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L’invidia nasce sempre da un’impotenza


(Cappella degli Scrovegni, PadovaL'invidia - Giotto)

Il brano evangelico di questa domenica si apre in modo improvviso presentando in primo piano sulla scena Giovanni che si rivolge a Gesù parlando alla prima persona plurale, dunque a nome del gruppo dei discepoli. Gesù ha appena tenuto il discorso sul farsi ultimo di tutti e servo di tutti da parte di chi volesse essere il primo nella comunità, ha appena parlato di accoglienza (Mc 9,35-37), e Giovanni, dando prova di quella che un esegeta ha chiamato “una sordità assordante”, esibisce come un vanto davanti a Gesù l’impresa di aver tentato con insistenza e ripetutamente di impedire a uno sconosciuto di cacciare dei demoni perché lo faceva nel nome di Gesù, ma non facendo parte del gruppo dei Dodici (Mc 9,38). I discepoli hanno appena ascoltato parole sull’accogliere e compiono gesti di esclusione e rifiuto. Giustificati, nelle parole di Giovanni, dal fatto che quest’uomo usurperebbe il nome di Gesù. 

Ma dalle parole di Giovanni emerge anche un’altra motivazione. Giovanni dice che quest’uomo “non ci seguiva” (Mc 9,38). Dove la sequela è intesa non solo in rapporto a Gesù, ma ai discepoli stessi. I quali mostrano così la pretesa di impadronirsi della comunità, di farla loro, di rendersene signori, di renderla una loro personale impresa. Rischio sempre presente nelle vite comunitarie da parte di chi sente di poter avanzare titoli di qualche tipo. 

Ma io penso che dietro alle parole di Giovanni ci sia anche un’altra motivazione. Non detta, anzi, indicibile, nascosta. I discepoli si sono appena rivelati incapaci di scacciare un demonio da un ragazzo posseduto da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29; soprattutto la dichiarazione di impotenza del v. 28: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”). E questo è avvenuto a loro che seguono Gesù e costituiscono la sua comunità. 

Ebbene, costoro adesso vedono che uno sconosciuto riesce là dove loro hanno fallito. Emerge la dinamica invidiosa, anch’essa una piaga tipica delle vite comunitarie e in genere delle vite associate. L’invidia è una passione sociale perché abbisogna sempre di altri o almeno di un altro. L’invidia si chiede: perché lui sì e io no? 

E vedendo l’impossibilità per sé di essere o di fare come l’altro, ecco che essa cerca di proibire all’altro di essere ciò che è o di fare ciò che fa. Se noi non siamo stati capaci di scacciare un demonio e costui, che nessuno sa chi sia, ci riesce, noi possiamo abbassare lui al nostro livello, possiamo impedirlo, possiamo dirgli che non può fare ciò che fa. 

L’invidia nasce sempre da un’impotenza. L’invidioso dice: restando me stesso, io voglio ciò che tu hai e che tu sei, e che hai e sei in virtù del fatto che tu sei tu e non me. Così, l’impotenza da cui scaturisce l’invidia diventa l’impossibile del suo scopo. All’origine dell’invidia vi è l’impotenza, come fine vi è un impossibile; il percorso non può che essere una sofferenza indicibile. L’invidioso, in verità, non accetta di essere ciò che è, rifiutando di accogliere i propri limiti. 

L’invidia vede nella riuscita dell’altro una diminuzione di sé; ciò che l’altro ha o è viene sentito come sottrazione a sé e come impossibilità di raggiungere lo stato in cui l’altro è installato. L’invidia poi si nutre anche di attrazione quasi irresistibile nei confronti dell’oggetto invidiato e verso cui si prova anche avversione e odio. Sì, in Giovanni sembrano emergere elementi significativi di un vissuto interiore di frustrazione e di invidia.

(Luciano  Manicardi)




L'intera riflessione di Luciano Manicardi a questo link: 

https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/14717-nel-modo-che-dio-conosce

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