Non bisogna illudersi di trovare sempre le strade aperte

Ciascuno ha la “sua” croce significa non sottrarsi alle proprie responsabilità umane e cristiane, a costo di subire incomprensione, oltraggi, ingiustizia o violenza, in tutte quelle circostanze in cui sottrarsi ad esse magari vorrebbe dire esercitarle sugli altri. 

Delle parole che Gesù rivolge ai discepoli, subito dopo che Pietro gli ha manifestato la sua opposizione scandalizzata all’annuncio della sua passione e risurrezione (“Dio non voglia, Signore, questo non ti avverrà mai”), vorrei qui sottolineare un’unica espressione: “Prendere la propria croce” (v. 24). 

È un’espressione assai nota, e come sempre potremmo essere tentati di pensare di saper già cosa significa. Si tratta di intenderla con cautela, perché su di essa si sono fondati tanti eccessi, dall’antichità fino a tempi recenti. Non deve essere intesa come un’espressione di autolesionismo o di rassegnazione, come se il dolore e la sofferenza fossero cose da ricercare per sé stesse. La croce non è neppure qualunque cosa, e neppure ogni tipo di sofferenza, come troppo facilmente siamo portati a pensare e a dire. 

Evidentemente in quest’espressione evangelica c’è innanzitutto un riferimento alla croce come patibolo su cui Gesù stesso ha subito la morte infamante. Questo deve restare l’orizzonte fondamentale. Metterla davanti agli occhi del discepolo come prospettiva è un modo per dire che “il discepolo non è da più del suo maestro” (Mt 10,24). Fondamentalmente per il discepolo “prendere la croce” significa esser disposto a seguire il maestro dovunque vada (cf. Ap 14,4), partecipando alla sua vita, operando le sue scelte, e condividendo il suo destino: fino in fondo. Costi quel che costi.

Il cristiano, in quanto ha fatto propria la vita di Gesù, il Giusto, e il suo stile di amore radicale, ovvero lo stile di chi è disposto a lasciarsi crocifiggere più che crocifiggere, è chiamato a sopportare le conseguenze inevitabili delle sue opzioni fondamentali. Se è vero che c’è una necessitas crucis per Gesù (“il Figlio dell’uomo dovrà patire…”, dice più volte Gesù), questo vale anche per il discepolo, perché chi vive il vangelo, se lo vive veramente, non potrà non incontrare opposizione. 

L’opposizione (la croce) presto o tardi arriverà, perché la verità del vangelo in qualche modo la “suscita” e la esige inevitabilmente. Il vangelo, anche se è fondamentalmente fatto per l’uomo (ma per l’uomo quale Dio lo ha pensato!), non troverà mai un plauso trionfale in questo mondo, inutile illudersi, neppure nella chiesa. Anche la chiesa finché è in questo mondo è sempre corpus permixtum, come amavano dire i Padri, comunità in cui il grano è sempre frammisto alla zizzania e i santi si mescolano ai peccatori. Non bisogna farsi illusioni che in questo mondo il vangelo trovi sempre le strade aperte e le persone pronte ad accogliere chi lo vive e lo porta! “Guai a voi quanto tutti diranno bene di voi…” (cf. Lc 6,26). 

In questo senso, dunque, non è questione per i discepoli di Gesù o per i credenti di “inventarsi” una croce. Si tratta piuttosto di “prendere”, quindi di accogliere e di accettare, quella che ci è assegnata dalle circostanze. In questo senso ciascuno ha la “sua” croce. Per ciascuno questo significa non sottrarsi alle proprie responsabilità umane e cristiane, a costo di subire incomprensione, oltraggi, ingiustizia o violenza, in tutte quelle circostanze in cui sottrarsi ad esse magari vorrebbe dire esercitarle sugli altri. 

Come Gesù – non dimentichiamolo – non ha ricercato la croce per sé stessa, anzi fino all’ultimo ha chiesto al Padre che “il calice passasse lontano da lui” (cf. Mt 26,42), eppure l’ha accettato in obbedienza, quando ha compreso che rifiutarlo avrebbe significato rinnegare tutto ciò in cui aveva creduto, tutto ciò che aveva predicato e tutto ciò che egli stesso era, così è chiamato a fare il discepolo. Né più né meno. 

(un fr di Bose)

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