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III Domenica di Pasqua - Lc 24,35-48

L’esperienza del Risorto passa attraverso il toccare la carne sofferente e piagata dell’umanità dall’ingiustizia, dai soprusi, dalle guerre. Se non si riesce a “vedere” e “toccare” queste sofferenze prendendo su di noi stessi il dolore, il male del mondo che devasta la vita, facciamo diventare Gesù un fantasma evanescente che non ha carne né ossa.  

Il suo mandato alla Comunità (non ai singoli!) è quello di "strappare" (= perdonare) tutti i popoli dal "mondo vecchio" centrato sul potere (= il peccato) e non sul servizio.


 

Gli Evangeli del periodo pasquale pongono al loro centro l’osservazione che credere al Risorto è esperimentarne la presenza e Luca suggerisce con insistenza il fatto che questo avviene all’interno di una comunità dove l’annuncio dell’incontro diventa narrazione di ciò che si è vissuto.

È in questo contesto che Gesù, non appare, ma “sta” in mezzo a coloro che si ritrovano riuniti come sottolinea anche Matteo (18,20) quando riporta l’affermazione di Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro”. Non è un caso che anche l’invio in missione dei discepoli in Luca 10 avvenga “a due a due”, il minimo di una comunità.

Gesù non se n’è mai andato via e ci ha assicurato che sta con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). “Sta” in mezzo condividendo le fatiche di chi è riunito nel continuo cammino tra la fede e il dubbio, tra il credere e l’incertezza della diffidenza. 

Luca ci avverte: non si risolvono i nostri dubbi e le nostre incertezze nemmeno se vedessimo le ferite sulle mani, sui piedi e sul costato di Gesù, nemmeno se lui condividesse un pranzo con noi. Certo, saremmo sorpresi e proveremmo anche molta gioia (Lc 24,41) ma non basterebbe. È necessario un passo ulteriore che ci accompagni a comprendere quell’evento unico che è stata la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione. Occorre ricordarecredere e comprendere le Scritture che la presenza di Gesù ci garantisce risvegliando la nostra memoria e afferma che il compimento delle Scritture è il suo corpo crocifisso e risorto. Sono questi elementi assieme e non separati uno dall’altro, che aprono la nostra mente (Lc 24,45), il nostro cuore (At 16,14), i nostri occhi (Lc 24,31) e ci fanno comprendere il mistero dell’amore che vince la morte e, conducendoci, ci chiede di amare con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze, con tutta la nostra persona.

È questo il compito dei testimoni. Termine la cui radice significa pensarericordare, farsi carico del Risorto congiuntamente alle Scritture ebraiche che lo hanno annunciato e dalle quali non può essere separato senza perdere consistenza. Se le nostre comunità desiderano essere davvero dei testimoni credibili, il primo passo è quello di ricordare e meditare le Scritture che parlano del Signore (Lc 24,44).

Il secondo passo è quello di tenere fisso lo sguardo su quelle mani bucate e sul costato ferito. Cristo lo si riconosce da questi segni, non dal volto. Anche L’Evangelo di Giovanni ce lo ha detto chiaramente la scorsa settimana e ci si deve chiedere dove oggi possiamo vedere quel corpo ferito. Non certo nei santini o nella pietà doloristica che ci viene dai secoli passati e che ha portato a pensare che a salvarci siano state le sofferenze patite da Gesù e non l’amore del Padre che lui ha trasudato da ogni poro della sua pelle in ogni istante di vita.

Quelle piaghe sulle quali chinarsi come lui ha fatto sono quelle dei poveri, di chi subisce violenze, ingiustizie di ogni genere che creano sofferenze, disperazione; in chi vive di precariato e non ha la possibilità di curarsi, negli anziani lasciati soli spesso anche dalle nostre comunità “cristiane” quando non hanno più la capacità di poter essere utili o utilizzati.

Se non si riesce a “vedere” e “toccare” queste sofferenze prendendo su di noi stessi il dolore, il male del mondo che devasta la vita, facciamo diventare Gesù un fantasma evanescente che non ha carne né ossa. 

Troppo spesso si dimentica che il Risorto è il Crocifisso e che l’esperienza del Risorto passa attraverso il toccare la carne sofferente e piagata dell’umanità dall’ingiustizia, dai soprusi, dalle guerre. Non per nulla è stato scritto che l’esperienza pasquale non è luce abbagliante che sconfigge le tenebre, ma spiraglio luminoso in un continuum di oscurità, è esperienza di tenebra che non riesce a sconfiggere la luce, è alternanza di luce e tenebra. È questo un elemento che porta consolazione nel nostro pendere e vacillare tra incredulità e fede. Quest’ultima è chiamata ad esse domanda più che certezza, ricerca umile attraversata da mille perché, eco di quello che il Crocefisso ha rivolto al Padre il cui corpo possiamo incontrare nei sofferenti che ci vivono accanto.

 

L’Evangelo di oggi si chiude con il medesimo compito della scorsa settimana: il perdono del peccato (al singolare e non al plurale!), cioè l’invito a strappare (questa è la radice del verbo “perdonare”) tutti i popoli dal mondo vecchio nel quale domina l’ego del potere e non del servizio che, invece è la caratteristica del Regno del Padre che Gesù ha portato fra di noi e che ci chiede di implementare continuamente. È un compito affidato alla comunità del Risorto, non ai singoli e ogni comunità dovrebbe costantemente verificare che cosa ha fatto e sta facendo di questo mandato ricevuto.

(BiGio

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