Quando Maria incontra Elisabetta, pronuncia le parole del Magnificat che distolgono l’attenzione da lei e la fanno volgere totalmente al Signore. Non lei ha fatto nulla, ma il Signore ha fatto tutto: questo, il significato basilare del Magnificat. Questo inno, infatti, celebra il Dio che in Maria ha fatto tutto. La vicenda di Maria ha Dio come soggetto. E Maria canta il Dio Salvatore (cf. Lc 1,47), sia come “suo” personale salvatore, sia come salvatore del suo popolo. È il Dio che salva le storie umane e personali e il Dio della storia di salvezza. La preghiera di Maria tiene insieme quelle due dimensioni, comunitaria e personale, che spesso noi separiamo: il piano storico, sociale, politico, comunitario della lode di Maria è naturalmente connesso al piano personale e interiore.
L’azione di Dio nei suoi confronti è espressa da Maria come sguardo: “Il Signore ha guardato la piccolezza, l’umile condizione della sua serva” (Lc 1,48). Sguardo che, secondo la Scrittura è all’inizio di ogni vocazione e di ogni amore (di fronte all’uomo ricco, Gesù “lo guardò e lo amò”: Mc 10,21), ma che richiede un’adesione, un sì (se in Maria quello sguardo è inizio di una storia, nel caso dell’uomo ricco ne è già anche la fine). Maria si sa vista nella sua piccolezza, nella sua povertà, non certo nei suoi titoli di merito o di eventuale grandezza. Chi si sa visto nella propria piccolezza, quale che sia il nome preciso che questa ha, deve forzatamente anch’egli vederla e assumerla. Lo sguardo d’amore dell’altro mi consente di accogliere in me la mia piccolezza non come ostacolo ma come occasione di grazia, come ricchezza. Vedere la propria miseria è il passaggio necessario per vedere e confessare Dio e la sua azione. Il peccato non è la piccolezza o la debolezza o l’impotenza, ma il misconoscimento della debolezza, della piccolezza e della miseria umana.
Tutto il Magnificat sgorga da questa inebriante “scoperta” di Maria: lo sguardo di Dio su di lei. È come se Maria dicesse, preda dello stupore: il Signore mi ha guardata, mi ha vista. Dio non è solo colui che parla e chiede ascolto, ma anche colui che vede e chiede all’uomo la capacità di lasciarsi vedere. La fede è anche coscienza di essere visto, certo, non dello sguardo malevolo e spione, non dello sguardo indagatore e intrusivo, non dello sguardo possessivo e abusante, ma dello sguardo mite e benevolo che dice di sì a colui che vede. Uno sguardo che è un’offerta e un appello. Uno sguardo che è grazia. Lo sguardo del Signore, ci dice la Scrittura, è sguardo non di giudizio che suscita paura, ma di accoglienza che suscita fiducia, ma soprattutto è sguardo che chiede all’uomo di vedere se stesso in verità, di fare la verità in se stesso, di vedere ciò in sé va mantenuto e ciò che va cambiato, ciò che va coltivato e ciò che va estirpato, ciò che va giudicato e ciò che va confermato. Lo sguardo di Dio è il sì incondizionato posto da Dio su di noi. È la contemporaneità del suo amore alla nostra diffidenza, amore che vuole far breccia nella nostra diffidenza, nella nostra incredulità radicale: non credere di essere amati, credere impossibile di essere destinatari di uno sguardo di gratuità e di amore, di accoglienza incondizionata. La non-fede, forse, in radice, altro non è che non potere o non riuscire o non volere o aver paura di credere a uno sguardo di amore che ci autorizza ad accoglierci così come siamo.
Colei che si sa vista nella sua piccolezza scopre che quella piccolezza è in realtà piena di senso perché le porta l’unica ricchezza degna di questo nome: essere guardati, visti, scelti, chiamati, amati, senza averne titoli di merito: così è per Israele, così è per Maria, così è per ognuno di noi. La storia che Maria riassume nel Magnificat è la storia dello sguardo di Dio sul suo popolo, sguardo di misericordia che fa emergere e innalza gli umili e sazia gli affamati, sguardo che sintetizza tutte le sue parole rivolte ad Abramo e ai padri d’Israele. La fede, come risposta alla parola di Dio, richiede l’ascolto, e come risposta allo sguardo di Dio, domanda l’ascesi del vedersi e accogliersi nella propria piccolezza, del sopportare e amare la propria nudità, la propria fragilità. A differenza di Adamo che volle nascondere la propria nudità agli occhi del Signore. Lo sguardo del Signore, che è appello alla verità, a fare la verità in noi stessi, diviene così anche la trama della nostra vita spirituale: è sguardo che diviene vocazione come per Giacomo e Giovanni, Pietro e Andrea, è sguardo che diviene rimprovero per chi è duro di cuore come per i farisei di fronte al sofferente, è sguardo che suscita pentimento in chi, come Pietro, ha rinnegato, è sguardo che diviene compassione come di fronte alla folle stanche e affaticate, è sguardo che si fa incoraggiamento per chi con fede muta gli si avvicina intercedendo per il paralizzato, è sguardo che, di fronte alla morte, ancora dona vita e suscita comunione come per Maria e il discepolo amato sotto la croce, è sguardo che diviene promessa e apertura di futuro, anche dopo la morte: “Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà” (Gv 16,22). Gioirà il vostro cuore come nel Magnificat gioisce il cuore di Maria, esulta profeticamente il suo spirito, per aver accolto e creduto allo sguardo di Dio. Sguardo che trasfigura e trasforma il suo corpo di vergine in corpo di madre del Messia, sguardo che ha in sé la potenza della resurrezione, la forza di far passare dalla morte alla vita. Sguardo capace di generare alla vita. Sguardo che ci chiede di aprire gli occhi, di svegliare gli occhi del cuore per vedere le meraviglie di Dio nella nostra quotidiana vita. Infatti, la luce di Dio risplende nella notte e chi può vederla, se non un cuore che veglia?
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