L’arrivo dei talebani e la resa del villaggio: dal diario di Gholam Najafi

Gholam Najafi è nato il 27 agosto del 1990 a Ghazni, in Afghanistan. Dal 2006 risiede in Italia, a Murano, con la sua famiglia adottiva.

Domenica 12 settembre sarà alla Cita per una testimonianza durante l'Eucaristia delle ore 10.30


Suo padre, pastore, è stato ammazzato dalle milizie talebane perchè si rifiutava di unirsi a loro nel 2000. Aveva 10 anni, Gholam, quando con il fratello più piccolo di 2 anni è fuggito dal villaggio il 15 luglio del 2000. A giugno di quest’anno è tornato per cercare di recuperare documenti che provino la sua nazionalità afghana. Ha assistito all’avanzare dei talebani nelle città e all’arrivo nel suo villaggio Khoshal shirdagh già a giugno scorso. Le Edizioni La Meridiana, che hanno pubblicato la testimonianza che segue, gli hanno chiesto di scrivere quello che ha visto accadere. E già allora, a giugno, si poteva prevedere ciò che ora tutti stiamo vedendo e non ancora capendo.

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Mi siedo e guardo il cielo, le nuvole che, quando verrà la pioggia, porteranno via la polvere e le macchie del sangue versato sulla mia via.

Inizio a parlare con la mia penna, quella che mi ha insegnato l’arte e che l’arte mi ha insegnato a usare.

Le giovani donne, ragazze che fino a ieri l’altro percorrevano la mia stessa strada andando all’università di Herat o di Kabul o ancora in altre città amate da me, oggi, 27 luglio 2021, vedono le vie bloccate dal feroce nemico, le ragazze sono chiuse in case a guardare il cielo da dietro le finestre delle loro stanze, già allontanate da scuola. Da quelle case sentono l’arrivo del nemico, si tappano le orecchie e in silenzio scrivono il loro diario e sa il cielo se un giorno si potranno leggere queste loro righe vissute nelle ore più crude.

Il 22 giugno 2021 partivo da Herat. Partivo alle 15:00; a mezzanotte appena passata abbiamo sentito i primi spari intorno alla nostra auto, ci siamo fermati e abbiamo spento i fari della macchina quando sono arrivati altri spari. Non potevamo andare oltre a quell’ora, anzi siamo ritornati indietro, passando le ore notturne presso un comando dei talebani. Eravamo a Gereshk, combattevano facendo i turni fra loro. Ho chiesto a uno di loro perché combattevano di notte. “Perché è  fresco,” ha risposto. Mi ha spiegato che avevano poi delle tecnologie che funzionavano di notte, riducevano una intera città in piccolo schermo e così vedevano ogni movimento. “Combattevano,” ha aggiunto, “contro le forze dello stato centrale.”



 

La notte del 23 luglio, dopo 20 anni dalla mia fuga, imparavo qualcosa di nuovo

L’alba si è fatta vicina, i combattenti si sono fermati, si è aperta la strada e ci siamo avvicinati al grande fiume di Hilmand, ormai con poca acqua, con un ponte rovinato. Guardavo dal finestrino, sangue versato nella notte, carri armati a pezzi abbandonati sul nostro percorso, i negozi con le porte sfondate e i muri feriti dagli spari… Avanziamo ancora. Più avanti si godeva solamente il regno del silenzio dei commercianti e delle prime vittorie dei talebani che facevano sventolare la loro bandiera bianca.


Chilometri e chilometri di strade ferite.

Quel giorno passammo Kandahar e entrammo a Ghazni, la strada era controllata da tre poteri: dallo stato centrale, dai talebani a cui si aggiungeva una terza bandiera nera nera di Daesh.

Con me avevo un quaderno lasciato tutto in bianco, perché se scrivevo in persiano capivano il mio pensiero e se scrivevo in italiano dubitavano del mio lavoro letterario. E allora evitavo di scrivere ma riflettevo, minuto per minuto, fuori dai sentieri e dentro la macchina sulle angosce dei bambini e delle donne.

Di solito si impiegano 48 ore per andare da Eirath a Ghazni, adesso invece che le macchine vengono fermate di continuo a ogni posto di blocco e le strade sono rovinose, ci si mette molto di più.

La seconda notte dovevamo affrontare il grande deserto di Qarbagh ma il pericolo ci ha respinto indietro. La notte l’abbiamo passata a Ghazni e abbiamo affrontato il giorno dopo quel deserto circondato dalla catena non interrotta dei monti.

Non avevo sentito parlare chiaramente dell’arrivo imminente dei talebani fino a quando non sono arrivati nel mio villaggio natale, quel villaggio di cui ho parlato in ogni mio libro ma in modo sempre più sistematico ne Il mio Afghanistan (edizioni la meridiana, 2016). Allora ero un bambino. Un pastore. Non sapevo leggere e scrivere. Non capivo.


Ora assisto di nuovo al loro arrivo nelle città e nei villaggi, in questa estate del 2021. E capisco. E so scrivere quello che vedo.

Se la prima mattina ci siamo diretti da Gereshk verso Ghazni, la seconda mattina lasciavamo il centro di Ghazni dove il sole splendeva ancora sulla popolazione su cui però incombeva una minaccia.

Quella strada pericolosa che il giorno prima non avevamo preso, siamo stati costretti a prenderla la mattina successiva. Superata la collina di Lomo, il cuore mi diceva che sarei entrato presto nella terra in cui fu sepolto mio padre più di vent’anni fa.


Questa terra nuovamente mi accoglieva con le lacrime e non ero preparato a sopportare il suo dolore.

Arrivato alle tre del pomeriggio, sono andato subito dal sindaco del villaggio per chiedere un aggiornamento della situazione, e immediatamente mi ha mostrato la lettera appena ricevuta dai talebani: “Vi arrendete o combattete?”.



 

Combattere voleva dire dover armare la gente, ma bisognava averle, le armi

Dallo Stato centrale non arrivava praticamente nulla.


Arrendersi voleva dire lasciarli entrare dalla porta principale affinché potessero impossessarsi di tutti i beni del villaggio. Non sono bastati quattro giorni per organizzare una difesa, e alla fine inevitabilmente l’esito è stata la resa. Non una scelta facile sicuramente quella del Sindaco, fatta più che altro per evitare delle conseguenze ben peggiori all’indomani della sconfitta. Arrendersi per non costringere la popolazione ad abbandonare il villaggio verso mete incerte, evitare la distruzione di quelle case già fragili, non abbandonare i campi di grano ormai maturi.

Il 28 giugno alle cinque del pomeriggio i talebani sono entrati rapidamente con i loro carri armati, un’entrata resa più facile dalle larghe strade fatte costruire appositamente dai talebani venti anni prima, costringendo al lavoro la popolazione di quegli stessi villaggi. L’arrivo di tutti quei mezzi ha fatto temere il peggio al Sindaco, che ha subito deciso di far evacuare i suoi figli e i figli degli altri al riparo nelle grotte.


I talebani hanno costretto il Sindaco a presentarsi quello stesso giorno alle otto di sera con la scusa di dover riorganizzare il villaggio, incominciando dalle scuole dove bisognava separare i maschi dalle femmine. Il sindaco, nonostante avesse capito la farsa di quella richiesta, si è presentato lo stesso non avendo altra scelta. Dopo una lunga tortura, verso le ore dieci di quella stessa sera gli hanno sparato un colpo alla guancia destra e trenta sul cuore. Aveva solo 42 anni. Conoscitore dell’arte, aveva passato la sua vita a studiare e a migliorare la sua generazione e quella dei suoi figli. Era una minaccia per il nemico. Accanto a lui quella notte sono morte altre otto persone, e un ragazzo che per il rumore degli spari e delle bombe è morto di crepacuore.



Solamente dopo l’uccisione del Sindaco, il resto della popolazione ha abbandonato le loro case, avendo capito che il nemico non avrebbe mantenuto nessuna delle promesse. Le donne con i bambini nella loro culla hanno scelto di restare a casa, piangendo in silenzio e cercando di trovare la forza di superare quella notte. In quella sera dove il sole stava ancora per tramontare, il pastore abbandonava il villaggio e le sue pecore al loro destino. Ognuno quella sera andava dove voleva e fortunatamente gli animali selvatici, come il lupo e lo sciacallo, non potevano scendere giù dai monti, impauriti anch’essi dai bombardamenti.

La mattina dopo, il corpo del Sindaco giaceva a terra, abbandonato non solo dall’anima ma dalle altre persone che non potevano avvicinarsi. Dopo varie richieste e suppliche, i cari hanno ottenuto il permesso di seppellirlo, addolorati per la perdita così improvvisa.

Il giorno dopo ho lasciato il villaggio verso Herat considerata più sicura. Per me era più semplice andare via, mentre chi rimaneva rinchiuso in casa, stava persino attento, mentre si cucinava, a non far uscire il fumo del focolare al di fuori, per non dare troppo nell’occhio. Nella mia testa ripensavo ai primi versi di Se questo è un uomo di Primo Levi e mi sentivo traditore perché io stavo partendo e stavo lasciando loro, il mio popolo, nella violenza. Scrivevo il mio diario non nelle pagine ma nel cuore.



A che serve che io sia salvo quando centinaia di persone sono nella sofferenza? A cosa serve che io sia al riparo quando centinaia di persone non trovano un rifugio? Partivo, e dicevo al mio cuore: oh! Cari, presto sarete al sicuro, ritornerete a casa, e io certo ripenserò al vostro dolore. Mentre stavo partendo con il corpo stanchissimo, avevo le ossa, la pelle, un’anima che più o meno mi guidava, mi sentivo egoista perché si allontanavo mettendomi al riparo.


Il riparo del mio popolo era ed è il mio cuore. La mia penna. Resistete nel dolore perché il domani non sia peggiore.


Gholam Najafi, 17 agosto 2021


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Gholam Najafi è nato in Afghanistan. Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia e infine l’Europa. Dal 2006 risiede in Italia, a Venezia, con la sua famiglia adottiva. Si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. 

Attualmente collabora con il progetto “HERA” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.

 Con el edizioni la meridiana ha pubblicato: Il mio Afghanistan  (2016), Il tappeto afghano ( 2019), Tra due famiglie (2021)

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