“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Può sembrare una correlazione strana di verbi, forse a prima vista incomprensibile. Ma nel mondo semitico la capacità di ascoltare l’altro è ciò che avvia una relazione non una qualsiasi ...
In queste settimane post pasquali gli Evangeli piano piano ci conducono a scoprire quali sono i frutti della morte e risurrezione di Gesù: il saper guadare oltre le morti, il dono della riconciliazione tra l’uomo e Dio (=la pace), il compito che le Comunità hanno ricevuto in dono da svolgere guidati dal Signore e non dalle proprie convinzioni (condividere con tutta l’umanità l’amore di Cristo per tutti).
I quattro versetti di oggi sono un concentrato che illustra quali sono le condizioni perché, nel cammino di sequela, si sviluppi quella relazione e quella comunione capace di sorreggere la vita di una Comunità credente. Questo accade quando, a immagine di Gesù, si pone la nostra fiducia in Dio che, a cascata, fa nascere in noi quella negli altri uomini, assieme alla vigilanza, al discernimento, alla lucidità, alla capacità di leggere la realtà in profondità. Affidarsi e seguire la volontà del Padre è garanzia di non scadere nell’agire secondo la logica del mondo che chiede fiducia e legittimazione in cambio di elargizioni di beni secondo i criteri degli scambi economici.
In questa pericope Gesù si presenta come il “buon Pastore” ma non secondo l’immagine che ne dà Luca nel suo Evangelo, alla quale va normalmente subito il nostro pensiero: la figura che tiene sulle spalle la pecora smarrita che è andato a cercare (15,4-8). In Giovanni il “pastore” è “buono” perché non ha paura di lottare fino a dare la propria vita per il gregge che ama (Gv 10,11), per questo può affermare con sicurezza che le sue pecore “non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. È questo il “lieto annuncio” di oggi che viene dalla Pasqua e che il cristiano deve comunicare ad ogni uomo. Anche a chi nella sua vita ha sbagliato tutto deve essere certo che nulla riuscirà a sconfiggere l’amore di Cristo per lui.
“Sue pecore” non sono tanto i battezzati bensì tutti coloro che hanno il coraggio di seguirlo in questo dono della vita e lui condivide in tutto la loro sorte. Può cioè essere discepolo del buon pastore anche chi, pur non conoscendo Cristo, si sacrifica per il povero, pratica la giustizia, la fraternità, la condivisione dei beni, l’ospitalità, la fedeltà, la sincerità, il rifiuto della violenza, il perdono dei nemici, l’impegno per la pace. Cioè l’essere battezzati non garantisce di per sé di far parte del suo gregge, del gregge che lui conduce e del quale condivide la vita fino in fondo. L’immagine del gregge che coincide con i battezzati guidati dai presbiteri come pastori è profondamente sbagliata e deriva da una visione verticistica che poco ha a che fare con l’Evangelo e l’essenza della Chiesa che è la sinodalità dei doni e dei ministeri.
Gesù afferma: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Può sembrare una correlazione strana di verbi, forse a prima vista incomprensibile. Ma nel mondo semitico la capacità di ascoltare l’altro è ciò che avvia una relazione non una qualsiasi, bensì quella caratterizzata da un rapporto intimo qual è quello sponsale che, nella Scrittura, è definito come il “conoscersi” profondamente all’interno di un cammino comune, seguendo il Signore fianco a fianco. Realtà sponsale che, nella pienezza di questo termine, è fatta di conoscenza, amore, ascolto, dedizione, reciproco dono della vita nella quale si trova la realizzazione di quella pienezza alla quale siamo chiamati.
Per questo il suo essere “pastore” non va confuso con un compito, un mestiere che porta ad una ricompensa. Ma è la descrizione di un modo di essere all’interno di una relazione piena e ricca.
Ma come si riconosce la voce del Pastore? Ascoltandolo, cioè frequentando assiduamente la Scrittura, non solo udendola una volta ogni tanto senza magari riuscire a ricordare una sola Parola di quelle proclamate nella Liturgia della Parola la Domenica. Ascoltare realmente fa prendere corresponsabilità nella quale lui ci riconosce e ci dona la capacità di seguirlo condividendo il suo modo di essere e di agire. Lui è l’unico buon pastore che tutti i battezzati nella diversità dei carismi (e quello dei presbiteri è uno di questi alla pari di tutti) seguono per “conformarsi” a lui (Gal 4,19) e con lui diventare “uno” con il Padre.
Gesù come pastore non si è mai impegnato in una autopromozione o in un’opera di convincimento della bontà del suo agire come a volte facciamo noi per affermarci nelle nostre piccole realtà fatte di piccole spesso superficiali relazioni. Non si insisterà mai abbastanza nel dire che Gesù, a differenza dell’uomo, non agisce mai per un proprio tornaconto, ma sempre nel compiere la volontà del Padre che lo ha inviato.
Affidarci a lui come ci è chiesto oggi, è la possibilità di agire come lui ha fatto ed è questo quel dono gratuito che porta ad essere in “comunione” con lui, con la sua vita che lui dona gratuitamente a mani larghe e che è eterna, già ora nella qualità più che nella durata. Lui l’alimenta continuamente in chi crede ed è questo che significa il rimanere nel suo amore e nella sua parola.
(BiGio)
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