Domenica XX PA - Gv 6,51-58

Dio non “assorbe” l’uomo, ma ci chiede di essere accolto per fondersi con noi per dilatare la nostra capacità d’amore. "Dimorare" in Dio è far sì che in noi e in lui scorri un’unica linfa come tra i tralci e la vite


Anche questa domenica si continua la lettura del capitolo 6 di Giovanni definito come la “Sezione dei pani” nella quale si passa dalla condivisione del pane come cibo, alla ricerca spasmodica di Gesù da parte della folla ma solo perché si era saziata e cercava la possibilità di colmare altre sue esigenze, equivocando così il segno posto tanto che volevano farlo re costringendolo alla “fuga”.

Giunto a Cafarnao Gesù insegna nella Sinagoga e si sviluppa un dialogo intenso con i presenti durante il quale si propone come immagine dell’uomo riuscito, l’incarnazione della Sapienza di Dio ed invita tutti a “darsi da fare” per “compiere le opere di Dio” cioè il credere “in colui che ha mandato” aderendo alla sua proposta di vita, condividendone obiettivi e modalità secondo la volontà di amore del Padre.

La reazione dei giudei è stata di sorpresa scandalizzata perché presumevano di conoscere “costui”, la sua famiglia, i suoi genitori, il suo mestiere e, quindi, non poteva ingannarli avanzando la pretesa di essere quel “pane disceso dal cielo” che, mangiato, avrebbe donato la possibilità di vivere della medesima qualità della vita di Dio che è eterna. Gesù aveva anche detto che “la volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia (la) vita eterna”; bisogna però saper “vedere” e “credere in lui che non è nulla di intellettuale, ma un concreto essere le sue mani nel nostro presente.

 

Gesù, accrescendo i punti di attrito, aggiunge “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” e, come se non bastasse afferma perentoriamente ripetendolo per sei volte con sfumature diverse: “se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”.

Fin dall’inizio del suo Evangelo Giovanni aveva presentato Gesù come “l’agnello di Dio” (1,29) che avrebbe liberato non dalla morte fisica, ma da quella eterna e qui rilegge, applicandola a Gesù, quanto vissuto da Israele nella notte dell’Esodo quando ogni famiglia sacrificò un agnello, mangiandone la carne per avere la forza di iniziare il cammino verso la terra della libertà e ne spargese il sangue sugli stipiti delle porte per essere protetti dal passaggio dell’angelo dalla morte.

Giovanni fa usare a Gesù per “mangiare la sua carne” un verbo che non viene usato per le persone ma sempre per gli animali, in particolar modo i ruminanti indicandoci così una vera e propria assimilazione. Per farci ben comprendere cosa intendesse aggiunge “e bere il mio sangue” cioè la sua vita, il suo modo di essere e agire perché nella cultura semitica questo rappresenta il sangue che scorre nelle vene, tanto che in Genesi 9,3 viene vietato il mangiare “la carne con la sua vita” perché questa appartiene solo a Dio che l’ha creata.

 

In altre parole Gesù chiede di assimilarci completamente a lui, carne e sangue. La realizzazione dell’uomo, la possibilità di vivere in pienezza di quella stessa di Dio, passa attraverso l’identificazione non “spirituale” bensì proprio “fisica” con Gesù, facendo così diventare nostro il suo modo di operare e di essere fino a poter dire con S. Paolo “non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me” (Gal 2,19-21) e questa ha una qualità indistruttibile per l’eternità. 

Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane (o “dimora”) in me e io in lui” e qui Giovanni usa per la prima volta questo verbo che ritornerà per ben 40 volte nel suo Evangelo. Dio non “assorbe” l’uomo, ma chiede di essere da lui accolto per fondersi con lui e dilatarne la capacità d’amore. Questo fa sì che l’uomo rimanga in lui e Dio nell’uomo come i tralci alla vite nei quali scorre un’unica linfa, un unico sangue che è lo Spirito. In altre parole non è chiesta alcuna ascesi, ma una grande capacità mistica: alla vita ricevuta ci viene proposto di far corrispondere una vita donata. 

È la dinamica delle nostre Eucaristie che non sono e non devono essere fonte di “adorazione”, ma presa di coscienza che è la Comunità, e noi in essa, ad essere resi quel corpo di Cristo capace di rinnovare la vita di chi incontriamo tutti i giorni, rendendola così “eterna”.

Gesù conclude riprendendo l’immagine della manna “che mangiarono i vostri padri e morirono” mentre “chi mastica il pane disceso dal cielo ha vita eterna”. Due rapide sottolineature: Gesù prende le distanze dai presenti dicendo “vostri padri” pur essendo anche lui un ebreo discendente da quei padri e il testo greco non dice come superficialmente leggiamo “avrà (al futuro) la vita eterna”, bensì “ha (al presentevita eterna” e senza l’articolo determinativo. Ci è data la possibilità di averla già oggi. Questo è il grande dono dell’Eucaristia.

(BiGio)

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