Una donna velata, anni fa, in un campo profughi al confine tra la Croazia e la Slovenia, mentre l’acqua scendeva a catinelle e lei si cambiava i vestiti fradici con quelli che le porgevo, mi guardò mi disse: «So che in nome della mia fede vengono commesse terribili violazioni dei diritti delle donne. Ma l’Islam appartiene anche a me». L’hijab, il velo indossato dalle donne musulmane come segno di modestia e devozione religiosa, ha scatenato nel dibattito occidentale degli ultimi due decenni una vera hit parade.
Mentre per alcuni è simbolo di espressione e identità culturale, altri sostengono sia una forma di oppressione patriarcale esercitata sulle donne. Alcune di loro lo portano, altre no. Alcune si definiscono musulmane femministe, altre solo musulmane e rivendicano un Islam che non discrimina le donne, ma che si presta alla politica per controllare la società. Tra queste ultime ci sono donne che hanno lasciato i propri paesi in cerca di libertà politiche loro negate, ma proprio in nome di quella libertà si ribellano al pregiudizio che trasforma temi sensibili in stereotipi con il rischio di trasformarli in una diversa forma di controllo e oppressione.
Ne abbiamo parlato con Asma Barlas, professoressa emerita e direttrice del Center for the Study of Culture, Race and Ethnicity presso l’Ithaca College di New York. Asma è una pensatrice pakistana che ha incentrato la sua ricerca su un’ermeneutica coranica volta a decostruire le letture tradizionali dei testi sacri dell’Islam attraverso lo strumento dell’analisi testuale.
L'intervista di Wildad Tamini è a questo link:
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