Persino dall’abisso della precarietà umana può nascere – se ne riconosciamo la legittimità – l’anelito che, attraverso le pieghe della storia, ci conduce al gusto di essa. Antonio Gramsci dal carcere così scriveva alla mamma: «Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. Finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie».
Se l’insicurezza umana è narrazione del significato – a volte ignoto – di ciò che siamo, i cammini tortuosi compiuti al di là delle apparenze e dei riconoscimenti conducono verso mete più alte. A volte occorre maggiore delicatezza verso questa precarietà che desidera essere riconosciuta come appello che sale a Dio dai bassifondi della nostra complessità perché essa diventa ‘gustosa’ nel momento in cui si scopre possibilità e non solo mera fatticità. Le domande partorite dalla precarietà umana esprimono il potenziale di un’inquietudine da non addomesticare poiché invitano ad uscire dall’individuale visione limitata delle cose. Soprattutto nei paesi occidentali questa precarietà assume i contorni di una povertà di tempo che, subdolamente, supera una semplice questione di orologio. La ‘mancanza’ di tempo provoca una corsa continua, evitando gesti “inutili”, verso il ripiegamento sul presente che ...
La riflessione di Roberto Oliva è a questo link:
https://www.settimananews.it/spiritualita/nel-futuro-delle-possibilita-infinite/
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