Un discorso duro che chiede di ascoltare, vedere, conoscere, vivere, credere per poter passare da una fede intellettuale ad una relazione esistenziale come quella che unisce il buon pastore alle sue pecore.
Si conclude oggi la proclamazione del 6 capitolo dell’Evangelo di Giovanni che prende origine dalla benedizione e distribuzione (Giovanni non parla di “moltiplicazione”) dei pani e dei pesci da parte di Gesù e che ci ha accompagnato in queste domeniche, approfondendo il cammino che Marco ci stava proponendo sul volto che la comunità cristiana è chiamata ad assumere, perché possa essere quella Chiesa che il suo Signore la chiama da essere in questo mondo.
Giovanni non ci ha solo raccontato un miracolo, ma ci ha voluto narrare il modo che ha Dio di essere presente in mezzo a noi nella persona di Gesù, un Dio noto eppure sempre ulteriore, presente in mezzo a noi come pane, come nutrimento che viene da Dio.
Ci ha accompagnato a comprendere come la Chiesa sia chiamata ad essere la Comunità dei discepoli del Signore capace di “nutrirsi” e, quindi, di dimorare in lui, partecipando della sua vita e del suo agire per sempre fino alla fine, fino anche al dono della propria vita.
Oggi i suoi discepoli, non più i giudei, reagiscono dicendo: “Questo discorso è duro, chi può (ascoltarlo) intenderlo?” nel senso di accettarlo, viverlo. Chi può ascoltare e mettere in pratica questo discorso così duro non solo perché difficile da capire, ma anche da accettare che ci parla non solo di Gesù Cristo ma anche di ciò che noi dobbiamo essere? Non c’è soltanto un contenuto da capire, ma c’è una realtà da vivere. Ci viene annunciata una sua presenza inedita, che ci invita ad essere capaci di morire nella maniera nella quale lui è morto per noi. Per questo i discepoli dicono che questo linguaggio è duro ed è difficile, non tanto da ascoltare da capire, ma soprattutto da vivere. Forse anche per noi.
Gesù comprende che forse anche noi, come loro, stiamo mormorando, come fecero i nostri padri nella fede nel deserto contro Mosè e contro Dio. Siamo scandalizzati, cioè stiamo inciampando, urtiamo contro una pietra d’inciampo.
“E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” chiede Gesù provocando, per voi sarebbe peggio o capireste? Lui è la Parola/Pane di vita che il Padre ha donato facendolo discendere dal cielo e, quando la sua missione sarà completata, avverrà quanto ha annunciato attraverso Isaia: “La mia parola non ritorna a me senza aver eseguito ciò che desidero e fatto riuscire ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11). Questo intende dire Gesù.
Ma il “vedere” presuppone un atto di fede, nel credere che Gesù è il Figlio del Padre. Chi non crede lo vedrà semplicemente scomparire rafforzando lo “scandalo” delle sue parole quando ha annunciato che con la sua morte vivificherà il mondo.
Gesù non attende risposta ma prosegue incalzando: “È lo Spirito che fa vivere, la carne non serve a nulla. Le parole che vi ho detto sono Spirito e vita”.
La nostra condizione umana (la carne) vale nulla, non aiuta a comprendere se non è guidata, vivificata, dallo Spirito di Dio; come pure le sue parole possono essere comprese solo se lette, comprese e vissute attraverso e con lo Spirito: solo così sono Spirito di Vita.
Gesù ci svela la sua realtà ma non la impone come una evidenza inevitabile; ce la propone invece alla nostra liberà e accetta la possibilità di un nostro rifiuto. Si fa da parte rispetto all’iniziativa del Padre e l’accoglie affermando che “Ci sono alcuni tra voi che non credono”.
Alla fine deve constatare di trovarsi di fronte all’abbandono di molti suoi discepoli che si tirano indietro di fronte alla proposta di un “discorso duro” che chiede di stare nella storia nel medesimo modo nel quale ci è stato lui, fino a donare la propria vita per amore e chiede attraverso ai Dodici anche a noi: “Volete andarvene anche voi?”. La risposta di Pietro è quella della Chiesa: “Signore da chi possiamo andare, tu solo hai queste parole che ci conducono alla vita eterna perché noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.
Per la prima volta in questo capitolo Gesù riceve una risposta diretta “tu hai … tu sei…”. Ci viene così detto che cosa sia la vera fede: non una conoscenza astratta, teorica; ma una relazione esistenziale come quella che unisce il buon pastore alle sue pecore.
Siamo chiamati cioè a percorrere le strade degli uomini mostrando che è possibile anche oggi ascoltare, è possibile anche oggi capire, credere ma anche soprattutto vivere questo discorso duro perché gli uomini siano più umani e riescano ad aprirsi all’ascolto della buona notizia che queste domeniche ci hanno proposto. Saranno così capaci di cogliere e conoscere la presenza di un Dio in mezzo a loro, sapendo che la loro vita, se vissuta fino in fondo in fedeltà ai percorsi faticosi ma anche gioiosi della storia, è capace di renderlo più presente nella realtà che siamo chiamati a vivere, celebrando in questo modo, giorno per giorno, il mistero che Giovanni in queste domeniche ci ha annunciato.
(BiGio)
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