Domenica XIX PA - Gv 6,41-51

L’agire di Gesù è poi caratterizzato da due verbi discendere e dare che descrivono e qualificano l’intera sua esistenza, le sue modalità del vivere quotidiano: lo scendere verso i bisogni degli ultimi, abbassandosi su di loro, amandoli, spendendo la sua vita per loro, trovando in questo già da ora la “vita eterna” cioè l’essere in piena sintonia e comunione con Padre.


 

Questa è la terza domenica che la Liturgia ci propone un brano della sezione dei pani dell’Evangelo di S. Giovanni. Nella prima al centro c’è stata la condivisione dei pani e dei pesci. Quel fanciullo poteva tenerseli per sé e così saziare la sua fame, ma condividendo quel cibo che, in ogni caso è un dono di Dio, ha dato la possibilità di sfamare abbondantemente oltre ogni aspettativa una intera folla e ne sono avanzati dodici canestri. Anche questo, come molti altri aspetti, è un riferimento all’Esodo e, in questo caso specifico, alla celebrazione pasquale ebraica durante la quale, dopo il pasto rituale, da sotto la tovaglia viene tirata fuori la metà di un’azzima precedentemente nascosta e condivisa solo in quel momento nel quale tutti sono sazi a significare che il Signore dona oltre ogni nostra necessità.

La scorsa settimana Gesù aveva invitato imperativamente a “darsi da fare” per procurarsi “il cibo che rimane per la vita eterna” o, meglio, la vita con e nell’Eterno affermando “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”.

 

Oggi l’Evangelo riprende da qui con la reazione scandalizzata dei presenti che iniziano a mormorare contro di lui analogamente a quanto accadde nel deserto durante l’Esodo per la scarsità di cibo e la nostalgia del pane a sazietà che avevano in Egitto (Es 16,3). Le mormorazioni tra di loro contro Mosè in realtà andavano contro il Signore (Es 16,8). Questo modo di fare ha sempre due componenti: avviene “tra” ed è “contro qualcuno”, si situano all’opposto della “parresia”, cioè del parlare con franchezza e non dietro alle spalle; si nutrono di non chiarezza e corrono il pericolo di incrinare la solidità di una comunità. È un atteggiamento grave perché significa che non si sta pensando il nostro rapportarsi con gli altri davanti a Dio anzi, lo si sta escludendo.

Nell’Esodo Dio aveva risposto alle mormorazioni del popolo donando la manna, ugualmente Gesù risponde donando se stesso: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”. Come Israele difronte alla manna si chiese cosa fosse (Es 16,5), così Gesù suscita domande sulla sua identità: “costui non è forse Gesù il figlio di Giuseppe?”. Come ogni dono gratuito sorprende e interroga aprendo alla novità, oppure facendo ripiegare su se stessi per conservare quello che si ha e si conosce, rifiutando il futuro perché fonte di possibile cambiamento.

L’agire di Gesù è poi caratterizzato da due verbi discendere e dare che descrivono e qualificano l’intera sua esistenza, le sue modalità del vivere quotidiano: lo scendere verso i bisogni degli ultimi, abbassandosi su di loro, amandoli, spendendo la sua vita per loro, trovando in questo già da ora la “vita eterna” cioè l’essere in piena sintonia e comunione con Padre. Non per nulla Gesù afferma che “chi crede ha (la) vita eterna” dove quel “credere” è da raccordare a quell’invito all’imperativo “datevi da fare” del versetto 27 commentato la scorsa settimana, che ci coinvolge pienamente. È poi da sottolineare come nel testo greco al versetto 47 non c’è l’articolo determinativo come nella nostra traduzione liturgica e va quindi letto “chi crede ha vita eterna” perché una vita vissuta a imitazione di quella di Gesù è già eterna, non è un qualcosa di aggiunto o che si aggiungerà un seguito, quindi non ha bisogno di articoli determinativi. 

Gesù continua ad affermare la sua condizione divina sostenendo come un ritornello “Io sono” che è l’inizio del nome del Padre nell’Esodo e insiste: “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. L’evangelista adopera proprio il termine “carne” che indica l’uomo nella sua caducità a dirci che i doni di Dio passano attraverso le nostre fragilità. Più si diventa sensibili ai bisogni e alle sofferenze degli altri, più si permette il manifestarsi il divino nelle persone, più si diventa “umani” partecipi della vita di Dio. 

C’è anche spazio per una sottile nota polemica quando Gesù afferma che “vostri padri hanno mangiato la mano del deserto e sono morti. Come ebreo avrebbe dovuto dire “i nostri padri ma suo padre è altro dai “loro padri”, è colui che l’ha mandato e sta all’origine e al termine della sua missione come anche del nostro credere. Infatti “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre” (v. 44). Questa “attrazione” è frutto dell’ascolto e quindi dell’insegnamentoricevuto (cf. Gv 6,45) direttamente dal Padre che ci parla attraverso la Scrittura e fa così “sentire” la sua voce che invita tutti gli uomini (Gv 6,45; 12,32) a credere, cioè a vivere, come colui che egli ha mandato che è la sua Parola fatta carne. Non può che essere così perché da sempre la sua proposta è quella di fare del vivere un donare, lo spendere la vita per gli altri: è questo che vince la morte e consente di trovare la propria vita già ora nell’agire in comunione con Dio che è amore. 

(BiGio)

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