postati mercoledì e giovedì, oggi ecco nell'ultimo la riflessione di Riccardo Cristiano.
Di questo Documento si è parlato in queste ore per i capitoli, certamente importanti, contro il gender e la maternità surrogata. Vi figurano anche il dramma della povertà, la guerra, il travaglio dei migranti, la tratta delle persone, gli abusi sessuali (soprattutto nella Chiesa), la violenza contro le donne, l’aborto, l’eutanasia e il suicidio assistito, lo scarto dei diversamente abili, il cambio di sesso, la violenza digitale. 


Presentare appropriatamente tutto è impossibile. Trovo importante questa ribadita disponibilità: “Certamente la dignità del malato in condizioni critiche o terminali chiede a tutti sforzi adeguati e necessari per alleviare la sua sofferenza tramite opportune cure palliative ed evitando ogni accanimento terapeutico o intervento sproporzionato”.

L'opinione di Riccardo Cristiano a questo link:


Alla ricerca di una cultura di pace

Camminare insieme realizza la vera comunione e questa non sopprime mai le differenze. È la sorpresa della Pentecoste che mostra quanto lingue diverse non siano un ostacolo, grazie all’azione dello Spirito.


«Voglio pensare che sono tutti esseri umani che potrebbero avere la capacità di “combattere” per un fine più alto che non sia quello di sterminarsi gli uni gli altri ed evitare che un uomo provi orrore, paura, odio nei confronti di un altro». (Ruth Maier, morta ad Auschwitz nel 1942, a 22 anni).
In un clima da terza guerra mondiale, ricordare l’esistenza di piccole oasi di pace può contribuire a rischiarare orizzonti pregni di negatività. 
Un percorso nella memoria tra Bruno Hussar uomo delle molte beatitudini (Nevè Shalom-Waahat as Salaam) e la filosofa indiana Vimala Thakar, di matrice induista, appartenente al Movimento per la Pace di ispirazione gandhiana, donna di particolare saggezza.

L'intero articolo di Annamaria Verdi Vighetti è a questo link:


 

Tre diverse letture sulla "Dignitas infinita" (2). Oggi il disagio del Dicastero: fede ecclesiale, nuovi paradigmi ed anche la questione del gender

Dopo l'approfondimento di Antonio Autiero postato ieri, oggi quello del teologo Andrea Grillo.
Non vi è dubbio che, alla terza occasione in cui il Dicastero per la dottrina per la fede, sotto la guida del Card. Fernandez, si pronuncia ufficialmente, dimostra con evidenza una sofferenza dottrinale che merita di essere considerata. 


Dignitas infinita porta in primo piano una specifica questione che potremmo esprimere in questo modo:  come si deve muovere argomentativamente una dottrina cattolica che voglia davvero prendere sul serio l’invito, del Concilio Vaticano II e poi di papa Francesco, a distinguere tra “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei” e la “formulazione del suo rivestimento”? Qui troviamo, come guide, non solo le indicazioni conciliari, ma di recente, il grande Proemio a Veritatis Gaudium, alcune istanze chiare già di Evangelii Gaudium, la recente lettera di papa Francesco al nuovo Prefetto e infine alcuni passi significativi contenuti nel Documento di Sintesi del Sinodo dei Vescovi.
Se alla fine di un documento sulla “dignità infinita” dell’uomo e della donna ci si confronta con quella che viene chiamata “ideologia gender” e si usano, come uniche fonti citate in nota, le parole che papa Francesco ha pronunciato in diverse occasioni, senza mai esaminare l’oggetto del giudizio (la teoria di genere) in modo complessivo, ma considerandola solo per i suoi contenuti “ideologici”, si viene meno a quel compito di “intelligenza della fede” che non può convocare la cultura contemporanea solo “in contumacia”.

Siamo sicuri che una lettura della donna come “pienamente degna di esercitare la autorità” possa essere portata a buon fine senza una “lettura di genere”? 

La riflessione di Andrea Grillo è a questo link:



Da Chiese a Ong?

C’era una volta, in Europa, lo Stato sociale, cioè il progetto di garantire l’accesso ai servizi, e in particolare all’istruzione e alla sanità, all’intera popolazione, mediante risorse fornite da una fiscalità proporzionale e progressiva.


Qualche problema doveva esserci anche allora, se, nello slang popolar-giovanile, un prodotto di qualità non proprio superlativa poteva essere detto “della mutua”, con riferimento al Servizio sanitario pubblico: l’Italia non era la Svezia. In ogni caso, lo Stato sociale tentava, con qualche successo, di incrementare la qualità della vita anche dei ceti meno abbienti, il che alla lunga permetteva, soprattutto grazie all’istruzione, una certa mobilità sociale. È stata l’epoca d’oro del “ceto medio”.

Dal punto di vista ideale, quel progetto vedeva l’incontro tra programmi politici di ascendenza socialista, del tutto emancipati (anche quando targati, come a lungo in Italia, Partito comunista) dal modello sovietico e la tradizione del solidarismo cristiano. Le Chiese non hanno mai abbandonato l’intervento diretto nel sociale (la Caritas cattolica, la “diaconia” protestante) e, anzi, ne hanno sottolineato con ragione il carattere insostituibile. Ciò però, complessivamente, non ha impedito loro di superare ...

La riflessione di Fulvio Ferrario, professore di Teologia Dogmatica, continua a questo link:

https://confronti.net/2024/04/da-chiese-a-ong/

Tre diverse letture sulla "Dignitas infinita" (1). Oggi un commento di Antonio Autiero

Già il titolo della Dichiarazione del Dicastero Vaticano per la dottrina della fede merita una particolare attenzione. Il motivo non è tanto per la sua originalità, dal momento che esso rimanda ad una espressione già ricorrente in precedenti testi di magistero pontificio, quanto piuttosto per quell’interessante e provocatorio spazio evocativo creato dalla figura dell’infinito, racchiusa nell’aggettivo scelto a qualificare la dignità, di cui il documento vuole parlare.


Sul tema stesso della dignità umana la voce del magistero non è nuova e per entrarci fornisce anche una chiarificazione previa sull’ampiezza semantica del concetto di dignità, distinguendone le dimensioni ontologica, morale, sociale, esistenziale, con il chiaro indicatore di importanza fondativa dell’approccio ontologico. Questo fattore non è marginale, perché crea in realtà sia la cifra di lettura che l’opzione interpretativa in cui il documento intende collocarsi.
Ma l’impianto rigidamente ontologico avrebbe dovuto essere integrato con uno sguardo fenomenologico, non meno rigoroso, ma di certo più calibrato, flessibile e promettente dal punto di vista ermeneutico....

Il commento è a questo link:





 

Nel buio della notte, la luce della Luna…

 Il buio (e la paura di esso) ci accomuna tutti in quanto esseri umani, così come la ricerca in esso di una luce che lo illumini: ma tutte le luci sono uguali?


Nell’undicesima stazione della Via Crucis, Papa Francesco così medita: «Gesù, gridi al Padre il tuo abbandono per immergerti fino in fondo nell’abisso del nostro dolore, affinché io, quando vedo solo buio, quando sperimento il crollo delle certezze e il naufragio del vivere, non mi senta più solo» e «nel buio dei miei perché, ritrovo te, Gesù, luce nella notte». Lo stesso Pietro, ricorda il vescovo di Roma nell’omelia della messa del crisma, «cominciò a conoscerlo [Gesù] quando, nel buio del rinnegamento, fece spazio alle lacrime della vergogna [e] del pentimento». Infine, le donne che si recano al sepolcro, nella lettura che ne dà Francesco, «avevano il buio nel cuore… dentro di sé conservano il buio della notte… paralizzate dal dolore, sono rinchiuse nella sensazione che ormai sia tutto finito» (Omelia della veglia pasquale).
In effetti, la morte di Gesù sulla croce avviene in quello che dovrebbe essere il momento più assolato (e caldo) della giornata: mezzogiorno – lo stesso orario in cui la Samaritana si recava a prelevare l’acqua dal pozzo (Gv 4,6). Ma i tre vangeli sinottici raccontano che ...

La riflessione di Sergio Ventura continua a questo link:


Il futuro europeo passa (anche) per Israele

Davide Assael evidenzia le tante contraddizioni che minano la credibilità delle proteste antisraeliana in Occidente, mentre il governo di Netanyahu è tentato da una lettura messianica del conflitto.

 


Davide Assael è Presidente dell’Associazione Lech Lechà, collaboratore con Limes e Domani, è uno dei conduttori della trasmissione radio “Uomini e Profeti



Dopo sei mesi di guerra a Gaza ci troviamo a registrare aspre forme di conflittualità anche in Europa. Qual è il tuo giudizio sulla guerra, il cessate il fuoco chiesto dall’ONU per Ramadan appena concluso porterà a una tregua? ....


L'intervista è a questo link:


https://riflessimenorah.com/il-futuro-europeo-passa-anche-per-israele/

Card. Zenari (nunzio): “Le notizie sulla Siria non vendono più. Dimenticati da media e comunità internazionale”

Ogni giorno emigrano dalla Siria 500 cristiani siriani. “La nostra più grande ferita è veder partire i cristiani”, afferma il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria. “Vediamo queste Chiese morire. Per noi è come un’altra bomba". Lo ha detto durante il 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane. Sull'attualità del conflitto, dopo i raid di Israele contro le postazioni iraniane in Siria, afferma al Sir: “Se si continua di questo passo temo una escalation internazionale. Per trovare una soluzione politica alla guerra “devono muoversi tre Paesi: Damasco, Washington e Bruxelles. Soprattutto l’Europa potrebbe fare di più"


“Le notizie sulla Siria non vendono più, ora si parla solo di Gaza e Ucraina. Siamo stati dimenticati dai media e dalla comunità internazionale. Ma da noi le bombe continuano a cadere”. Parla senza filtri e a ruota libera il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria dal 2008, in questi giorni a Grado per partecipare al 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, a cui partecipano 600 delegati da tutta Italia. Durante una delle quattro assemblee tematiche della mattinata snocciola le cifre che descrivono un Paese distrutto dal conflitto e dalla povertà (il 15 marzo il conflitto è entrato nel 14° anno), con 16,7 milioni di persone (i tre quarti della popolazione) che sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari. Il 90% della popolazione è sul lastrico. Mezzo milione di morti (tra cui 29.000 bambini) e 12 milioni di persone fuggite, tra cui 7 milioni di sfollati interni...


Il reportage di Patrizia Caiffa è a questo link:


14 aprile: Giornata Donazione organi. La storia di Giordano e della mamma Annalisa: “Quando hai un cuore nuovo lo devi custodire”

Giordano ha quasi 5 anni, ma negli ultimi sette mesi la sua vita è stata appesa ad un filo. Poi, finalmente, l'arrivo di un cuore ed il trapianto a Torino. Nel racconto della mamma, in occasione della Giornata nazionale per la donazione degli organi che ricorre domenica 14 aprile, il timore di perderlo, la sofferenza e l’attesa condivisa con le altre mamme in ospedale, la gratitudine a medici e infermieri, la commozione nei confronti dei genitori che hanno avuto la forza di trasformare la disperazione per la perdita di un figlio in dono di vita per altri bambini

Il 20 aprile Giordano compirà 5 anni grazie ad un trapianto di cuore a Torino che gli ha salvato la vita. “Abbiamo rischiato di perderlo” ci racconta la mamma, Annalisa Margarino, insegnante genovese che da otto mesi vive con Giordano all’ospedale Regina Margherita del capoluogo piemontese. “In questi otto mesi ho imparato di più che in dieci anni di vita”, ci confida in occasione della Giornata nazionale per la donazione degli organi che quest’anno ricorre domenica 14 aprile. Nelle sue parole il timore di perdere Giordano, la sofferenza e l’attesa condivisa con le altre mamme, la gratitudine a medici e infermieri, e la commozione riconoscente nei confronti dei genitori che hanno avuto la forza di trasformare il dolore lancinante della perdita di un figlio in un dono di vita per altri bambini. Giordano in questi giorni è di nuovo al Regina Margherita perché ha avuto due infezioni, “cose che capitano ai trapiantati; nulla di allarmante ma va seguito perché essendo immunodepresso potrebbe rischiare molto”, ci dice la mamma e aggiunge sorridendo: "Quando hai un cuore nuovo lo devi custodire".

Annalisa, che cosa è successo?

Lo scorso luglio eravamo in vacanza come ogni estate a Camaldoli: Giordano, il fratellino più grande, Gioele, di quasi 8 anni, mio marito ed io. Era il 26, giorno del mio onomastico, non lo dimenticherò mai. Giordano ha iniziato a sentirsi male.....

L'intervista di Giovanna Pasqualin Traversa continua a questo link:


Il Foglietto "La Resurrezione" di Domenica 14 aprile: Il Bilancio della Parrocchia

 


Ecologia, digitale, spiritualità: tre crisi in una

Per superare le difficoltà di questo tempo bisognerebbe essere aquile, e invece siamo solo galline. Ma una strada c'è...


Siamo come galline, che starnazzano per un po’ di cibo, incapaci di spiccare il volo, nonostante il rischio di cadere il baratro di una triplice crisi: ecologica, digitale e spirituale?
Si direbbe di sì, leggendo il libro di Fabio Pasqualetti, intitolato appunto “Ecologia, digitale, spiritualità” (Castelvecchi, 2024), che indaga il rapporto “complesso e problematico” tra queste tre dimensioni – che oggi sono diventate tre baratri da superare se vogliamo avere un buon futuro – solo apparentemente slegate e indipendenti tra loro: in realtà non sono tre baratri diversi, ma tre aspetti di un unico precipizio. Un precipizio costruito nei decenni dall’uomo.
Abbiamo scelto di vivere secondo un modello di sviluppo insostenibile. Negli anni sessanta abbiamo seguito il paradigma della modernizzazione, che puntava tutto sulla crescita economia, sulla scelta tecnologica, sulla pianificazione dello sviluppo, mentre le cause del sottosviluppo erano addebitate a cause interni dei vari Paesi di quello che allora si chiamava Terzo mondo.
Negli anni settanta, abbiamo seguito il paradigma della dipendenza ...

L'articolo di Paola Springhetti continua a questo link:

III Domenica di Pasqua - Lc 24,35-48

L’esperienza del Risorto passa attraverso il toccare la carne sofferente e piagata dell’umanità dall’ingiustizia, dai soprusi, dalle guerre. Se non si riesce a “vedere” e “toccare” queste sofferenze prendendo su di noi stessi il dolore, il male del mondo che devasta la vita, facciamo diventare Gesù un fantasma evanescente che non ha carne né ossa.  

Il suo mandato alla Comunità (non ai singoli!) è quello di "strappare" (= perdonare) tutti i popoli dal "mondo vecchio" centrato sul potere (= il peccato) e non sul servizio.


 

Gli Evangeli del periodo pasquale pongono al loro centro l’osservazione che credere al Risorto è esperimentarne la presenza e Luca suggerisce con insistenza il fatto che questo avviene all’interno di una comunità dove l’annuncio dell’incontro diventa narrazione di ciò che si è vissuto.

È in questo contesto che Gesù, non appare, ma “sta” in mezzo a coloro che si ritrovano riuniti come sottolinea anche Matteo (18,20) quando riporta l’affermazione di Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro”. Non è un caso che anche l’invio in missione dei discepoli in Luca 10 avvenga “a due a due”, il minimo di una comunità.

Gesù non se n’è mai andato via e ci ha assicurato che sta con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). “Sta” in mezzo condividendo le fatiche di chi è riunito nel continuo cammino tra la fede e il dubbio, tra il credere e l’incertezza della diffidenza. 

Luca ci avverte: non si risolvono i nostri dubbi e le nostre incertezze nemmeno se vedessimo le ferite sulle mani, sui piedi e sul costato di Gesù, nemmeno se lui condividesse un pranzo con noi. Certo, saremmo sorpresi e proveremmo anche molta gioia (Lc 24,41) ma non basterebbe. È necessario un passo ulteriore che ci accompagni a comprendere quell’evento unico che è stata la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione. Occorre ricordarecredere e comprendere le Scritture che la presenza di Gesù ci garantisce risvegliando la nostra memoria e afferma che il compimento delle Scritture è il suo corpo crocifisso e risorto. Sono questi elementi assieme e non separati uno dall’altro, che aprono la nostra mente (Lc 24,45), il nostro cuore (At 16,14), i nostri occhi (Lc 24,31) e ci fanno comprendere il mistero dell’amore che vince la morte e, conducendoci, ci chiede di amare con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze, con tutta la nostra persona.

È questo il compito dei testimoni. Termine la cui radice significa pensarericordare, farsi carico del Risorto congiuntamente alle Scritture ebraiche che lo hanno annunciato e dalle quali non può essere separato senza perdere consistenza. Se le nostre comunità desiderano essere davvero dei testimoni credibili, il primo passo è quello di ricordare e meditare le Scritture che parlano del Signore (Lc 24,44).

Il secondo passo è quello di tenere fisso lo sguardo su quelle mani bucate e sul costato ferito. Cristo lo si riconosce da questi segni, non dal volto. Anche L’Evangelo di Giovanni ce lo ha detto chiaramente la scorsa settimana e ci si deve chiedere dove oggi possiamo vedere quel corpo ferito. Non certo nei santini o nella pietà doloristica che ci viene dai secoli passati e che ha portato a pensare che a salvarci siano state le sofferenze patite da Gesù e non l’amore del Padre che lui ha trasudato da ogni poro della sua pelle in ogni istante di vita.

Quelle piaghe sulle quali chinarsi come lui ha fatto sono quelle dei poveri, di chi subisce violenze, ingiustizie di ogni genere che creano sofferenze, disperazione; in chi vive di precariato e non ha la possibilità di curarsi, negli anziani lasciati soli spesso anche dalle nostre comunità “cristiane” quando non hanno più la capacità di poter essere utili o utilizzati.

Se non si riesce a “vedere” e “toccare” queste sofferenze prendendo su di noi stessi il dolore, il male del mondo che devasta la vita, facciamo diventare Gesù un fantasma evanescente che non ha carne né ossa. 

Troppo spesso si dimentica che il Risorto è il Crocifisso e che l’esperienza del Risorto passa attraverso il toccare la carne sofferente e piagata dell’umanità dall’ingiustizia, dai soprusi, dalle guerre. Non per nulla è stato scritto che l’esperienza pasquale non è luce abbagliante che sconfigge le tenebre, ma spiraglio luminoso in un continuum di oscurità, è esperienza di tenebra che non riesce a sconfiggere la luce, è alternanza di luce e tenebra. È questo un elemento che porta consolazione nel nostro pendere e vacillare tra incredulità e fede. Quest’ultima è chiamata ad esse domanda più che certezza, ricerca umile attraversata da mille perché, eco di quello che il Crocefisso ha rivolto al Padre il cui corpo possiamo incontrare nei sofferenti che ci vivono accanto.

 

L’Evangelo di oggi si chiude con il medesimo compito della scorsa settimana: il perdono del peccato (al singolare e non al plurale!), cioè l’invito a strappare (questa è la radice del verbo “perdonare”) tutti i popoli dal mondo vecchio nel quale domina l’ego del potere e non del servizio che, invece è la caratteristica del Regno del Padre che Gesù ha portato fra di noi e che ci chiede di implementare continuamente. È un compito affidato alla comunità del Risorto, non ai singoli e ogni comunità dovrebbe costantemente verificare che cosa ha fatto e sta facendo di questo mandato ricevuto.

(BiGio

Dove cercare il senso della morte e resurrezione di Gesù?

Sembrava che la fede nella resurrezione fosse un fatto assodato mentre ora sembra di precipitare all'indietro quando l’annuncio delle donne parve “come un vaneggiamento"

Il racconto del vangelo di Luca narra per la terza volta un’apparizione del Risorto. Sembrava che la fede nella resurrezione fosse già un fatto assodato; quando i due discepoli di Emmaus fanno ritorno a Gerusalemme, infatti, trovano gli Undici che proclamano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!” (v. 34). 

Ora ci sembra di precipitare di nuovo nella situazione descritta al v. 11, quando i discepoli all’udire l’annuncio delle donne ritennero quelle parole “come un vaneggiamento e non credevano ad esse”. Certo, possiamo spiegare questo contrasto pensando alla diversità di fonti cui ha attinto Luca nel redigere il suo vangelo e a un lavoro redazionale che non ha limato le contraddizioni, ma forse invece anche queste contraddizioni vogliono dirci qualcosa sulla fede nella resurrezione. Fede, fiducia che per gli Undici, come per noi, è segnata dalla gioia, dal dubbio, dalla fatica a credere.

Proprio mentre stavano parlando dell’incontro del Risorto con Simone e con i due discepoli diretti a Emmaus e rientrati a Gerusalemme dopo quell’incontro lungo la via, “Gesù in persona stette in mezzo a loro” e non lo riconoscono! A parole dicono di credere, in realtà non riconoscono la sua presenza

“In mezzo a loro”, al centro della comunità, della chiesa mettono, mettiamo altro, forse altre persone, o un'altra immagine del Risorto, un Signore vincitore, trionfante che non porta più alcun segno di sofferenza nel proprio corpo. Il Risorto non corrisponde a ciò che gli Undici si aspettavano. Impauriti credono di vedere uno spirito estraneo al mondo fatto di corpi e di materia. E invece ci dice Luca, c’è continuità tra la vicenda vissuta su questa terra e la resurrezione anche se non ci è dato di sapere come. Il Risorto porta sul suo corpo le tracce indelebili delle ferite che hanno sfregiato il suo corpo, ferite provocate dall’odio, dal rifiuto e trasformate dall’amore. “Guardate le mie mani e i miei piedi. Sono proprio io”. 

Commenta un padre della chiesa d’occidente, Pietro Crisologo: “Sono io. Non temete. Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi … Non temere Pietro che mi hai rinnegato, né tu, Giovanni, che sei fuggito, né tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete. Non temete, sono io. Sono io, vi ho chiamati per amore, vi ho perdonato, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore, e oggi vi accolgo per la mia sola bontà, perché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio” (Discorsi 81). 

Nulla di ciò che abbiamo vissuto andrà perduto. Il Signore raccoglie e conta le nostre lacrime (cf. Sal 56,9). La resurrezione di Gesù (e con la sua la nostra) non si impone con gesti eclatanti, chiede di essere accolta nell’affidamento della fede e compresa la luce delle Scritture. Per tre volte in questo capitolo di Luca si ribadisce la necessità di cercare il senso della morte e resurrezione di Gesù nella Scrittura (vv. 6-7; 26-27; 44); non basta il sepolcro vuoto senza il ricordo delle parole dette da Gesù. Lì troviamo il senso della sua vita, passione morte e resurrezione, lì troviamo il senso della nostra vita, della nostra passione e morte e la fede nella resurrezione. Allora saremo capaci di accogliere il saluto del Risorto, del Vivente in mezzo a noi: “Pace a voi”, quella pace che porta i segni del rifiuto e li trasforma in amore. “Di questo sarete testimoni!”.

(sr Lisa di Bose)

Migranti: il nuovo patto UE è davvero tutto oro?

Per lo più se ne è sentito parlare solo bene, invece ...


... se per i legislatori europei è un passo in avanti, in realtà è uno indietro per l'Europa, due per l'Italia. L'accordo sulle nuove norme su asilo e migrazione, a meno di due mesi dal voto di giugno, è simbolo di una coalizione di centro (popolari, socialisti e liberali) alla disperata ricerca di consenso. Anche quando questo significa inasprire regole sull'accoglienza all'interno dell'Europa e, probabilmente, rimandare più migranti in Italia (tra quelli che hanno raggiunto altri paesi UE). Niente sui rimpatri, niente su nuovi canali di migrazione regolari. D'altronde, nell'era della diffidenza e dei muri, non potrebbe che essere così.

L'analisi dell'ISPI è a questo link:

Il Vangelo secondo Scorsese

Nel corso degli ultimi otto anni, Martin Scorsese e Antonio Spadaro hanno intessuto un dialogo intimo, fitto e di straordinaria intensità che ha toccato vari temi, e in particolare sulla fede. La conversazione, tuttora in corso, è avvenuta nei luoghi più disparati.

La trascrizione di questa conversazione mai interrotta ha generato Dialoghi sulla fede, che si conclude con la prima bozza di una sceneggiatura su Gesù scritta sulla suggestione della prefazione del pontefice a un precedente testo di Spadaro, Una trama divina : «La prefazione mi ha dato molto da pensare » gli scrisse quando ancora si davano del lei «tanto che ho deciso di darle una risposta, di aggiungere qualcosa, solo che io sono un regista, non un filosofo». Allo stato attuale Scorsese sta completando la sceneggiatura con il progetto di trasformarla in un film. Col tempo tra i due è nata un’amicizia sincera e profonda, e il dialogo si è sviluppato attraverso riferimenti iconografici, cinematografici, ma soprattutto letterari. Chi conosce Scorsese sa quanto sia irresistibile la conoscenza di a scrittori che hanno un ruolo fondamentale all’interno del suo percorso artistico ed esistenziale: Flannery O’Connor, Shasaku Endo, Fedor Dostoevskij e Marilynne Robinson....

L'articolo di Vangelo Monda continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202403/240320monda.pdf


 

Confrontro con Stefano Levi Della Torre su "La guerra in Medioriente"

Stefano Levi Della Torre è tra i promotori dell’appello MAI INDIFFERENTI, con lui ci è confrontati sulla guerra in Medio Oriente e su cosa sia possibile fare per creare condizioni favorevoli al cessate il fuoco (subito) e alla pace (in prospettiva)


Stefano Levi Della Torre è architetto laureato a Milano, dove vive e insegna alla Facoltà di Architettura del Politecnico.D’origine ebraica piemontese e aostana, ha una visione laica, socialista e liberale, che non gli impedisce di studiare la tradizione ebraica, anzi, pubblica interessanti interventi politici e di riflessione sull’ebraismo. È stato membro del “Consiglio della Comunità Ebraica” di Milano e nel 1992 è invitato dal cardinale Martini alla Cattedra dei non credentiÈ pittore che espone raramente, architetto e saggista, si occupa di critica d’arte, letteratura e pensiero ebraico con saggi che ruotano attorno a diaspora e sionismo, fede e credenze, conflitti tra umano e divino. 

Un confronto aperto, chiaro, ricco di spunti, capace di guardare allo scacchiere del Medioriente senza preclusioni e ad ampio spettro come raramente si riesce a trovare.

Questo è il link sul Blog del "Digiuno per la pace" all'interno del quale ci sono molti altri interventi:


La svolta slovacca

La Slovacchia elegge Peter Pellegrini come nuovo Presidente: per il premier Robert Fico, accusato di simpatie pro-russe e scettico sul sostegno all'Ucraina, è una vittoria assoluta.

L'intera analisi dell'ISPI a questo link:

https://a7b4e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fjd=rytw_y.-ge=tyah0=quq_9a1.-=0-4&x=pv&8267:&x=pp&q18a5::64cb_90e=rtwvNCLM

La crisi del cattolicesimo e la sfida culturale

La crisi culturale e la diffusa insensibilità popolare non sono verso la fede, ma verso il modo troppo debole e poco rigoroso di presentare e insegnare la verità cattolica. Vi è troppa paura e poca audacia. Abbandonare il rigore argomentativo, dimenticarsi del fascino esigente e attraente della Verità, di cui la Chiesa romana è custode, ha avuto un senso forse ottant’anni fa, in un momento in cui la società era eccessivamente rigida, ma non ha più significato oggi. Il commento di Benedetto Ippolito


Qualche giorno fa il teologo Pierangelo Sequeri su Avvenire ha sollevato un dibattito importante a proposito della scarsa attenzione della cultura da parte della Chiesa. Come Roberto Righetto ha ben segnalato il 9 marzo sullo stesso quotidiano, in realtà siamo davanti ad una recente sollecitazione di una discussione che è in atto da tempo e che è stata affrontata anche su altri quotidiani cattolici molto autorevoli.

Stimolante mi è parso, ad esempio, l’intervento di Marcello Veneziani su La Verità del 10 marzo, nel quale, fuori dagli schemi ufficiali, la questione è stata spostata dall’esclusiva considerazione di questo pontificato ad un problema più generale riguardante la nostra epoca e l’Occidente nel suo insieme.

La prima osservazione di rilievo, a mio modo di vedere, è da concentrare nella definizione stessa di cattolicità. Infatti, da ormai decenni la Chiesa di Roma ha trascurato un’idea vera che per molti secoli ha contrassegnato la sua posizione ortodossa, vale a dire la demarcazione netta tra la determinazione specifica del cattolicesimo nei rispetti della più generale definizione di cristianità. Se a partire al XI secolo il cristianesimo cattolico si è frazionato in Oriente e Occidente, con la riforma protestante del XVI secolo anche in Occidente il cattolicesimo non è coinciso più con il cristianesimo.

Quindi se vogliamo parlare di crisi della cultura cattolica è dall’identità del cattolicesimo che si deve partire....


L'articolo continua a questo link:

https://formiche.net/2024/03/crisi-cattolicesimo-sfida-culturale-ippolito/#content