Proviamo a scavare nel non detto della parabola. Due aspetti del racconto taciuti da Matteo possono aiutarci a leggere la vicenda con gli occhi di Gesù
“Un uomo aveva due figli…”. E il nostro pensiero va subito a un’altra parabola, quella del figlio minore – che se ne va da casa e poi vi fa ritorno – e del figlio maggiore, che è sempre stato nella casa senza mai entrare nel cuore del padre. Qui come là i due non vengono definiti come fratelli, bensì come figli dell’unico padre: sarà lui a ricordare al maggiore di essere fratello del minore; tra loro i due fratelli non parlano mai, né qui né là. Qui come là, uno dei due figli è capace di ricredersi, di mutare avviso, di rientrare in sé stesso e così di entrare nella festa preparata dal padre, di passare avanti nel regno preparato per i peccatori che si convertono. Qui, a differenza dell’altra parabola, è il padre che parla per primo a ciascuno dei due e ci immette nel clima della parabola che Gesù ha narrato nel capitolo precedente di Matteo: c’è un lavoro da svolgere nella vigna e c’è il padre-signore che cerca persone da mandare a lavorare nella vigna.
Ma proviamo a scavare nel non detto della parabola, così netta e provocante nella sua essenzialità e nella sua applicazione alla precedenza di pubblicani e prostitute rispetto a noi. Due aspetti del racconto taciuti da Matteo possono aiutarci a leggere la vicenda con gli occhi di Gesù stesso e non con quello dei suoi interlocutori immediati: i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo. L’evangelista non dice se ciascuno dei fratelli era presente o meno all’invito rivolto dal padre all’altro fratello: hanno ascoltato la voce del padre che chiedeva la stessa obbedienza a entrambi? La risposta di ciascuno – soprattutto quella affermativa del secondo – è stata condizionata dalla risposta dell’altro? Oppure la richiesta di andare a lavorare nella vigna è stata rivolta in privato, magari a ore diverse del giorno, magari alla prima e all’undicesima ora? In altri termini: la nostra risposta alla chiamata del Signore, il nostro tener fede alla parola data, il nostro ricrederci sui rifiuti di obbedienza in che misura è determinato dal parlare e dall’agire di colui che è figlio dello stesso padre e che io non voglio chiamare fratello, sorella né trattarlo come tale? E quanto la nostra risposta è stata condizionata dal calcolo del peso e della fatica della giornata e del compenso pattuito, sperato o preteso?
Dei due figli del padre, inoltre, l’evangelista non ci dice chi era il maggiore e chi il minore. Erano forse gemelli? Magari perfino monozigoti, identici nell’aspetto, ma così diversi nell’abitare il proprio cuore e nell’agire secondo coscienza? In tal caso solo il cuore del padre, solo il suo sguardo di amore avrebbe saputo discernere che il figlio al lavoro nella vigna era in realtà il primo, quello all’inizio disobbediente, e non il secondo, sicuro di sé ma inconsistente rispetto alla parola data. E qui emerge lo sguardo del Signore, il discernimento dello Spirito sulle nostre povere vite di pubblicani e prostitute che pensiamo di essere o vogliamo essere capi dei sacerdoti e anziani del popolo. È il calore dello sguardo del Signore sulle nostre miserie che ci svela la nostra vera identità, ci fa ricredere dalle nostre certezze e vedere la realtà per quella che è, che ci riconduce sulla via della giustizia tracciata dal Battista. È l’amore del padre che ci restituisce ogni giorno la nostra qualità di figli, che ci fa vedere l’altro come fratello, sorella da amare e basta, mentre assieme a lui, a lei lavoriamo nella vigna dell’unico Padre.
(fr Guido di Bose)
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