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I giovani e la fede: criteri da rimettere in discussione

Nel Foglio settimanale della Parrocchia della SS. Trinità di Mestre è stato pubblicato questo interessante intervento di Giuseppe Savagnone che si ripropone

Proprio la crisi della pratica religiosa tradizionale, quella che si svolge tra le mura delle chiese, rimette in discussione uno degli schemi diffusi, secondo cui si consideravano “veri cristiani” solo i cattolici “praticanti”, e “praticanti” solo quelli che vanno in chiesa la domenica. Qualche anno fa confinamento del Covid ci ha costretti a relativizzare, insieme al luogo fisico, le mura di divisione che separavano nettamente chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. Nello spazio della rete tutti sono in grado di collegarsi a tutti e di partecipare anche se non l’avevano mai fatto. I confini sono saltati. 

Ma non è questa anche una potente metafora di uno stile ecclesiale diverso, dove “cattolico” torni a significare un’apertura illimitata alla totalità dei valori umani, e quindi a tutti coloro che, anche per vie diverse da quelle dell’ortodossia ecclesiale, sono alla ricerca di un senso della vita?

Non per nulla sono i giovani i più capaci di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione. Lo spazio senza barriere della rete esprime bene la loro condizione, che non è quella di chi sta “dentro” la Chiesa, ma neppure quella di chi sta “fuori”. Più che di atei e di credenti bisognerebbe, perciò, parlare di giovani che abitano quella che un sociologo, Alessandro Castegnaro, ha definito una «terra di mezzo» tra credenza e incredulità e che, 

se non vanno in chiesa, non è perché abbiano definitivamente rifiutato la fede, ma perché non riescono più a riconoscersi nel modo tradizionale di proporla.

Certo, guardando questi giovani ci si potrebbe chiedere: «Che cosa cercano? Cercano Dio?». In realtà, come scrive Castegnaro, «cercano innanzi tutto se stessi, cercano di non perdersi, cercano di ritrovarsi (…). Ma cercare se stessi non ha proprio niente a che fare con la ricerca di Dio?».

Questi giovani hanno bisogno di una partecipazione senza appartenenze rigide, di una proposta fatta in un linguaggio nuovo, non “ecclesiastico” che, invece di riflettere certezze già precostituite, si sforzi di esprimere la complessità della vita e sia per questo comprensibile a tutti. 

Una nota teologa, Serena Noceti, segnalava a questo proposito l’attualità della tradizione sapienziale, che attraversa tutta la sacra Scrittura. Mentre la Torah, la Legge, enuncia le richieste di JHWH al suo popolo e i libri profetici fanno percepire l’irruzione bruciante 

della Trascendenza nella nostra storia, i libri sapienziali insegnano a leggere la presenza di Dio nelle vicende della vita e della morte. Sono i libri della riflessione sul quotidiano - Proverbi, Sapienza, Siracide -, ma anche i più drammatici della Bibbia - Qoèlet, Giobbe. 

Qui non si parte dalle certezze, ma dalle domande - non quelle del catechismo, confezionate in vista delle risposte -; non dalla fede, ma dal grido che, come scrive Recalcati, è «il luogo primario dell’umanizzazione della vita». «Ma cos’è un grido?  Nell’umano esprime l’esigenza della vita di entrare nell’ordine del senso, esprime la vita come appello rivolto all’Altro. Il grido cerca nella solitudine della notte una risposta nell’Altro. 

In questo senso, ancora prima di imparare a pregare e ancora di più nel tempo in cui pregare non è più come respirare, noi siamo una preghiera rivolta all’Altro». 

(Giuseppe Savagnone)

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