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Domenica e lunedì per gli ebrei è Yom Kippur: morte e resurrezione per celebrare la vita

Si è soliti tradurre il nome della solennità di Kippur come “giorno del perdono”. Bello, non sbagliato ma neppure del tutto esatto. Selichà è il termine più usato per indicare il perdono e lo sanno bene quanti, sin dall’inizio del mese di Elul che precede Tishrì e i mo’adim, recitano le selichot ossia gli inni e le preghiere che esprimono pentimento e volontà di tornare, di fare teshuvà, sulle vie del Signore. Kippur/kapparà in ebraico esprime piuttosto l’idea dell’espiazione o della compensazione per una trasgressione o una mancanza. Viene da una radice che indica il ‘coprire’ e il ‘lavar via’

Secondo Wayqrà/Levitico 16, il rito templare compiuto dal sommo sacerdote trasferiva i peccati del popolo su un capro espiatorio, che veniva letteralmente ‘coperto’ dei peccati di Israele, e poi mandato nel deserto; in tal modo le colpe erano come lavate via, allontanate e rimosse. Altri sacrifici nel Tempio portavano lo stesso nome, kapparà.

Giusto chiedersi: qual è la differenza tra perdono ed espiazione? Il perdono giunge come l’atto conclusivo di un lungo processo: coscienza di aver peccato, confessione e proposito di non trasgredire più e soprattutto riparazione del danno commesso. L’espiazione è la fase centrale di quel processo – che i maestri chiamano nell’insieme teshuvà – ovvero l’agire che lo riassume e ne garantisce l’autenticità. Il perdono è ciò che chiediamo quando offendiamo o che elargiamo quando siamo parte offesa, ma in un certo senso “dipende” da chi ci perdona o, sul lato opposto, da chi deve chiedercelo (perdonare chi non vuole essere perdonato è un nonsense). Al contrario l’espiazione è sempre nelle nostre mani, come il processo della teshuvà, e dipende soltanto da noi. Per chi lo riceve, il perdono è qualcosa di passivo ed è essenzialmente morale o spirituale; l’espiazione è un agire attivamente che coinvolge tutta la persona, a livello morale o spirituale come a livello materiale, perché deve “coprire il danno”, compensare la trasgressione. A Yom Kippur il processo di teshuvà giunge al suo apice, si completa e si compie – attraverso sentimenti, parole e gesti simbolici come l’astenersi da ogni legittimo piacere della vita – e in tal modo ci purifichiamo. Esternando l’espiazione siamo pronti a ricevere il perdono. Chi pecca (o più laicamente, chi sbaglia) e crede di poter essere perdonato senza espiare, senza fare qualcosa per compensare il male commesso e rigenerarsi, inganna e illude se stesso.

La presentazione di questa festività ebraica a cura di Massimo Giuliani continua a questo link:


 

2 commenti:

  1. Magnifico commento: come Gesù, noi cristiani siamo anche ebrei che continuiamo la spiritualità di Dio Padre e della resurrezione

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  2. Ho trovato questo articolo molto interessante. I punti su cui la mia riflessione si è soffermata di più e che trovo davvero fecondi sono: a) l'idea del passaggio attraverso la privazione, l'assenza, simbolo della morte stessa, per un ritorno più consapevole e gioioso alla vita ( non avevo mai riflettuto su come questa dinamica di morte e Resurrezione sia presente in tutte le religioni e apra ad una diversa prospettiva sulla morte stessa); b) ĺ'idea che se la "mortificazione" è per la vita deve portare ad atti di giustizia e liberazione, di lotta contro tutto ciò che umilia e impedisce al prossimo e a sé stessi la piena realizzazione della vita; c)la necessità di prendere molto sul serio il concetto di perdono e di non banalizzarlo, bensì di coglierne sempre la necessaria relazione con il concetto di responsabilità e riparazione attiva. Grazie!
    Alessandra

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