Un sordomuto: se non si sa ascoltare, non si annuncia correttamente....

Un “sordomuto”, o meglio, un uomo “sordo” e “balbuziente”, “che parla con difficoltà”. Troviamo qui lo stesso verbo che nel greco dei Settanta (che traduce un termine ebraico che indica i muti) designa i balbuzienti in Is 35,6: “la lingua dei balbuzienti griderà di gioia”. In effetti, a guarigione avvenuta, si dirà di quest’uomo non tanto che aveva ritrovato la parola, ma che “parlava correttamente” (Mc 7,35). 


Incapace di ascoltare, egli non sa neppure esprimersi correttamente e perde la capacità comunicativa trovandosi in un isolamento doloroso.
È 
l’incapacità di comunicare che affligge quest’uomo privandolo della sua soggettività: egli è totalmente passivo. 

Condotto da altri a Gesù, è oggetto di gesti e parole da parte di Gesù finché viene liberato dai vincoli che lo imprigionavano impedendogli di comunicare. Ed è significativo che, per guarire dalla sua incapacità comunicativa e ritrovare la sua soggettività, egli debba essere separato dalla folla e portato in disparte: lì può essere restituito a se stesso e diventare soggetto della sua parola. Lì avviene l’incontro personale con Cristo. 

La narrazione di Marco costruisce un interessante parallelo tra la guarigione in terra pagana di quest’uomo sordo e quella successiva, che avviene in terra d’Israele, a Betsaida, di un uomo cieco (Mc 8,22-26). Connessa a quest’ultima guarigione, che presenta elementi letterari e tematici molto simili al testo che stiamo considerando, la nostra narrazione svela una dimensione simbolica. Le due pericopi inquadrano episodi in cui Gesù si confronta con l’incomprensione e con l’inintelligenza dei suoi discepoli (cf. Mc 8,4.14-21) che “hanno orecchi e non ascoltano, hanno occhi e non vedono” (cf. Mc 8,18), con l’ostilità dei farisei (cf. Mc 8,11-13), mentre moltiplica contatti salvifici con pagani (cf. Mc 8,1-9; anche il nostro episodio si svolge in terra pagana). 

Insomma, la sordità che impedisce di parlare correttamente riguarda i discepoli e significa un non-ascolto della Parola che conduce a non annunciarla correttamente o a non confessare adeguatamente la fede (come Pietro in Mc 8,27-33). Solo un ascolto della Parola assiduo e profondo genera un annuncio autentico e efficace. Possiamo riferire tutto questo alla vita della chiesa affermando che solo una ecclesia audiens può essere anche ecclesia docens. O, come scrisse il teologo Joseph Ratzinger commentando il proemio della Dei Verbum (“In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia”): “è come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola”. 

Fuori di questo ascolto, di questa apertura vivificante e sanante alla Parola, l’annuncio della chiesa si riduce a balbettio o addirittura a sproposito. In questo senso, il gesto terapeutico di Gesù di mettere le dita negli orecchi dell’uomo acquista una valenza spirituale nella linea delle espressioni bibliche che parlano di circoncidere gli orecchi (cf. Ger 6,10), forare gli orecchi (cf. Sal 40,7), ovvero aprire il canale attraverso cui la rivelazione raggiunge il cuore dell’uomo e gli consente di lodare Dio e di annunciare le sue azioni (cf. il rapporto tra “risveglio” degli orecchi e lingua ben istruita in Is 50,4).

(Luciano Manicardi)

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