Federica Tourn aveva visitato anche la Parrocchia della Risurrezione una domenica di inizio giugno. In agosto è stato pubblicato il suo reportage su Jesus.
Di seguito il brano dedicato alla Parrocchia e, in calce, le immagini dell'intero articolo.
Fra tanti luoghi di culto, nel centro storico di Venezia manca però la moschea: sarà per il secolare timore degli ottomani che percorre ancora gli antichi palazzi della Serenissima, o piuttosto per una sempre attuale diffidenza verso il diverso e in particolare per la legge regionale “anti moschee” approvata nel 2016, che impedisce la costruzione di edifici destinati ad attività di carattere religioso in zone centrali e senza un’apposita convenzione con il Comune. Non basta comunque una norma discriminatoria a cancellare la realtà di un’immigrazione che da anni ormai costituisce l’ossatura, non soltanto dei servizi ricettivi, ma anche della cantieristica navale di Porto Marghera. Nel veneziano infatti oggi si contano 25 mila musulmani, originari di 33 Paesi diversi, che si organizzano per la preghiera e il culto, con o senza l’aiuto delle istituzioni: il Centro culturale islamico di Marghera, fondato nel 2008, è frequentato da 600 fedeli ogni venerdì e altri cinque centri sono atti- vi sul territorio. «Il mondo è cambiato e dobbiamo tutti prenderne atto», conferma l’imam di Marghera Hamad Mahamed. «Aumentano i matrimoni interreligiosi e le nuove generazioni si sentono italiane: oggi non è più il tempo delle divisioni ma dell’integrazione di tutte le fedi». Un dialogo che l’imam porta avanti da anni con don Nandino Capovilla, parroco alla Cita, storico quartiere popolare alla periferia di Mestre. Una storia di fratellanza che, sullo slancio del documento di Abu Dhabi, si è rinsaldata nella Fraternità cristiano-islamica di Venezia e che è pane quotidiano nella predicazione di don Nandino, ex coordinatore nazionale di Pax Christi. La canonica della parrocchia della Risurrezione, stretta fra la ferrovia e i palazzoni, è un porto sicuro dove migranti e senzatetto sono accolti e possono rendersi utili grazie alle tante iniziative messe in campo dal sacerdote e dai volontari che collaborano con lui: le cene del “Roof garden”, che dal 2016 hanno messo in cucina più di 80 ragazzi, le colazioni della domenica, il barbiere per tutti, l’orto e le arnie solidali e soprattutto il progetto “Jumping”, 13 appartamenti destinati a 56 persone che cercano di integrarsi dopo il percorso migratorio. Sono i frutti della Casa di Amadou, dal nome degli appuntamenti del giovedì in canonica, quando fedeli e migranti prima del Covid avevano l’abitudine di incontrarsi per un aiuto, due chiacchiere, una cena insieme.
«Viviamo una bella esperienza di fede», testimonia don Nandino. «Il respiro evangelico lo sentiamo nell’aprire le porte a chiunque abbia bisogno, che siano poveri, musulmani o migranti». La sua casa è lo specchio della sua predicazione, fra installazioni che ricordano i morti nel Mediterraneo, un ritratto dell’imam nella “moschea” della Cita, i disegni dei bambini e una cartolina con papa Francesco che si accompagna a una di Che Guevara, Tu ejemplo vive, tuas ideas perduran. Sacerdote che sa attraversare i confini con delicatezza e determinazione, don Nandino una volta al mese predica su un tema sociale nella cappella dell’Hospidalito, dedicata a Oscar Romero, e sono in tanti a venire ad ascoltarlo mentre parla di nucleare, di Pfas che inquinano l’acqua, di profughi. «Qui sperimentiamo una pastorale diversa», spiega con un sorriso. E poi conclude: «Mi piace pensare che siamo una Chiesa in uscita, e non per le processioni, ma per vivere in mezzo alla gente».
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