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Domenica XXV PA – Mc 9,30-37

Chiamati non a predicare l'accoglienza, ma ad essere accoglienti. Il servizio è la via per valorizzare le nostre capacità senza rassegnarci nelle e delle difficoltà (le nostre croci) ma assumendole per aprirle ad un futuro rinnovato


Seguendo l'Evangelo di Marco siamo arrivati a comprendere che i discepoli del Signore sono coloro che, di fronte a Gesù, si interrogano colpiti dall’autorevolezza delle sue parole e dei suoi gesti e possono decidere di continuare a seguirlo interrogandosi, oppure di chiudersi nell’incomprensione e nella durezza di cuore.


Domenica scorsa però abbiamo incontrato una novità: è Gesù che interroga loro ponendo la domanda fondamentale: “Chi dite che io sia”.

Di fronte a questo interrogativo c’è la possibilità anche di dare soltanto notizie di cronaca su Gesù se non si ha compreso la necessità della sua croce che sfocerà nell’inedito della sua risurrezione. Per questo lui impone piuttosto di tacere imparando andandogli dietro per non essere come Pietro: Satana, scandalo per lui, subendo la tentazione ultima che anche Gesù ha subito, quella di rinunciare di rimanere fedele al Padre fin sulla croce e nella risurrezione.

Gesù sta andando con decisione verso Gerusalemme attraversando la Galilea, ma non vuole essere trattenuto in questa regione; per questo che non vuole che nessuno lo sappia. Per strada però riprende il discorso con i discepoli sulla sua morte e la sua risurrezione.

Dobbiamo essere consapevoli che non si può incontrare Cristo senza la sua croce, altrimenti facciamo solo della pura cronaca che riguarda Gesù, senza incontrare il mistero di Dio che sta con noi fino a morire. 

Ma nemmeno si incontra mai la croce senza Cristo, altrimenti facciamo del dolorismo, saremmo invitati a non portare, bensì a sopportare con rassegnazione le croci. Gesù, invece, è venuto per dirci che in quelle croci ci è vicino, le condivide affinché tutte si aprino alla speranza e all’inedito della risurrezione. È per questo che Gesù, ci dice l’Evangelo di oggi, istruiva tutti i suoi discepoli che sono definiti dal lasciarsi da lui interrogare e condurre, senza distrazioni, portando ogni difficoltà, scegliendo di essere e rimanere fedeli al Padre fino alla fine. Questo non significa accettare passivamente le difficoltà, ma il farsi carico delle proprie e di quelli che incontriamo, per trasformarle e per cambiarle in occasioni di rinnovata vita.

Dio non vuole la sofferenza degli uomini, vuole la loro salvezza e la loro liberazione. Tanto è vero che Gesù dice “Sta per essere consegnato il figlio dell’uomo nelle mani degli uomini”, a dire che la croce è la conseguenza del fatto che Gesù si è consegnato a questo mondo, che oramai abita in mezzo a noi, come ciascuno di noi, talmente qualsiasi da essere non riconoscibile nella croce.

Ma essi non comprendevano queste parole” ed è significativo che l’incomprensione del progetto di Dio porti i discepoli ad avere timore di chiedergli spiegazioni.

Chi rifiuta la logica dell’incarnazione, rifiuta la croce del Signore, ha paura di interrogarsi e di lasciarsi interrogare da lui e, anche se lo sta seguendo lungo la via, rischia di parlare d’altro.

Anche la comunità cristiana, noi, spesso rischiamo di essere lungo la strada, ma distratti da altre cose si parla d’altro e, quando Gesù ci chiede: “di che cosa stavate parlando”, tacciamo.

Non si ha il coraggio di confrontarsi con lui su quelli che pensiamo possano essere i nostri percorsi, anche quelli “pastorali” come loro che “lungo la via stavano discorrendo su chi fosse il più grande”. 

È facile cadere nel pericolo di giudicare quel loro discorrere come sbagliato, che non ci si deve chiedere chi sia il più grande mentre seguiamo Gesù e si finisce per fare un discorso sull’umiltà, quasi che Gesù chieda di rinunciare a valorizzare e a vivere la propria vita. Tutt’altro, lui anzi ci chiede di sviluppare al massimo i nostri talenti rimanendovi fedeli.

Infatti, ai discepoli non dice che non devono pensare di provare ad essere i più grandi. Gli indica però quale sia la strada per raggiungere questo obiettivo ed è quella che lui sta seguendo: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti ed il servo di tutti”. 

Questo è il senso profondo della croce di Gesù, non il dolore che gli ha portato la morte. È la fedeltà più estrema alla quale noi diamo il nome di incarnazione. San Paolo ci dice che: “Gesù pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma si spogliò fino alla croce e per questo Dio gli dà il nome più grande di ogni altro nome”. 

Gesù è diventato il primo perché, ha scelto di portare l’amore del Padre tra gli ultimi, anche dove era escluso con certezza potesse essere: nei crocefissi perché considerati maledetti da Dio stesso (Dt 21,23). S. Paolo lo scrive con chiarezza: “Cristo ci ha riscattati diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: maledetto chi è appesa al legno” (Gal 3,13). È questo che ce lo fa riconoscere come il Signore. 

Gesù mentre dice questo compie un gesto simbolico, prende un bambino lo mette al centro, lo abbraccia e dice che “chi accoglie uno dei bambini il mio nome accoglie me”, cioè chi accoglie uno che nella società non ha voce (e all’epoca nemmeno diritti), accoglie anche me e la mia buona notizia, l’Evangelo.

 

Noi, le nostre Comunità sono chiamate non a predicare l’accoglienza, ma ad essere accoglienti imparando dal Signore, continuando a domandargli e a lasciandosi interrogare da lui, senza paura di chiedere spiegazioni.

Altrimenti si fanno soltanto gesti di cui abbiamo perso il significato, si pronunciano parole vuote e si predica una croce senza Cristo o un Cristo senza la croce. Lo stiamo invece seguendo mentre si sta dirigendo verso Gerusalemme nell’ascolto e nella fedeltà al Padre che lo porterà sulla croce e quindi verso la risurrezione. 

Non siamo soltanto chiamati a rispondere alla domanda fondamentale che Gesù ci pone, ma anche ad essere disposti a seguirlo, imparando cosa significhi essere come il nostro Dio incarnati, fedeli ai cammini faticosi delle persone che incontriamo, credenti o meno. 

Disposti ad abbracciare la storia concreta di tutti i giorni, accogliendola come un bambino sapendo che, facendolo, accogliamo il nostro Dio fatto maledetto, non per benedire i maledetti ma per dare anche ai maledetti la possibilità di avere un Dio con loro.

(BiGio)

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